
di Caterina Panetta
L’arte giapponese esposta in un palazzo romano, dove uno si aspetta gigantesche figure eroiche gonfie di muscoli che incombono dai soffitti affrescati, ricorda un po’ una meditazione zen organizzata tra i fuochi d’artificio di una festa di Capodanno. Quasi un paradosso di Zenone che quest’anno, a Roma, si è ripetuto per ben due volte: a Palazzo Braschi con la mostra UKIYOE. Il mondo fluttuante. Visioni dal Giappone, conclusasi a giugno, e al Museo Napoleonico con Giuseppe Primoli e il fascino dell’Oriente in mostra fino ai primi di settembre. Entrambe le mostre hanno rappresentato un tentativo riuscito di raccontare un aspetto poco conosciuto – e immensamente affascinante – del collezionismo italiano. Raccontare il Giappone, o l’idea del Giappone, con un linguaggio mediterraneo è stata una scelta di grande creatività.
Entrambe le esposizioni fanno parte di una serie di eventi culturali, in più città, sul collezionismo in Italia di arte giapponese tra il XIX e il XX secolo (Torino, Firenze, Milano, etc.), nell’ambito della “diversità di atteggiamenti da parte della società europea verso tutto ciò che proveniva da lontano” ci spiega Enrico Colle, direttore del Museo Stibbert di Firenze e organizzatore di uno di questi numerosi eventi. È ancora lui a dirci che “I manufatti extraeuropei negli interni dell’élite europea fungono, non solo da segno di cosmopolitismo e universalismo, ma anche da tappe del nostro decentramento culturale.”
L’interesse italiano per la cultura Giapponese, vivo da sempre, si è rinverdito nel 2016, in occasione del 150° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Giappone e Italia. Relazioni che ebbero inizio nella seconda metà dell’Ottocento, come sempre per esigenze commerciali; l’industria della seta lombarda ricercava bachi da seta a basso costo che non fossero affetti da pebrina, una grave malattia. Da allora se ne è fatta di strada, passando per una serie di tappe: la moda della veste da camera, ispirata al kimono, indossata dalle signore dell’Italia Bene nei primi anni del Novecento, l’Asse Roma-Berlino-Tokyo, l’innovazione tecnologica e i cartoni animati degli anni Settanta e Ottanta, Kenzo Tange e Patty Pravo in versione geisha al Festival di Sanremo nel 1984.
C’è anche da dire che Italia e Giappone, dal Secondo Dopoguerra in poi, hanno avuto una storia simile: il passato rurale, i terremoti, il boom economico scaturito in larga parte dal supporto americano, l’affermazione nel mondo automobilistico, la lunga recessione economica iniziata negli anni Novanta, il debito pubblico. Ad oggi, il rapporto Italia-Giappone è da inquadrarsi soprattutto nell’ambito G7/G20 e nell’attenzione via via crescente dell’Unione Europea per la regione dell’Indo-Pacifico.
Ma torniamo a noi. A Roma, le curatrici degli eventi citati – Rossella Menegazzo (Palazzo Braschi), Barbara Drudi e Valeria Petitto (Museo Napoleonico) – sembra non abbiano saputo resistere al fascino della fastosità barocca, nonostante provengano da contesti accademici molto diversi. Ne risulta un confronto insolito, e quindi interessante, tra due tradizioni artistiche opposte, ossimoriche.
