
Pubblichiamo un pezzo uscito sul Venerdì, che ringraziamo.
Kwame Brathwaite abita a New York, in un appartamento al confine tra Harlem e Spanish Harlem, a una manciata di strade da dove temporaneamente abito anch’io. Ma il fotografo oggi ha 84 anni e non rilascia più interviste. Così le sue foto, dall’altra parte di Central Park, parlano per lui. A esporle è in questi mesi è la Historical Society di New York, leggendario museo e biblioteca lungo Central Park West, tra la 76 e la 77. La storia che racconta adesso con le foto di Brathwaite è quella del movimento artistico e politico “Black Is Beautiful”, fondato dallo stesso fotografo e dal fratello Elombe Brath come diretta conseguenza dell’attivismo generato dalla triste e potente storia di Emmett Till. Questi i fatti, in ordine cronologico: nell’agosto del 1955 il quattordicenne afroamericano Emmett Till viene brutalmente ucciso per motivi razziali in Mississippi (sulla sua storia è in uscita l’ottimo biopic Till della regista Chinonye Chukwu). Per volontà della coraggiosissima madre, Mamie Till Bradley, la foto del ragazzino deturpato dopo il linciaggio viene pubblicata dalla rivista Jet e da altri giornali, sensibilizzando l’intero paese e trasformando un orribile fatto di cronaca e razzismo in un evento così potente da generare un cambiamento. Come tanti, Brathwaite, suo fratello Elombe e i loro amici (all’epoca tutti poco più che adolescenti) videro la foto, e sposando le idee del sindacalista e scrittore giamaicano Marcus Garvey che nei decenni precedenti si era battuto per migliorare le condizioni di lavoro degli afroamericani negli Stati Uniti e più in generale la liberazione economica e la libertà dei neri, fondarono l’African Jazz-Art Society & Studios (AJASS), collettivo di artisti e creativi che organizzava concerti jazz nei club del Bronx e di Harlem divulgando al tempo stesso un messaggio di presa di coscienza politica e conquista dell’autonomia economica. Il messaggio che promuovevano era “Think Black, Buy Black”, pensa nero, compra nero, capendo l’importanza del potere dell’estetica, dello stile, del modo in cui ci si presentava o si presentava qualcosa per ottenere un cambiamento economico e sociale. L’estetica era politica, e andava detto e ribadito con forza. Bastava pensare a come concetti di bellezza e immagine del corpo concepiti dai bianchi per i bianchi continuassero a influenzare i neri – e qui è esaustivo il fatto che Malcom X nella sua autobiografia si prese la briga di dedicare pagine e pagine alla stiratura dei capelli condannandola come pratica sostanzialmente razzista e di autodegradazione.
Per promuovere una nuova estetica black, negli anni sessanta Brathwaite, suo fratello e gli altri membri dell’AJASS adottarono uno slogan usato nelle lotte sindacali che era semplicissimo ma andava dritto al punto, ovvero “Black Is Beautiful”, nero è bello, e ne fecero un movimento, fondando contemporaneamente i Grandassa Models, un collettivo di modelle e modelli che si esibiva regolarmente all’Apollo Theater. Il nucleo iniziale, tutti cofondatori, era composto da Black Rose (Rose Nelmes), Helene White (che avrebbe poi sposato Elombe Brath prendendo il nome di Nomsa Brath, oggi un’artista e attivista impegnata nel campo dell’educazione), Priscilla Bardonille, Wanda Sims, Mari Toussaint, Esther Davenport, Beatrice Cramston, Jimmy Abu, Frank Adu e Clara Lewis. Il nome veniva da Grandassaland, che era il modo in cui Carlos A. Cooks, fondatore dell’Afrikan Nationalist Pioneer Movement e membro del sindacato di Marcus Garvey, chiamava il continente africano. Più che sfilate di moda, i loro erano veri e propri spettacoli dall’eloquente nome “Naturally”, mescolando con stile l’orgoglio razziale, la cultura africana, la poesia e l’arte. Il primo fu “Naturally 62”, a fare gli onori di casa presentando modelle e modelli, che indossavano abiti e accessori realizzati da artisti e designer afroamericani (tra questi Carolee Prince, celebre per i copricapo creati per Nina Simone), furono l’attore Gus Williams e la cantante jazz e attivista Abbey Lincoln, mentre il marito, il batterista Max Roach, dirigeva la band che suonava per l’evento. Da lì in avanti e per una ventina d’anni il Naturally venne allestito ogni anno e portato in tournée nei college, università e comunità afroamericane di mezza America. Nel 1963 fondarono anche una casa editrice, la Black Standard Publishing Company, che quello stesso anno pubblicò il Naturally ’63 Portfolio e Color Us Cullud! The Official American Negro Leadership Coloring Book (quest’ultimo era un album in bianco e nero da colorare – pura avanguardia rispetto all’attuale moda degli albi da colorare).
