Più è sacro dove più è animale il mondo
Pasolini
I. L’ora del lupo

Il piacere chiede profonda eternità, si sente cantare in polacco in Morte a Venezia di Visconti mentre Aschenbach barcolla verso la poltrona da spiaggia prima di morire col trucco che cola su viso e Tadzio prossimo irraggiungibile in ponderatio sul mare che indica l’orizzonte col braccio teso. Sono versi di Nietzsche. Ma cos’è il piacere, appunto. La città è paralizzata nella quarantena della peste, le calli sono luride di verdure marce e annerite dai roghi da cui si leva fumo scuro e fetido. Il compito austero compositore non ha più scritto un singolo tratto di partitura e si è ridotto a un gagà impomatato che insegue ridicolo e febbrile un efebo mentre la fronte scotta e il corpo collassa. Le prime sottili avvisaglie erano affiorate quando di ritorno all’hotel del Lido per le valigie smarrite, costretto a ripiegare sulla città già percorsa dai sintomi della epidemia ma che consente così forzosamente di posare ancora gli occhi su Tadzio, Aschenbach sorridente come uno scolaretto che marini la scuola si era slacciato il colletto. Già nei suoi scritti dopo il Primo Conflitto Mondiale e in quelli su narcisismo ed epilessia, Freud aveva rivisto profondamente i suoi studi e le sue convinzioni sull’Es e la libido, riscontrando una oscura ambivalenza nelle coazioni a ripetere, ben oltre la tensione a ristabilire un equilibrio irrisolto.
Stare bene non completa ciò che desideriamo. Sicurezza, pace interiore esteriore, appagamento fisico non esauriscono le nostre spinte più profonde. Ci sono regioni dentro di noi che desiderano linguaggi al di là del senso di protezione e appagamento, che bramano il rischio, il contagio, l’infezione, persino la propria distruzione, il superamento di tutte le staccionate che paiono assicurare la nostra individualità. Farsi aprire, lacerare, mangiare e raggiungere così un noi stessi a noi irraggiungibile. Un secolo dopo Mann e Freud, R. K. Morgan in L’Oscurità profana ha raccontato la stessa dinamica – espressa nel titolo del romanzo medesimo– nell’incontro del protagonista con un cadavere animato dalla Dea dei dadi e della morte:
Molto lentamente, il cadavere alzò entrambe le mani all’orlo del cappuccio che indossava. Alzò la stoffa nera, scostandola dal viso che celava.
A Ringil si mozzò il fiato in gola.
Con uno sforzo di volontà, ricambiò lo sguardo di Firfirdar. Il cadavere che lei aveva scelto non era un orrore in putrefazione, tutt’altro. Eccetto il pallore rivelatore e le borse sotto gli occhi, era un viso che poteva appartenere ancora a un essere vivente.
Ma era bellissimo.
Un viso di giovane dai lineamenti delicati, divorato dalla tisi, che saresti stato pronto a baciare rischiando il contagio. Un viso cui abbandonarti di notte in un vicolo buio, per poi svegliarti la mattina seguente e passare mesi affannosi a ricercarlo inutilmente per le strade. Un viso che ti chiamava e rendeva futile ogni pensiero di sicurezza e buon senso. Un viso da cui saresti andato con gioia, quando fosse stato il momento; senza rimpianti, lasciandoti dietro solo un lieve sor riso agonizzante, impresso sulle labbra che si raffreddano.
«Adesso mi vedi, Ringil Eskiath?» chiese la voce, bisbigliando, sibilando.
A sua volta a un secolo di distanza dalla versione originale di Murnau, che alle intuizioni di Freud e Mann aveva fornito un specchio oscuro nel perturbante dell’Espressionismo tedesco, il Nosferatu di Robert Eggers – film ricco e dai molti pregi – cui si può imputare semmai un eccesso di linearità ed esplicitezza nella sua parabola– brandisce programmaticamente lo stesso nodo dalla sua prima battuta, refrain variato del film intero così come il binomio ambiguo Provvidenza–Fato: Vieni da me, sussurrato pregato nel cuore della notte che rovescia i linguaggi del giorno in un sogno da sonnambula della protagonista che culmina in uno strangolamento–coito–stupro sovrapposto a una crisi epilettica.
