Pubblichiamo un articolo di Matteo Nucci  uscito su «il Venerdì di Repubblica» in occasione del venticinquesimo anniversario dell’Erasmus.

Roskilde (Danimarca). I campi erano coperti da un sottile strato di ghiaccio e si confondevano nel cielo biancastro. Tutto intorno non si vedevano edifici e io seguivo lo sciame di studenti lungo il viottolo dalla stazione del treno verso quella che sarebbe diventata l’Università di tutti i miei sogni, chiedendomi soltanto dove si trovasse. Non avevo la minima idea di cosa avrei incontrato, in quel giorno di fine gennaio di vent’anni fa, mentre lo studente danese al mio fianco ripeteva: “We’re in the middle of nowhere”. Nel mezzo del nulla, sì. Solo cielo e campi e un freddo assoluto a cui mi ero preparato meticolosamente. Il Gore Tex non era ancora diffuso e io sudavo, imbacuccato in un giaccone che i miei genitori avevano comprato dopo mille ricerche, la sciarpa di lana lavorata dalla mia ragazza, i guanti verdi, regalo benaugurante della mia professoressa di latino e greco al Liceo. La Danimarca allora ci appariva alle soglie del Polo nord. E l’Università di Roskilde affondava in una specie di mito. Perché lì, più che altrove, si scommetteva sul futuro dell’Europa.

L’idea rivoluzionaria in realtà era nata cinque anni prima e benché la sua paternità fosse anche in gran parte italiana, da noi si stava diffondendo lentamente. Portava il nome di un grande europeo, Erasmo da Rotterdam, ma Erasmus era anche l’acronimo di European Region Action Scheme for the Mobility of University Students. Prometteva cioè di facilitare la mobilità degli studenti nelle università europee, fra l’altro rendendo facilmente “traducibili” i voti conseguiti negli esami all’estero. I danesi ovviamente erano all’avanguardia. E l’avanguardia dell’avanguardia era poco fuori Roskilde, un paesino a venti minuti di treno da Copenaghen. Qui, nel 1972, una banda di sognatori di sinistra aveva creato un sistema universitario che scommetteva sul lavoro di gruppo, sull’incontro fra studenti. Così, quando il Progetto Erasmus partì, RUC (Roskilde University Center) rilanciò immediatamente, creando un corso  di studi internazionali, dove si potesse lavorare in inglese, francese e tedesco, con l’obiettivo di creare vere e proprie generazioni di europei. Io fui uno dei primi italiani a partecipare.

Ricordo tutto perfettamente. Sulla porta stava scritto, in grafia femminile, “You’re now entering the Humanities House”. Oltre la soglia, gli studenti con cui si inaugurava l’anno mi vennero incontro offrendomi il caffè che era sul fuoco e una crostata appena sfornata. La House degli studi Umanistici infatti era una vera e propria casa. C’erano la cucina, il salotto e le stanze di cui avrebbero preso possesso i gruppi che si andavano a formare. Il concetto era questo: dieci stanze, dieci gruppi tra i cinque e i dieci elementi. Nelle stanze si poteva anche dormire. Il resto era comune. La cucina, i luoghi per giocare, bere, chiacchierare e infine la sala computer. Mi guardavo attorno esterrefatto. Io che non avevo mai messo le dita se non sulla vecchia Olivetti di mio padre mi trovavo davanti una sfilata di computer collegati a stampanti sontuose. Ovviamente sempre disponibili, anche di notte. RUC infatti non chiudeva mai. Si formò un gruppo che avrebbe prodotto un lavoro di linguistica: c’erano, oltre a me, tre danesi, un argentino, un olandese, un tedesco, una francese.