Mi spiego. Visitare un museo d’arte a Tokyo, o a Kyoto, è un’esperienza che ha qualcosa di distopico. Intanto si parte sempre dall’ultimo piano per finire al primo, naturalmente diretti verso l’uscita. Mi ha ricordato Linus di Radio DJ che, nelle sue trasmissioni, per anni ha raccontato di parcheggiare il motorino sempre con la parte anteriore rivolta alla strada, pronto per andare via. Inoltre, le collezioni permanenti quasi non esistono, come non esistono in quella tradizione supporti pittorici che abbiano a che fare con la struttura del palazzo o con la robustezza; niente intonaco per gli affreschi, niente tavole di cipresso o ciliegio. Piuttosto, nei secoli si sono preferiti materiali come la carta di riso o la seta. Periodicamente, i paraventi, le pitture kakemono, i rotoli con le storie dei monaci itineranti, i kimono, le spade, le armature dei samurai vengono sostituite con oggetti simili ma con temi decorativi diversi. I soggetti hanno in genere a che fare con la bellezza della natura: l’attorcigliarsi di steli e foglie nelle piante di uno stagno, la linea aggraziata del collo e il piumaggio di uccelli particolari, l’eleganza dei cervi di Nara che brucano l’erba, i tronchi degli alberi in un bosco che, grazie al nero dell’inchiostro, finiscono per assomigliare ad antichi ideogrammi cinesi. Sulle pareti e nelle teche dei musei l’approccio è minimal: si vedono poche cose, esposte ad una certa distanza l’una dall’altra proprio per farle risaltare nella loro essenzialità. Non c’è affastellamento, né sovrapposizione. Nessun eccesso decorativo. Ciò che conta nell’estetica giapponese è proprio l’idea di vuoto che “riempie”, oltre a concetti quali il tempo, la metafora e il significato simbolico nascosto, come ci spiega Gabriele Suma nel blog Storia in poltrona:
“Il vuoto diventa il tessuto che regge i significati come una ragnatela invisibile che sostiene le particelle intrappolate della materia. […] Dunque il Bello inteso come perfezione assoluta è ciò che circonda quello che contempliamo, non il soggetto stesso davanti ai nostri occhi. Nelle opere artistiche giapponesi della tradizione più antica i soggetti sono avvolti da sfondi multicolori o astratti, immersi nell’universo come consapevoli di essere intrappolati dallo sfondo che incombe.” Lo sfondo è un angolo di infinito; rappresenta l’universo ed è pieno di vita. La bellezza viene espressa con sobrietà, indugiando sul dettaglio, sulla fragilità insita nei supporti scelti o sulla celebrazione di semplici momenti di vita quotidiana, estrapolati dallo scorrere del tempo. Rossella Menegazzo, esperta di storia dell’arte e cultura giapponese dell’Università degli Studi di Milano, ce lo spiega bene: “Tra le qualità che definiscono e rendono immediatamente riconoscibile l’arte, l’artigianato e il design giapponesi vi è la semplicità. Una semplicità che viene declinata come essenzialità delle forme, povertà dei materiali, aderenza alle imperfezioni della natura e insieme cura dei minimi particolari. Si tratta di un concetto di semplicità lontano dalla razionalità che ha caratterizzato la modernità occidentale, perché trova fondamento innanzitutto nel pensiero animista e shintoista che sottende a tutta la cultura giapponese, un concetto in cui il vuoto spaziale (“ma”) implica la potenziale presenza del divino. A questo pensiero primigenio, fortemente legato alla potenza degli eventi naturali che continuamente segnano la vita dell’arcipelago e della sua gente, si è aggiunto a partire dal XIII secolo quello buddhista proveniente dalla Cina, in particolare dello zen, che ha integrato un ulteriore concetto legato al vuoto (“ku”) per cui sottrarre diventa importante quanto riempire.”
Nulla che sia eterno e immutabile poiché il mondo in cui viviamo è appunto, fluttuante ovvero una realtà effimera fatta di godimento e mode, in cui tutto si trasforma perennemente. L’idea della bellezza che non dura ce la trasmette anche la famosa fioritura dei sakura che è un po’ l’unica cosa che viene in mente a noi occidentali quando pensiamo al Giappone. In un convegno tenuto a Tokyo nel lontano 1968, Toyomune Minamoto, professore dell’Università di Kyoto, disse: “Nel guardare le cose le concepiamo non come sostanza, ma come immagini libere da qualunque senso di spazio. Noi trattiamo le cose, in altre parole, come forme astratte idealizzate senza spazialità.”
