di Chiara Mogetti

50 anni fa veniva fondato a Padova l’International Feminist Collective, all’interno del quale sono nate le campagne per il salario al lavoro domestico. L’attivista e teorica del femminismo, autrice e docente Silvia Federici, tra le fondatrici del collettivo, compare in questi giorni come personaggio all’interno della mostra Sixteen Conversations on Abstraction dell’artista olandese Riet Wijnen, che in una sua opera ripropone i materiali d’archivio della stessa Federici relativi proprio alla Wages for Housework Campaign, gentilmente prestati dall’archivio MayDay Rooms per la prima personale italiana dell’artista, presentata da Kunstverein Milano.

L’azione dell’International Feminist Collective, che si concretizzò nella Campagna per il salario al lavoro domestico (SaLDO), era volta a ottenere il riconoscimento del lavoro invisibile svolto dalle donne dentro le loro case, in quanto fondamento essenziale ma nascosto della società, su cui si basano l’accumulazione capitalistica e la struttura delle relazioni di genere. Non a caso, ogni novembre da diversi anni le manifestazioni del movimento Non una di meno contro la violenza sulle donne sono accompagnate da uno sciopero dal lavoro di cura e domestico (altrimenti definibile lavoro riproduttivo). Tema che si fa ancor più centrale, come rilevato dalla stessa Federici, con il lockdown e la pandemia globale, le cui ricadute sulle donne sono state pesantissime, ma che in realtà non è mai scomparso dal modo in cui organizziamo i nostri rapporti sociali. Si è solo trasformato, interagendo con altri processi e soggetti.

I materiali della campagna portata avanti negli anni Settanta hanno attraversato diverse mutazioni: in documenti di archivio prima e in opera d’arte poi. Questa dinamica ne riflette una più ampia, che ha a che vedere con una visione della storia interattiva, relazionale, non lineare, che mette al centro l’agency soggettiva e non si limita a infilare uno dietro l’altro eventi circoscritti e conchiusi. Ne ho parlato con Lukasz Risso di MayDay Rooms, archivio londinese dedicato ai movimenti sociali, alle culture marginali e dissidenti e alla loro storia.

La mostra, inaugurata a febbraio presso lo spazio espositivo dell’Assab One a Milano, sarà visibile fino al 19 marzo 2022 (mercoledì-venerdì dalle 15:00 alle 19:00 / sabato dalle 15:00 alle 19:00 su appuntamento. Opening: 12.02.2022 dalle ore 16.00 alle 20.00).

I materiali dell’archivio di Silvia Federici relativi alla Campagna per il salario al lavoro domestico sono stati messi a disposizione da MayDay Rooms in occasione della mostra di Riet Wijnen, che ha prodotto un’opera specificamente per esporre questi documenti. Si potrebbe dire che voi siate l’anello di congiunzione tra Federici e Wijnen? È un ruolo in cui vi riconoscete, quello di connettori?

L’approccio di MayDay Rooms all’archiviazione è basato sull’idea che i materiali che appartengono a movimenti del passato trovino il loro utilizzo migliore quando posti in relazione con campagne e lotte contemporanee. Non vogliamo restare a guardare passivamente i “patrimoni” archivistici, al contrario intendiamo dedicarci all’ “attivazione” collettiva dei materiali storici che sono ospitati dal nostro archivio. Per questo cerchiamo sempre di trovare modi nuovi di impiegare le collezioni che ci sono state affidate.

Potremmo dire che MayDay Rooms, e i materiali di cui disponiamo, hanno reso possibile la connessione tra il lavoro di Silvia e quello di Riet, ma non vorrei che si ponesse eccessivamente l’accento sul nostro ruolo. La mostra non sarebbe possibile, in primo luogo, senza il lavoro di Silvia Federici, il suo impegno nella Campagna per il Salario al lavoro domestico (Wages for Housework Campaign) e la sua rilevanza per le lotte femministe odierne.

Ma la mostra è, prima e soprattutto, frutto dell’approccio concettuale di Riet Wijnen al materiale di archivio, della sua perseveranza e del suo lavoro meticoloso. Mi piace pensare all’esito del progetto non in termini teleologici ma piuttosto come un incontro nel quale i materiali di archivio, paradossalmente, permettono di cancellare i confini tra passato e presente, di proporre una nuova prospettiva sulla realtà, piuttosto che limitarsi a legittimare un certo punto di vista con il peso della “storia”.

Avete avuto modo di dialogare con l’artista a proposito dei materiali e del modo in cui sarebbero stati utilizzati nella mostra?