Oggi RUC è una città. Fuori dalla stazione, i campi in fiore si intuiscono qua e là fra le decine di edifici che sono sorti negli anni, espandendo il campus quasi fino a unirlo con Roskilde. È impressionante. Sembra un gioco di ruolo in cui la mano di qualche ragazzo ha deciso di creare addirittura una specie di piazza del paese. Sono sorti due supermercati, un bar, una farmacia, un asilo per figli di professori e studenti, l’onnipresente fioraio. Ancora in fase di progettazione, la chiesa. In costruzione, un ospedale. Il resto sono case, edifici, biblioteche, studentati, strade e fermate di autobus che spaccano il minuto. Per ritrovare la viuzza principale che conoscevo a menadito, ci vuole un bel po’. La vecchia casa è sempre la stessa. E l’odore delle stanze è inconfondibile: è quel misto di legno, pulizia, libri e efficienza che impregna qualsiasi luogo di studio in Scandinavia. Klaus Schulte mi abbraccia. Ha 66 anni, sta per andare in pensione come Professore Emerito. Ricorda ancora la celebre festa con cui si concluse l’anno accademico, e mi porta nel giardino dove si svolse. Qui alcuni studenti prendono il sole in costume su un grande materasso gonfiabile e intanto ripassano. Schulte, un letterato idealista, mi confessa di aver perso l’ottimismo. “I gruppi che si formano non sono più come un tempo. In gran parte, i danesi lavorano con i danesi e gli Erasmus con gli Erasmus. Le abbiamo provate tutte, tranne istituire una specie di obbligatorietà allo scambio culturale. Da una parte ha prevalso quella chiusura tutta danese che negli anni è stata sempre più forte rispetto all’Europa. Dall’altra certo lo spirito neoliberale aveva preso piede nell’Università già prima che andasse al governo del Paese. Così sono state chiuse funzioni vitali per l’accoglienza e l’integrazione. Il risultato è che oggi gli studenti stranieri conoscono sempre meno i danesi e viceversa. Sono finiti i vostri tempi”.

Schulte ripete che non vuole apparire come “un dinosauro chiacchierone” che fa la lezioncina di retorica nostalgica, dunque mi accompagna a trovare uno dei pilastri dell’Università come qui è concepita: la segretaria, una specie di mamma. Marianne Calundan sta per festeggiare il suo addio e per un attimo stenta a riconoscermi. Ma è solo un attimo. I numeri, qui, giocano tutti a favore di una misura umana impensabile in Italia. Racconta che da vent’anni a questa parte troppo era cambiato, a tal punto che ha preferito lasciare gli studi internazionali: “Per voi stranieri trovavo anche il dentista. Vi invitavo a casa e vi cucinavo. Ma a un certo punto le cose sono cambiate. La lingua francese e quella tedesca sono scomparse. Sono rimasti l’inglese e soprattutto il danese. Molto è dipeso anche dagli studentati che hanno aperto nel campus. Nessun danese viene a vivere qui. Solo studenti Erasmus”.

Forse la città universitaria è diventata un’oasi. E una prigione. Dove ha trionfato quella che negli anni è diventata una nuova forma di vita: la vita Erasmus. In fondo, ovunque nelle grandi città universitarie d’Europa, si è assistito a questa mutazione genetica: feste Erasmus, lingua Erasmus, studio Erasmus, amore Erasmus. Qualcosa di identico e globale ovunque ci si trovi perché raramente ancorato alla cultura del Paese ospitante. Sarà questo il trionfo e la decadenza del sogno europeo? Alberto Miti e Ilaria Roncone, entrambi ventunenni dell’Università di Bologna, mi accompagnano in uno degli studentati del campus. La sera prima hanno festeggiato. Nessun danese. Durante il semestre hanno lavorato assieme in un gruppo formato con uno spagnolo e un olandese. Oggetto di lavoro: la retorica berlusconiana. “I danesi sono chiusi e freddi, come il clima. Spesso ti escludono parlando in un’altra lingua. La sera del weekend si ubriacano. In casa d’inverno, in strada d’estate. Difficilissimo conoscerli”.