La traduzione del doppiaggio italiano (Lui sta arrivando) non permette sempre di cogliere l’evidente eco richiamo in altre battute di Hellen e Herr Knock, sempre riguardanti il vampiro temuto e adorato – He is coming…I am ready…Come to me – nella loro dimensione sessuale e il richiamo all’estasi – una ambiguità che percorre tutta la mistica religiosa– in quante lingue del mondo si dice Sto venendo per l’orgasmo e cosa cerchiamo di dire con questo?– e compare persino nel lampo che trafigge Dante per il fulmine che in sua voglia venne e fa balzare fuori di sé e in seguito al quale si crolla giù respirando dolceamaro. In Nosferatu di Eggers ciò – come in Freud – è sovrapposto al senso di libertà che la morte stessa comporta. Non ero mai stata così felice, ammette ridendo piangendo Hellen nel raccontare il suo incubo del proprio matrimonio che si stravolge in una strage.

II. Post vittoriani, abbiamo sempre abitato nel castello
È significativo e in una certa misura persino impressionante notare come la nostra società–dal punto di vista immaginativo– risulti ancora così influenzata da elementi mersi nella società tardo ottocentesca. Alcuni degli archetipi più vitali risalgono comunque all’età vittoriana. Come alcune delle scoperte tecnologiche e scientifiche più intrecciate alle nostre esistenze individuali e ai linguaggi collettivi di oggi risalgono comunque a delle ur–versioni di quel periodo (da trasporti all’elettricità al telefono al cinema….) così è delle storie e i personaggi che spesso di quelle medesime protesi ed espansioni della nostra personalità costituiscono il lato in ombra della luna.
Conflitti tra apollineo e dionisiaco, il complesso di Edipo, la tensione orizzontale e/o verticale tra forma e pressione vibrante, tutti contrasti che andavano a scuotere i pilastri della società borghese convergevano nei classici dell’orrore della società vittoriana, in una sorta di obliqua e feconda terza via rispetto al realismo francese e allo psicologismo russo. Jekyll–Hyde (la cui versione addomesticata in chiave comic sarà poi Hulk, e quella ben più perturbante verrà approfondita da Psycho e Il Silenzio degli innocenti, a loro volta trasformazione del vecchio mito del Licantropo), persino l’estetismo di Dorian Gray (che si ripresenta pure nel recente e fin troppo moralistico The Subtance) sono tutti imperniati sulla lotta tra apparenza, forma e autentica sostanza della vita interiore. Ciò è ancora più esplicito ovviamente in Dracula di Stoker, con la sua minaccia di stregoneria, sesso e morte che dall’oriente arcaico e selvaggio dell’ Europa orientale giunge a infettare per nave la società vittoriana (In Salem’s lot King compirà un esplicito tributo meta letterario: col suo vampiro Barlow saranno l’Europa intera e il suo fascino oscuro a trasferirsi nell’Almerica di provincia) suscitando pulsioni che possono essere palesate ed esorcizzate drammaturgicamente proprio perché vengono dall’esterno, e ne viene respinto dal progresso positivistico e dalla fede cristiana (non senza la guida però di un mentore aperto all’occulto come “l’altro” straniero del romanzo, ossia Van Helsing, e al contribuito veggente di Mina Harker).
La prima vittima del conte transilvano si chiama programmaticamente Lucy Westerna, luce d’occidente, e la sua dinamica col vampiro è ben sintetizzata da Stephen King, di su questi medesimi contrasti ha imperniato la sua narrativa fin da Carrie:
“La ragazza si era inginocchiata, si era protesa su di me, e mi divorava con gli occhi. C’era una manifesta voluttà insieme elettrizzante e nauseabonda, e mentre lei inarcava il collo si leccava le labbra proprio come un animale; al chiarore della luna ho potuto veder scintillare le labbra umide e scarlatte, la lingua rossa lambire i denti bianchi e appuntiti… Poi si è fermata e ho ascoltato il risucchio della lingua che leccava denti e labbra, ho sentito il fiato caldo sul collo… Ho percepito il tocco morbido e fremente delle labbra sulla pelle sensibilissima della gola, la pressione dura di due denti aguzzi che sfioravano appena e si arrestavano. Ho chiuso gli occhi in un’estasi di languore e ho atteso, atteso con il cuore che batteva forte.” Nell’Inghilterra del 1897, una che «si inginocchiava» davanti a un uomo non era il genere di ragazza da portare a casa per presentarla alla madre; Harker sta per essere stuprato oralmente e l’eventualità non pare preoccuparlo neanche un po’. Nulla da eccepire, perché non ne è responsabile. In fatto di sesso, una società rigidamente moralista può trovare una valvola di sfogo nell’idea del male che arriva dall’esterno: questa faccenda è più grande di noi due, bellezza, come si suol dire…. Le reazioni di Lucy al morso del conte somigliano molto a quelle di Jonathan per le spettrali sorelle. Tanto per essere chiari, Stoker ci lascia intendere con relativa raffinatezza che Lucy sta venendo come un treno. Di giorno, una Lucy sempre più terrea, ma impeccabile e apollinea, tesse il suo irreprensibile e decoroso idillio con lo sposo promesso, Arthur Holmwood. Di notte, se la spassa in dionisiaco abbandono con il suo seduttore tenebroso e sanguinario.