La mostra di Riet Wijnen rappresenta in effetti la prima volta che MayDay Rooms presta parte della sua collezione, così abbiamo discusso in anticipo ogni aspetto con la galleria. Durante i preparativi per la mostra, siamo riusciti a costruire rapporti amichevoli con Kunstverein Milano: si sono dimostrati molto comprensivi nel venire incontro alle nostre necessità riguardo il trasferimento, la gestione e la conservazione della collezione di Silvia. Inoltre, ho avuto il piacere di portare personalmente i materiali a Milano, di partecipare alla serata di inaugurazione, di incontrare l’artista e tutte le persone coinvolte nel progetto.

Molti dei preparativi per la mostra sono stati fatti online, rendendo difficile immaginare l’esito finale del nostro lavoro. Sebbene abbiamo discusso di come i materiali sarebbero stati utilizzati e fruiti, per via dell’obiettivo, perseguito da Riet, di stimolare un coinvolgimento individuale e intimo con i materiali, non potevamo prevedere come il pubblico avrebbe interagito con gli stessi. Credo che questa sia una grande forza della mostra: i visitatori non sono forzati in una relazione preconfezionata con la collezione, ma gli è permesso scoprirla nei modi che preferiscono e che trovano più adatti a se stessi.

Federici ha scelto di donarvi il suo archivio sulla Campagna: le piacerebbe parlarci della vostra relazione con lei? Avete avuto occasione di lavorare insieme?

L’archivio sulla Campagna per il salario al lavoro domestico di Silvia Federici è una delle nostre prime collezioni, e sicuramente una di quelle di maggior valore. Silvia è stata coinvolta nelle fasi iniziali della fondazione di MayDay Rooms ed è per questo che, oltre ad essere una donatrice, è anche una cara amica del nostro archivio.

Il suo attivismo politico – dal Comitato per il Salario al Lavoro Domestico a Padova, alla Wages for Housework Campaign a New York, fino al Comitato per la libertà accademica in Africa (relativamente al quale abbiamo un’ampia collezione, gentilmente donataci da Silvia Federici e George Caffentzis) – così come il suo lavoro accademico, continuano a essere di ispirazione per molti di noi di MayDay Rooms e a informare le lotte femministe che oggi vengono portate avanti nel Regno Unito.

Personalmente, non avevo avuto prima l’occasione di lavorare con Silvia Federici, ma è stata di grande supporto nel corso della preparazione della mostra.

Come era conservato l’archivio di Federici sinora? Era disponibile per la consultazione? Come gestite e utilizzate solitamente i documenti del vostro archivio?

I materiali di Silvia Federici erano conservati a MayDay Rooms esattamente come possono essere visti alla mostra – era importante per noi ricreare per il pubblico della galleria un’atmosfera, una sensazione che rimandassero a quelli propri dell’archivio.

Tutti i materiali nel nostro archivio sono disponibili per la consultazione e incoraggiamo fortemente le persone a interagire con essi, a maneggiarli. Alcune persone si sentono intimidite dal maneggiare materiali di archivio, nella paura di danneggiarli. In molti casi questo può portare alla feticizzazione della dimensione fisica dell’oggetto, in quanto si dà maggiore rilevanza alla sua forma materiale piuttosto che al suo contenuto e al contesto in cui è stato prodotto.

A MayDay Rooms cerchiamo di combattere questo fenomeno incoraggiando un coinvolgimento diretto con i documenti – permettiamo ai visitatori di fare copie digitali e fisiche dei documenti, di distribuirle e utilizzarle. Organizziamo anche eventi durante i quali cataloghiamo o digitalizziamo collettivamente le nostre collezioni, allo scopo di diffondere una conoscenza archivistica sulla preservazione e digitalizzazione dei materiali, ma anche per creare una comunità intorno al nostro spazio.

Per noi, un archivio indipendente non dovrebbe sciommiottare le pratiche di un archivio statale, con le sue caratteristiche di chiusura, privatizzazione e tematizzazione dei cataloghi. Un contro-archivio dovrebbe favorire l’accessibilità, la diffusione e il consumo rispetto al consolidamento, la creazione rispetto alla conservazione. Dovrebbe incoraggiare alleanze tra individui e gruppi diversi e mettere in relazione l’attivismo di base con le istituzioni, i decisori politici e il pubblico in generale. Piuttosto che essere un semplice contenitore o database, l’archivio diventa una pratica emancipatoria e attiva che può innescare l’azione e il cambiamento politici attraverso la produzione, la preservazione e la disseminazione di conoscenza collettive.

I materiali esibiti nella mostra avevano una determinata destinazione pratica e politica. Successivamente, sono stati donati all’archivio, trasformandosi in documenti, e ora hanno attraversato un’ulteriore mutazione in opera d’arte. Questo mi sembra un percorso dinamico, ben lontano dalla rappresentazione comune dei musei e degli archivi come essenzialmente conservativi, o perfino conservatori. In questo contesto, “archiviato” non significa esaurito e messo da parte, ma trasformato, rielaborato, riproposto e produttivo, significativo e significante. Potrebbe parlarci del significato e degli obiettivi del vostro lavoro, in relazione al vostro concetto di archivio? In questo contesto, cosa pensa del lavoro di Wijnen?