La mostra che racconta visivamente questa e molte altre storie si chiama “Black Is Beautiful: The Photography of Kwame Brathwaite” ed è la prima grande retrospettiva dedicata al fotografo, è organizzata in collaborazione con Brathwaite, la città di New York e la rivista di fotografia Aperture, è coordinata da Marilyn Satin Kushner, curatrice alla Historical Society delle collezioni di stampe, foto e architettura, ed è visitabile fino al 15 gennaio del 2023. Quella della Historical Society è una tappa di un lungo e importante tour iniziato nell’aprile 2019 allo Skirball Cultural Center di Los Angeles e che dopo New York si sposterà alla University of Alabama di Birmingham, dove sarà visitabile fino al marzo 2023. Ad accompagnarla è il magnifico volume Kwame Brathwaite: Black Is Beautiful (Aperture, pp. 144, 45$) che raccoglie le foto di Brathwaite e altro prezioso materiale iconografico (copertine di dischi, locandine, flyer), accompagnate dai testi di Tanisha C. Ford e Deborah Willis.
Oltre che un immenso fotografo, Brathwaite è considerato oggi un “custode di immagini” per la cura con cui negli anni non solo ha creato una memoria collettiva, ma l’ha conservata a futura memoria, a vantaggio delle generazioni e delle battaglie a venire, incluse le nostre, quelle in atto. Nato a Brooklyn da una famiglia caraibica americana e cresciuto prima a Harlem e poi nel South Bronx, negli anni cinquanta si è diplomato alla School of Industrial Art, oggi High School of Art and Design (tra i suoi allievi vanta tra gli altri Calvin Klein, Gerard Malanga, Art Spiegelman, Candida Royalle e Lorna Simpson), con l’idea di diventare un designer. Poi, diciassettenne, si è imbattuto nella citata foto di Emmett Till e con una Hasselblad di medio formato ha iniziato insieme alla sua carriera da attivista, quella da fotografo immortalando la scena in divenire di moda, jazz e attivismo politico che con l’AJASS creava o promuoveva. Celebri sono oggi i suoi ritratti e foto di backstage realizzati nell’agosto 1959 (all’epoca aveva 21 anni) al Randalls Island Jazz Festival e in cui si esibirono, tra gli altri, Dizzy Gillespie, Max Roach, Duke Ellington, Art Blakey, Thelonious Monk e Miles Davis. Alcune di quelle foto oggi sono in mostra alla Historical Society, in buona compagnia delle copertine di album realizzate per la Blue Note, ai ritratti formidabili scattati durante la parata del Marcus Garvey Day del 1967 e altri memorabili eventi, e ai ritratti e foto di gruppo dei Grandassa Models, accompagnate con generosità da una playlist di ventotto brani stampata su uno dei pannelli della mostra che dà continuità fino al presente al movimento e che va da “I’m Old Fashioned” di John Coltrane del 1957 a “Don’t Touch My Hair” di Solange (featuring Sampha) del 2016. In un’altra delle sale, scritte in bianco e nero su un pannello marrone sopra un magnifico autoritratto dell’artista e della sua macchina fotografica, le parole di Kwame Brathwaite fanno da perfetta sintesi a tutto quanto sopra: “Era un’epoca in cui in tutto il mondo le persone protestavano contro le ingiustizie legate alla razza, alla classe sociale e ai diritti umani. Io mi sono concentrato sul perfezionare il mio mestiere così da potere usare il mio dono per ispirare pensieri, trasmettere idee e raccontare storie delle nostre lotte, del nostro lavoro, della nostra liberazione”. Da imparare a memoria e farne il migliore degli usi possibili.
È nata a Bolzano e ha vissuto ad Algeri e Palermo. Abita tra Roma e New York, dove traduce e scrive di libri, cinema e fumetti per La Repubblica, Il venerdì e D. Ha tradotto, tra gli altri, Charles Bukowski, Tom Wolfe, Jacques Derrida, A.M. Homes, Douglas Coupland, James Franco, Lillian Roxon e Lena Dunham, e ha tradotto e curato la nuova edizione italiana di Jim entra nel campo di basket di Jim Carroll (minimum fax, 2012). Insieme a Daniele Marotta è autrice del graphic novel Superzelda. La vita disegnata di Zelda Fitzgerald (minimum fax, 2011), pubblicato anche in Spagna, Sudamerica, Stati Uniti, Canada e Francia.