Già lo avevano insegnato le Baccanti di Euripide: l’oscurità selvaggia ed estatica che si vorrebbe bandire fuori delle geometrie dei rapporti sociali ordinati, irrompe dalla finestra e si prende una terribile rivincita. Quelli di Dracula e Jekyll sono gli stessi anni della dilagante fascinazione per il mesmerismo e ipnotismo e le fughe di piacere fisico che consentivano spesso a donne oppresse in una mutilazione pressoché sistematica del rapporto col proprio corpo. Così come si trattava naturalmente dei medesimi decenni degli studi sull’isteria e la malinconia, prima di Charcot e poi di Freud medesimo, e la scoperta della “nuova America,” ossia l’inconscio, in una società basata invece sul sorvegliare, punire e reprimere, variando Focault (su simili tematiche storiche e culturali in Italia si può ricordare l’interesse saggistico e narrativo di Wu Ming). Nel Nosferatu di Eggers Hellen, afflitta da malinconia e crisi convulsive che mimano un coito senza vergogna, viene legata al letto e cloroformizzata col corpetto addosso dai più o meno benintenzionati medici illuminati e imbarazzati anfitrioni. Slegatela immediatamente, ordina il Van Helsing/Eberhart von Franz.
Thomas Hutter – Jonathan Harker stesso non viene dissanguato dalle vampire del Conte, ma dal Nosferatu stesso – sovrapposto alla sua Hellen che geme e gode a distanza, in una chiara dimensione di stupro omosessuale che lo fa levitare in un mare di piacere tanto temuto quanto liberante. L’ambivalenza di questa minaccia-seduzione viene palesata nel film medesimo da una domanda di Hellen a a Von Franz che la visita per la prima volta. Il male viene da dentro di noi o viene dall’aldilà? Non segue alcuna risposta, perché una simile alternativa non si pone.
III. Lasciatemi due ciocche dei vostri capelli e aiutate mia madre a intrecciarle in un arco per me
Riflettendo sulla prosa fantasy di Eddison, C. S, Lewis notava che Il segreto è in gran parte lo stile, e soprattutto lo stile del dialogo. Queste persone orgogliose, avventate e passionali creano se stesse e l’intera atmosfera del loro mondo principalmente parlando. È una riflessione che si può attribuire anche ai film di Eggers nei loro momenti o assi più compiuti, quello di un peso credibile alle spalle delle vicende e dei personaggi che spesso restituisce quello che crediamo di conoscere liberandolo dai filtri che lo addomesticano. Megere nude su scope volanti, sirene che strillano come gabbiani sugli scogli, incursioni di guerrieri berserk posseduti dalla trance della battaglia tornano a spiccare nella loro forza originaria, e vengono accolte dallo spettatore tanto con stupore quanto con una sorta di inconscio riconoscimento e benvenuto. The Witch era imperniato sui fondamenti della società occidentale moderna e gli scrupoli e l’etica protestante dal capitalismo in lotta di espansione contro la pressione di tutto quell’oltre “prima e sotto” incarnato dalla selva delle streghe e del diavolo, e alla fine i ceppi di legno ricavati da quegli stessi alberi tranano sul pater familias investito dal capro nero che forse non è solo una bestia imbizzarrita.