I documenti superstiti del nostro passato collettivo ci sono arrivati in frammenti, in gran parte per caso. Questo vale soprattutto per le tracce materiali della “storia dal basso”. È molto raro che si facciano sforzi consapevoli e sistematici per proteggere gli “archivi del dissenso” dalla perdita e dalla cancellazione. MayDay Rooms si dedica a collezionare, preservare e rendere possibile l’accesso a questi archivi del dissenso e dell’espressione radicale, specialmente a quelli che attualmente rischiano di andare persi o distrutti. Ci muoviamo a partire dalla consapevolezza che il cambiamento sociale può avvenire più efficacemente quando i gruppi marginalizzati e oppressi hanno modo di conoscere – e raccontare – le loro proprie storie “dal basso”. Le nostre collezioni sfidano l’attacco diffuso alla memoria collettiva e alla tradizione degli oppressi. Vogliamo opporci alle narrazioni dell’inevitabilità storica e del pessimismo politico con la prova vivente che molte lotte continuano oggi.

MayDay Rooms è soprattutto un “archivio vivente”, con cui vogliamo, tramite il libero accesso, la digitalizzazione e il lavoro educativo e pedagogico, mettere l’archivio in mano ad attivisti e cittadini-archivisti, per scopi presenti e futuri, sia fisicamente che virtualmente. Il nostro archivio esiste prima di tutto per attivare e disseminare i materiali in nostro possesso per un uso più ampio, piuttosto che per tenerli stretti o nasconderli, come accade spesso in organizzazioni più istituzionalizzate. Consideriamo MayDay Rooms e il suo patrimonio come una risorsa sociale attiva più che come un deposito; un luogo nel quale, in mezzo alle minacce dell’austerità all’educazione e agli spazi del dissenso, può essere prodotto il futuro invece che contemplato il passato; uno spazio comune per l’incubazione di movimenti e correnti trasversali e informali, di conoscenze non autorizzate, piuttosto che un ritiro esclusivo per eruditi. Il ruolo di MayDay Rooms è quello di procurare uno spazio di passaggio sicuro dove, in una modalità aperta e collaborativa, gli archivi sono condivisi, interpretati e in dialogo con l’immaginazione contemporanea.

Per noi, il nostro lavoro significa creare uno spazio provvisorio per favorire lo scambio, per mettere in circolo, in movimento, questioni e temi vicini al cuore del progetto MayDay: l’animazione del nostro passato collettivo per informare le battaglie correnti; la creazione e la disseminazione di “archivi dal basso” e, dove necessario, il recupero di documenti di dissenso e di espressione radicale (relativi a singole vite come a storie sociali e istituzionali) minacciati da distruzione e negligenza; l’esplorazione e la critica dei diritti di proprietà intellettuale; catalogazione e tassonomie radicali; la resistenza alle nuove enclosure dell’informazione; la facilitazione e la promozione di “storie incompiute”, in un’atmosfera di mutuo apprendimento e di una pratica collettiva.

Il progetto MayDay è ancora in formazione. Stiamo imparando tutti e vogliamo promuovere un ambiente in cui si cerchi di capire come definire il materiale di archivio dal basso verso l’alto, sfidando i tradizionali sistemi gerarchici di gestione dell’informazione. L’archivio radicale, per come lo vediamo noi, dovrebbe domandarsi “come” la storia viene fatta, trasmessa e compartimentalizzata. Dovrebbe essere un registro open-source che faciliti pratiche di commoning, di messa in comune, in contrapposizione a principi di proprietà e autorialità. Dovrebbe restare incompleto, sia nel contenuto che nella forma, impiegato come una serie di curiosità condivise, una politica locale, un’avventura epistemologica.

Vedo molte similitudini tra il nostro concetto di “archivio” e il lavoro di Riet. In Sixteen Conversations on Abstraction, Riet vede la storia come punto di partenza per una discussione a proposito della realtà contemporanea, piuttosto che come qualcosa da contemplare. Attraverso queste conversazioni fittizie, questi esercizi di storia speculativa, Riet Wijnen prova ad aprire spazi di possibilità, a mostrare come la storia sia soggettiva e inerentemente personale. Questo è un approccio molto vicino alla visione di MayDay Rooms e alle attività attraverso cui cerchiamo, dissotterrando battaglie e movimenti spesso dimenticati, di sfidare la visione dominante della storia, di riconoscere e restituire la loro agency storica agli attori subalterni, di promuovere un coinvolgimento con il passato che sia orientato al futuro.

(Copertina: Riet Wijnen, «Sixteen Conversations on Abstraction (table / table)», 2022, exhibition view /veduta della mostra, Courtesy Kunstverein Milano, Photo: Andrea Rossetti)

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