A Roma, il rapporto con il Giappone inizia con Francesco Saverio, un padre gesuita che nel 1548 scrisse una lettera “ai compagni residenti in Roma” in cui, basandosi sulla relazione dell’esploratore portoghese Jorge Àlvarez, forniva informazioni sul Giappone e sui suoi costumi. Tra l’altro fu proprio il gesuita il primo evangelizzatore del paese del Sol Levante. In quell’epoca però siamo ancora lontani da un influsso estetico reciproco. A Roma ci hanno vissuto gli imperatori e nessuno se lo è mai dimenticato, papi compresi. Da allora, l’idea della bellezza coincide con il concetto di eternità; in questa città l’arte nacque nei luoghi di rappresentanza e, da sempre, esprime il potere. Ogni Signore e Padrone che abbia dominato sull’Urbe, nel corso dei secoli, si è augurato che tale potere potesse, appunto, non finire mai. Per esprimere tale aspirazione, nei secoli sono state scelte tecniche pittoriche come l’affresco e, più in generale, materiali destinati a durare. È stato Ottaviano Augusto ad insegnarci che non c’è nulla di più eterno della pietra calcarea. Ipse dixit: “Ho trovato una città di mattoni, ve la restituisco di marmo”.
Un modo di vedere che i papi del Medioevo hanno tenuto a mente. Infatti, rivestirono le loro chiese con le stesse identiche pietre che avevano reso immortale la gloria dei Cesari. Con il passare del tempo, l’eternità che si respira a Roma si è trasformata in qualcosa di più complesso che ha a che fare con il trascorrere del tempo e con l’essenza stessa dell’Uomo. Gli scorci ci raccontano di epoche lontane, tante e tutte diverse. Echi di storie importanti, aneddoti popolari, canzoni e disastri naturali si sovrappongono in tanti secoli e pochi metri quadrati. Ciò che sorprendente è che tutto questo possa essere racchiuso in uno sguardo, un momento – appunto – scolpito nel marmo. Un’impressione spesso rintracciabile nei diari dei viaggiatori sette e ottocenteschi. Io prenderò in prestito le parole di Edmond e Jules de Goncourt: “Roma, un caos e un universo di pietra, un sovraffollamento, una mescolanza, una confusione, una sovrapposizione di case, di palazzi, di chiese, una foresta di architetture, dove si elevano le cime dei campanili, delle cupole, delle colonne, delle statue, delle braccia di rovine disperate nell’aria, delle punte di obelischi, dei Cesari di bronzo, delle spade di angeli neri contro il cielo. “
In tale contesto, le uniche vestigia che potrebbero richiamare – alla lontana – l’idea di mondo fluttuante sono i vari memento mori sparsi nelle chiese. Essi infatti ci ricordano che la vita prima o poi finisce. Uno tra tutti, è il monumento funebre a papa Alessandro VII Chigi, opera di Gian Lorenzo Bernini, sito all’interno della basilica di San Pietro. Un tripudio di diaspri siciliani verdi e rosati, impreziosito da un gigantesco scheletro di bronzo che brandisce una clessidra. Il sepolcro esprime la caducità – tanto per cambiare – nel linguaggio immortale del marmo. Insomma, niente a che vedere con la fioritura dei ciliegi.