The Lighthouse – al momento l’opera più riuscita di Eggers – fondeva Melville, Poe, Coleridge coi tentacoli di Lovecraft, il fuoco di Prometeo e la storia di tutte le storie tra maestro discepolo, padre e figlio, doppio, nemici, innamorati, confidenti, nelle gelosie e volenze e segretezze del linguaggio maschile. The Northman coi suoi riti di iniziazione scanditi dai ritornelli dell’Edda, gli scambi di elogi e minacce che ricordano Njall o Egill, gli spettri dei tumuli del Beowulf e Nikole Kidman che smontava un intero storytelling eroico avanzando illuminata dal fuoco come Boris Karloff si proponeva di tornare alle sorgenti norrene dell’Amleto e guardare al mondo miticamente, gravati dal peso di un universo dove ogni parola ritorna inesorabile e il conflitto e il suo possibile superamento è quello che corre tra un mandato familiare e di schiatta schiacciante tutto verticale – il culto maschile e paterno degli dei della vendetta e del regno – e la sapienza tellurica della terra dei boschi di betulle e dei venti di Ofelia–Olga.
Tutto questo avveniva anche in virtù dei gesti e del linguaggio stesso, come nella notazione di Lewis su Ouroboros, con cui i personaggi si presentano e si guardano vivere e agire, dai monologhi shakespeariani per una critica culinaria alle confidenze con la propria spada stregata.

In Nosferatu, rispetto all’ambientazione claustrofobica dei primi due film di Eggers, e ai passaggi tra mondi diversi filtrati però da un singolo individuo del terzo, la dialettica si stabilisce pressoché da subito tra luoghi diversi che si influenzano a vicenda nella polarità principale Hellen– Orlok, Hamburg–Carpazi, una tensione che si accorcia sempre più, da spazi lontani a due case nella stessa città fino a una singola stanza coi due protagonisti assieme, un elemento già presente nello Svengali di Mayo che lo stesso Eggers ha citato come fonte d’ispirazione. Rispetto a tale avvicinamento progressivo, le altre vicende e morti risultano per lo più marginali e il tempo e lo spazio loro dedicato non gli permettono di costare “molto” allo spettatore. Ciò è comunque dovuto alla rilettura del rapporto Orlok–Hellen. Per ammissione stessa del vampiro, questi si trasferisce in occidente non perché vuole conquistarlo di per sé, ma perché Hellen stessa è l’ossessione che lo ha ridestato “una seconda volta” dalla sua tomba, dall’esistenza da bestia paga della sua tana.
Murnau aveva già ridotto l’intreccio del romanzo di Stoker coi suoi diari, telegrammi e appunti stenografici all’essenzialità della fiaba e del folklore invertendo il flusso del lungo filtro e processo di aristocraticizzazione del vampiro dopo le isterie da contagio del diciottesimo secolo nei Balcani. Altri riferimenti, al di là di quelli costanti alla parabola originale del film muto, vanno cercati nelle ambiguità interpretative e l’impiego del non–visto ai bordi oscuri dell’inquadratura e la repressione erotica e violenta di The Innocents di Clayton, l’irruzione di una potenza magnetica esterna, che manipola abusa e pilota con una voce che in sé veicola il potere di tutto un altro mondo del già citato Svengali, le crepe e le inquietudini che affiorano nell’ordine della società altoborghese, dei suoi riti e linguaggi di Angels and Insects fino allo squarciarsi vero e proprio del linguaggio di coppia e delle relazioni familiari a far emergere il caos e il terrore e il desiderio cieco in Sussurri e grida. Non mancano pure autocitazioni dai film di Eggers medesimo (il monologo delirio di Anna Harding appestata come quello erotico–salmodiante di Caleb, Kock nudo e grinzoso che si carezza nel cerchio stregato come la fattucchieria dallo stesso The Witch.

IV. Hic sunt leones
Il morto che torna a cibarsi di sangue costituisce uno dei tarocchi maggiori dell’immaginario universale, dalla “Nekyia” dell’Odissea. Un processo di ritorno continuo, tra banalizzazioni rassicuranti come Twilight e similia– sulla lunga scia che a sua volta riproduce e annacqua Jane Eyre– e improvvisi sussulti di forza quali Lasciami entrare. Dracula di Coppola e Intervista col vampiro di Jordan sono tra gli ultimi esempi davvero riusciti di traduzione del topos ottocentesco dell’aristocrazia maledetta e romantica, al groviglio di necrofilia, bisessualità omosessualità pedofilia nel contagio che isola ed elegge del vampiro, con Intervista che chiaramente si richiamava pure alla piaga dell’Aids alla fine degli anni ‘80. Ora quella medesima fascinazione per il “bello e dannato” e la contestazione del modello etero normativo dell’eroe e dell’eroina “solari” è assai facile – fin troppo talvolta – e diffusa. Rispetto all’Orlok – Orco di Murnau e alla dolente malinconica freakness di Kinski in Herzog, il Nosferatu di Eggers – Skaasrgad ambisce al tempo stesso a recuperare l’orrore del morto che cammina del folklore balcanico settecentesco sia una maggiore aderenza alla descrizione originaria del conte–stregone di Stoker, lunghi baffi alla Vlad Tepes sul viso segnato, una ricca ma tarlata pelliccia sulle spalle, e anche in questo caso una costruzione del personaggio basta essenzialmente sul suo eloquio di altero nobile magiaro, che detesta sentirsi nominare le scaramanzie degli zingari ed è consapevole di appartenere a un mondo ben più antico di quello rassicurante della borghesia occidentale.