È venerdì: in giro professori e studenti festeggiano. “Il rapporto amichevole, informale, con i professori è la cosa più bella che abbiamo scoperto” dicono loro. Sul prato di fronte alla biblioteca si gioca a biliardino, si beve, si mangia, si cucina alla brace. Alberto e Ilaria si fermano. Li saluto. Entro nella nuova biblioteca. È immensa. Nella sala letture al tempo avevano tutti i giornali italiani, compreso Il Manifesto. Ora nulla. Ma la facilità con cui si trova un libro o una rivista ripaga anche di questo ennesimo cambiamento. In fondo, oltre alla cultura Erasmus radicalmente cambiata via via che la globalizzazione (con i suoi telefonini, i suoi social network e le sue mail – vent’anni fa inesistenti) ha preso piede, c’è ben altro. Ossia, un gap di ricchezza che è aumentato in maniera impressionante. Quando atterrai la prima volta all’aeroporto di Copenaghen, presi un autobus, il 32, che portava al centro della città in mezzora. Oggi, oltre agli autobus, c’è un treno stellare che collega addirittura la Svezia con il grande ponte che nel 2000 ha unito Copenaghen e Malmö. E c’è anche la possibilità di prendere una metropolitana. I tempi di percorrenza si sono più che dimezzati. Nel ’92 in Italia si era appena inaugurata la Stazione Ostiense da cui partiva il Leonardo Express per Fiumicino. Sembrava un miracolo. Ma finì in fretta. La “grande opera” è rimasta una cattedrale nel deserto per vent’anni. Oggi, la notizia è che aprirà i battenti un noto ristorante d’élite. Il Leonardo Express intanto continua a partire da Termini. È un treno sgangherato. Ci mette cinque minuti in più.

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1 commento

  1. Nel 1952, l’allora rettore dell’Università di Padova, l’archeologo Carlo Anti, insieme ad alcuni altri docenti illustri dell’ateneo (a quell’epoca e ancora per qualche decennio ancora uno dei migliori d’Europa e non solo) creò a Bressanone un centro estivo universitario che nel loro progetto doveva essere una università europea di studi di alta cultura. L’idea era di tenere dei corsi durante l’estate sia con docenti dell’università di Padova che con nomi illustri di altre università straniere e ospiti di fama. In effetti fu così. Storici dell’arte, letterati, classicisti, poeti animarono non solo i corsi estivi, ma la bellissima cittadina, che tra luglio e agosto pareva una piccola Atene. Fu costruita una struttura che ospitasse le attività, una piccola casa dello studente, dove gli studenti potevano alloggiare e trovarsi. Ma, già tra la fine degli anni 60 e i primi 70, con l’uscita di scena degli illuminati che avevano dato vita a quella che doveva essere un’idea rivoluzionaria, il tutto si era trasformato in una dependance estiva dei corsi e in una sessione in più per dare degli esami.
    Di fatto quello a cui è ridotta oggi: uno squallido esamificio, con corsetti di docenti appartenenti a poche facoltà scientifiche che alla fine del breve corso fanno una veloce sessione di esami.
    Ora, l’idea di uno scambio a livello europeo era non solo anticipatrice, ma geniale. L’ottusa direzione e gestione caduta nelle mani di travet, di galoppini della in-cultura che poi il tutto ha subito, ha spento ogni cosa.

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matteonucci@minimaetmoralia.it

Matteo Nucci è nato a Roma nel 1970. Ha pubblicato con Ponte alle Grazie i romanzi Sono comuni le cose degli amici (2009, finalista al Premio Strega), Il toro non sbaglia mai (2011), È giusto obbedire alla notte (2017, finalista al Premio Strega), e il saggio narrativo L'abisso di Eros (2018). Con Einaudi ha pubblicato traduzione e commento del Simposio di Platone (2009) e i saggi narrativi Le lacrime degli eroi (2013), Achille e Odisseo (2020), Il grido di Pan (2023). Per HarperCollins sono usciti il romanzo Sono difficili le cose belle (2022) e il saggio narrativo Sognava i leoni. L'eroismo fragile di Ernest Hemingway (2024). I suoi racconti sono apparsi in riviste, antologie e ebook (come Mai, Ponte alle Grazie 2014), mentre i reportage di viaggio e le cronache letterarie escono su La Stampa e L'Espresso. Cura un sito di cultura taurina: www.uominietori.it

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