Tornando alle ukiyoe, nelle poche stanze adibite e alla mostra di Palazzo Braschi erano concentrate 150 opere appartenenti a 30 artisti diversi, praticamente più di quante io ne abbia viste nei musei giapponesi. Si stratta di stupende stampe su carta raffiguranti gruppi di geishe che chiacchierano nei cortili mentre pettinano i capelli in elaboratissime acconciature, cortigiane che passeggiano su pontili rossi indossando kimono variopinti, vassalli che giocano a go – un antico gioco cinese simile agli scacchi – strani personaggi del teatro kabuki che ricordano i cartoni animati degli anni ’70, lottatori di sumo, uomini e donne che si lavano nei bagni pubblici, giovani fanciulle che raccolgono cachi, che giocano con cani e gatti, oppure con gli ombrellini sotto la neve, e, ovviamente, il monte Fuji al tramonto. In Occidente l’opera più celebre è certamente La grande onda di Kanagawa del Maestro Hokusai. Tali illustrazioni, particolarmente popolari durante il periodo Edo (1603 – 1868) ci restituiscono intatto il fascino di società urbane in trasformazione, o meglio in crescita, in quelle che ancora oggi sono le grandi città giapponesi, ovvero l’antica Edo (oggi Tokyo), Osaka e Kyoto. Queste aggraziate scene di vita quotidiana, spesso piene di figure, furono ottenute da incisioni a rilievo su matrici in legno (xilografie). Il percorso espositivo ha affrontato, sezione per sezione, un viaggio nelle arti giapponesi: la pittura, la calligrafia, la musica, la danza, il teatro kabuki (che richiama in qualche modo la Commedia dell’Arte). Si passa poi alla descrizione dei quartieri del piacere, del lusso, dei giochi e intrattenimenti, per poi finire con l’antica Edo e con i luoghi più rappresentativi del Giappone.
Spesso, le protagoniste di queste immagini sono donne, rappresentate nella loro femminilità ma anche nei loro talenti come appunto la musica, la calligrafia, la pittura, i giochi di strategia o da tavolo. Tutte arti che, nella cultura cinese – trasmigrata in Giappone insieme al buddismo – definivano una persona colta. La diffusione di tali conoscenze in ambito femminile ci racconta del loro accesso al Sapere.
Le opere provengono da due importanti collezioni italiane, che vennero a crearsi all’epoca dello japonisme – la passione per tutto ciò che era giapponese e orientale – che esplose in Europa dopo l’Esposizione Universale a Parigi nel 1878: quella dell’incisore Edoardo Chiossone a Genova e la collezione dello scultore Vincenzo Ragusa, oggi proprietà del Museo della Civiltà di Roma. Questi due artisti italiani di fine Ottocento vissero un’esperienza assolutamente fuori del comune per quei tempi: essi furono invitati in Giappone dal governo come consulenti stranieri, al fine di formare giovani leve nei nuovi istituti di grafica e arte. Negli anni in cui furono ospiti nel paese del Sol Levante, essi diventarono collezionisti e contribuirono a formare due tra le più importanti collezioni di arte orientale in Italia.
Le immagini allineate sulle pareti di Palazzo Braschi sembravano molte di più di 150, concentrate com’erano nei pochi ambienti destinati alla mostra, separate apparentemente solo dalle loro rispettive cornici. Ogni centimetro di spazio disponibile era stato utilizzato, o almeno questa era l’impressione. Come se non bastasse, alcune tra le ukyioe più celebri erano state riprodotte in grandi dimensioni su stoffa, a decorare la parte alta delle pareti o i passaggi tra un ambiente e l’altro. L’idea era quella di ricordare le tradizionali tende noren, ovvero i divisori in tessuto utilizzati soprattutto da negozi e ristoranti sulle quali si trova il nome dell’attività. In Italia li abbiamo conosciuti con la popolarità dei cartoni animati degli anni Ottanta, uno tra tutti Kiss me Licia. Il risultato di tale scelta espositiva è stato un trionfo di abbondanza, tutta romana, di immagini che si sovrapponevano l’una all’altra – se non nella realtà, nelle impressioni che esse suscitavano – di colori, di linee sinuose ed eleganti. Ad arricchire il tutto vi erano anche i kimono, gli specchi, i