Anche così egli recupera quegli elementi di forza minacciosa e rapacità sessuale – il vampiro stupra per via orale uomini e donne, non immette un fluido vitale ma lo succhia via – che Stoker e Polidori prima ancora avevano infuso ai loro Lord non–morti dalla mascolinità imponente e magnetica (un transfert piuttosto esplicito dei loro nodi irrisolti rispettivamente verso i propri datori di lavoro, ossia George Byron e Henry Irving) che a sua volta attrae e soggioga in una palesa dinamica servo – padrone il discepolo del mostro – Herr Knock–Renfield, che del mito del vampiro costituisce la demistificazione concreta, ciò che davvero troviamo allo specchio nei gesti e nelle aspirazioni dei serial killer, basti pensare a Martin di Romero. Costoro – come noi – vorrebbero credersi principi della notte svincolati da ogni morale, si offrono con devozione a un ideale tenebroso che sperano li innalzi e li riscatti, consenta loro di vendicarsi rispetto ai torti e alla ignoranza del mondo. In realtà vivono la vita miserabile di chi deve mordere topi, piccioni, inservienti che tentano di immobilizzarli. Il vampiro emerge così tanto dal passato che dal confine spaziale, dai bordi della mappa di cui ci compiacciamo di crederci al centro, un rimosso o relegato che cerchiamo di dimenticare e invece ci circonda. Per chi scrive, sebbene si tratti di pochi istanti, uno dei passaggi più suggestivi del film è proprio l’ingresso di Hutter nel paese dove festeggiano e danzano gli zingari, che improvvisamente osservando l’occidentale scoppiano– senza motivo apparente, a ridere (i cinefili nostrani non potranno evitare di ricordarsi l’ingresso del villaggio nei vari horror di Mario Bava e – perché no, ammettiamolo – persino in Fracchia contro Dracula).
V. Il portiere di notte
Certamente Nosferatu per la sua natura di remake riassume e ripercorre una così lunga storia, fondendola, tradendola ossia trasportandola innanzi e mescolandola con altro ancora, ma il percorso e il passo che lo consente è dovuto al perno autentico del film e in un certo senso alla rason d’etre della sua riscrittura ossia alla relazione di Hellen con Orlok, che viene anticipata a una serie di sogni coiti fin dalla giovinezza connotandola al tempo stesso come una versione fantastica del rapporto abusante–abusata, ma al tempo stesso come una valvola di sfogo e realizzazione per una vocazione repressa che alla luce del giorno e nelle ordinarie strutture borghesi viene incasellata come malinconia, fantasia, depressione, isteria.

Il male oscuro di Hellen è la maledizione che l’ha legata a Orlok ma anche la manifestazione più immediata di uno spazio interiore “altro” e una capacità di incisività e interscambio rispetto al mondo che possiamo solo definire come magico. In ciò Orlok è stato anche e comunque un segreto e radicale conforto, la possibilità di essere abbracciati nella propria oscurità e non nonostante essa. Tu non appartieni a questo mondo, le ripete. Se in The Witch solo alla fine del film la protagonista, insozzata del sangue della propria madre, nei primi mesi del suo mestruo, si sentiva finalmente chiedere dal demonio Che cosa vuoi? In Nosferatu il dialogo segreto prosegue da molto più tempo ed è stato interrotto proprio dal solare e rassicurante matrimonio con Hutter, che però al pari di ogni esistenza “normale” procede per soppressioni, acquisti e implicite violenze. Perché li hai uccisi? chiede Hellen al marito che le porge un mazzo di fiori. Troppo sangue, sentenzia Von Franx tastandole l’utero, traduzione biologica dell’”affettività enorme” degli epilettici in Freud. Le sue crisi di pianto, il suo corpo e la sua psiche che si torcono inarcano sporgono la lingua e parlano con le parole del demone–amante sono il campo di questa battaglia che non a caso Hutter cerca di vincere in una vera e propria gara sessuale contro il terzo incomodo della relazione.