ventagli e altri piccoli oggetti tipici dell’epoca. Non vi era nulla di conciso né di minimal nella progettazione di questa esposizione. Piuttosto, un apparente disordine colorato e meraviglioso che richiamava i rumori allegri di un mercato orientale, ma anche l’opulenza romana di un affresco seicentesco di Pietro da Cortona. Incredibilmente, mi è tornata in mente la descrizione che J.W. Goethe fa di Roma nel suo Viaggio in Italia: “Si cammini o ci si fermi, ecco che appaiono panorami d’ogni specie e genere, palazzi e ruderi, giardini e sterpaie, vasti orizzonti e strettoie, casupole, stalle, archi trionfali e colonne, spesso così fittamente ammucchiati da poterli disegnare su un solo foglio. Per descriverlo ci vorrebbero mille bulini; a che può servire una sola penna? E la sera si è stanchi e spossati dal tanto vedere e ammirare.“
Ancora più romana è l’atmosfera che si respira al Museo Napoleonico, ovvero il palazzo del conte Giuseppe Napoleone Primoli – per gli amici Gégé – aristocratico ottocentesco discendente da parte di madre dalla famiglia Bonaparte, da cui l’altisonante nome dato alla sua casa-museo. Il conte Primoli era un personaggio fin de siècle; vecchio stampo, tutto spiritosaggine romana e gusto francese, viaggiatore colto, frequentatore di artisti, poeti, intellettuali, elegante e meravigliosamente decadente. Gli piaceva mascherarsi da principe indiano alle feste, e immortalava sé stesso e i suoi amici chic – anch’essi mascherati da improbabili orientali – ai balli mondani, a Carnevale o in occasione dei tableaux vivants che tutti insieme si divertivano a costituire, secondo la moda del tempo. Le sue foto, e quelle di suo fratello Luigi, ci hanno regalato immagini uniche quali le botteghe di commercianti nelle nicchie del Teatro Marcello, la sfida tra Buffalo Bill e i butteri maremmani ai Prati di Castello, la via Ostiense o il Tempio di Ercole Vincitore allagati e tante altre che si inseriscono nel contesto di Roma Sparita, ovvero di quartieri e angoli della città eterna che non esistono più.
La mostra a Palazzo Napoleonico si focalizza sul rapporto della famiglia Primoli con l’Oriente, in particolare su Giuseppe e Luigi, e sui vari memorabilia riportati da mete esotiche, oppure acquistate presso importanti collezionisti o semplici mercatini parigini. Un pezzo importante in esposizione è rappresentato dal delizioso ventaglio in seta, dipinto ad acquarello dall’impressionista Giuseppe De Nittis per Matilde Bonaparte intorno al 1880, raffigurante un soggetto classico dell’arte giapponese, ovvero La discesa delle oche selvatiche a Katata. Un simbolo assoluto di japonisme, ovvero un’opera non originale che imita il gusto giapponese obbedendo però ai dettami dell’estetica europea.
La casa in sé, ovvero gli ambienti che oggi costituiscono il Museo – a parte i busti dei vari Napoleonidi – è piena zeppa di squisitissime chicche, tra cui le ballerine ricamate di Paolina Bonaparte (prozia del conte da parte di madre, nonché moglie di Camillo Borghese, colui che vendette l’omonima collezione di statue antiche al cognato capostipite del Primo Impero), il curioso calco in gesso di un seno sempre di Paolina, forse parte di uno studio per la celebre statua raffigurante Paolina Borghese come Venere Vincitrice di Antonio Canova e, ovviamente, una serie di ritratti a muro delle varie Beate Quartine della famiglia (zia Matilde, nonna Zenaide, ecc.). Tra i vari oggetti esposti in mostra sono 14 kakemono, recentemente restaurati, che ne costituiscono il fulcro. Raffinati rotoli verticali in carta o tessuto (generalmente seta) da appendere alle pareti o piuttosto, in particolari luoghi della casa ad essi dedicati (nicchie). È stato proprio questo il concetto che si è voluto riproporre in mostra, in quanto in kakemono sono concentrati in un luogo preciso ad essi dedicato. Ovviamente, sono esposti tutti insieme, quasi attaccati l’uno all’altro, producendo l’effetto di una incantevole sovrapposizione immaginifica di forme e colori, tutta romana, che nulla ha a che fare con la sobrietà nipponica.