Ribaltata, la prospettiva carnefice–vittima si concentra sulla forza di una personalità cui il vampiro confida Tu mi hai tirato fuori dalla tomba. Tu mi hai sedotto, incantatrice. È il linguaggio di ogni abusatore– “Tu me l’hai fatto fare”– ma è anche la verità di chi a sua volta intravede finalmente la possibilità di una compagna capace di abbracciarlo per ciò che è e che non può forzarla davvero senza consenso, né lo vuole, al pari di Svengali. Come ne Il Portiere di notte di Cavani, si assiste così a una sorta di mutuo abbraccio–processo–punizione, la morte diventano la notte nuziale in cui carezzare un corpo tanto possente quanto increspato dalla piaghe, giocando con esse, l’abbraccio atteso, in fondo da entrambe le parti, l’inganno del corpo di Hellen offerto la cui vittoria drammaturgica è nel suo sentore di profondo realismo psicologico, non perché così già avveniva nell’originale ma perché così è l’esistenza umana e insieme nella montante forse inaspettata e per questo ancor più forte pietà per Orlok stesso.

Due frasi di Von Franz forniscono una chiave per gli elementi che ho provato ad elencare. La prima è tanto aderente alle inquietudini del positivismo ottocentesco quanto al nostro facile scientismo consumistico e se The Lighthouse era nelle intenzioni del regista un film che potesse far dibattere Freud e Jung, Nosferatu si schiera senza incertezze nella fazione dello psicoanalista svizzero: Ho visto cose in questo mondo che farebbero strisciare Isaac Newton nel grembo di sua madre. Non siamo tanto illuminati quanto accecati dalla luce gassosa della scienza. Ho lottato con il diavolo come Giacobbe con l’angelo a Penuel, e vi dico che se vogliamo domare le tenebre, dobbiamo prima affrontare il fatto che esistono. Mentre i topi scorrazzano come in Camus, il mercante navale Harding– con la sua segreta avversione per la condizione malinconica e gli umori a sobbalzo di Hellen– resiste, si oppone, e va in pezzi. La seconda più significativa ancora nella sua denuncia del nostro vuoto di sacro “autentico”, vasto, ambivalente e non rassicurante nel suo manicheismo è rivolta a Hellen stessa. In un altro tempo, lei sarebbe stata una grande sacerdotessa di Iside. “La riscoperta del mito è uno dei segnali che siamo ormai entrati in un orizzonte di pensiero post–illuminista”, ha notato la teologa Marinella Perroni.
Proprio per questo non c’era forse necessità che lo scienziato–alchimista ribadisse con una chiusa che rischia di risultare troppo rassicurante la natura del sacrificio di Hellen al termine di un film che non insegue la corrente dei tempi ma certamente ne abbraccia i nodi più oscuri e diffusi proprio tornando alla radicalità senza sconti della fiaba e proprio così riesce attraverso la paura e l’attrazione per il contagio e l’infezione, a raccontare le quarantene del Covid, le violenze sessuali e psicologiche, il confinamento dell’espressività femminile, la fame di magia e di un “oltre” per affrontare e abbracciare ciò che non sappiamo più nominare e fronteggiare. Tenebre e Luce hanno pari dignità, insegnava Eschilo. Zingari e monache ortodosse lo sapevano, invece, forse lo sanno ancora oggi e piangono o ridono del nostro zoppicare sempre meno sicuro in un mondo che vorremmo governato da una Provvidenza che è mero specchio delle nostre aspirazioni e letture confortanti e invece è circondato e abbracciato notte e giorno senza sosta dalle acque scure del Fato.
Edoardo Rialti scrive per “L’Indiscreto” e “Il Foglio”. È traduttore per Mondadori delle opere di R. K. Morgan, G. R. R. Martin, J. Abercrombie. Ha curato opere di Shakespeare, Wilde, C. S. Lewis. È autore delle biografie letterarie di C. Hitchens e J. R. R. Tolkien.

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