Il soggetto rappresentato può essere un’immagine oppure una calligrafia. Quelli della collezione Primoli sono del tipo “fiori e uccelli”, tema tradizionale dell’arte giapponese. Nel paese del Sol Levante, queste pitture su seta verticali non vengono esposti in modo permanente ma in occasioni speciali, o in base alle stagioni. Durante la cerimonia del tè essi svolgono ancora oggi un ruolo ben preciso, ovvero definiscono quello che sarà l’argomento di conversazione durante il rituale (ad esempio, la primavera). Con tutta probabilità, quelle della collezione Primoli non sono opere originali ma prodotte ad arte in qualche studio parigino di fine Ottocento, secondo il gusto del japonisme. Sono comunque opere ricercate, raffiguranti intricati rameggi di ciliegio, fiori rosa e azzurri che perdono petali al vento, tra i quali spuntano gufi, anatre che nuotano e uccelli azzurri in volo. Il conte Primoli li utilizzava, in maniera piuttosto stravagante, come libro degli ospiti. Ai margini e negli spazi vuoti di ognuno di essi troviamo scarabocchiate poesie, firme autografe e ogni sorta di facezie scritte da importanti personalità del tempo. Intellettuali francesi che frequentavano il salotto di Matilde Bonaparte a Parigi, quali Èmile Zola, Paul Claudel, Paul Valery, Pierre Loti, Anatole France, Guy de Maupassant, ma anche esponenti delle varie case reali d’Europa, come l’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III. Tra gli italiani abbiamo Eleonora Duse, Gabriele D’Annunzio, Giovanni Verga, Giosuè Carducci, Matilde Serao, Giuseppe Garibaldi e addirittura Benito Mussolini. Gli scarabocchi intorno alle immagini dipinte, che Gègè richiedeva ai suoi invitati, sono armoniose quanto le pitture stesse. Talvolta, anche divertenti. Nel kakemono di una serata dedicata alla Duse, è Primoli stesso a dare il via al rituale delle annotazioni con un commento sull’esibizione della celebre attrice. Tra gli steli dipinti di quella che sembra essere una pianta lacustre si legge infatti: “Le Giuliette fanno i Romei.” Più in alto, una dichiarazione del commediografo Marco Praga, apparentemente scritta dal becco di un uccellino in volo: “Innamorato della Duse”. Risponde un po’ più in basso Gabrielle D’Annunzio in persona: “Protesto contro l’insidia”. La firma di Mussolini invece sembra quella di un bambino di quinta elementare. C’è da dire che essa fu apposta in seguito alla morte del conte, su richiesta dell’allora direttore del museo Diego Angeli.
Per concludere, l’effetto è stato, in entrambi i casi, entusiasmante. Insolito. Originale. Salire lo scalone d’onore di un palazzo e ritrovarsi in un Oriente tutto romano è stato spassoso, come anche perdersi tra scarabocchi, i fiori e le serate aristocratiche della belle epoque.
Per chi desidera approfondire ulteriormente l’argomento, può farlo a Milano, sempre con una mostra sulle ukiyo-e in corso fino al 30 settembre intitolata The Spirit of Japan: An Immersive Art Experience (Scalo Farini), e ancora a Firenze con la mostra in corso fino al 3 novembre 2024 Yōkai. Mostri, Spiriti e altre inquietudini nelle Stampe Giapponesi (Museo degli Innocenti). Come ha detto qualcuno (Anonimo), “scoprire il Giappone è come esplorare un filo di perle al di là dell’oceano”.
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