Pubblichiamo un pezzo uscito su Linus, che ringraziamo.

Ho conosciuto Werner Herzog una decina di anni fa ad Alba, nelle Langhe. Era lì per il festival Collisioni, per trascorrere quattro giorni a visitare le Langhe e poi tenere un paio di lezioni su come si dirigono i paesaggi, una per gli studenti della Scuola Holden e l’altra per quelli di un liceo di Alba. Avevo letto la notizia su un trafiletto di non so più quale giornale, di ritorno da un viaggio in Grecia e da un rapido pellegrinaggio a Kos, al castello di Neratzia dove nel 1968 ha girato Segni di vita, e soprattutto all’Asklepion, l’area sacra appena fuori dalla città consacrata al dio della medicina Esculapio, scoperta nel 1902 dall’archeologo tedesco Rudolf Herzog, il nonno del regista. Da anni Herzog era nella mia ridottissima lista di persone che avrei voluto conoscere (due, massimo tre in tutto), così ho chiamato l’ufficio stampa del festival chiedendo se potevo intervistarlo. No, non potevo, avrebbe rilasciato una sola intervista ed era già stata assegnata. Posso venire comunque a guardare con lui i paesaggi? ho chiesto, consapevole dell’improbabilità della richiesta. E invece la risposta è stata: Sì, puoi, basta che non lo intervisti. Così ci siamo ritrovati ad Alba, per quattro giorni trascorsi a guardare pochissimi paesaggi (pioveva ininterrottamente) e a goderci i ristoranti della zona. Di quei giorni ricordo tutti gli animali che abbiamo incontrato in auto: un paio di cerbiatti, una famiglia di cinghiali, un cerbiatto solitario, diversi uccelli, ancora un cinghiale. Da sola fuori dall’albergo dove dormivo ho anche incontrato tre piccoli galli ammaestrati, la proprietaria li chiamava per nome, da qualche parte li ho conservati in foto. Ricordo anche come cercassi di fare conversazione senza intervistarlo, domande sporadiche e così astratte da non lasciare capire che fossi una giornalista. Herzog rispondeva con quell’esattezza pragmatica che ci si aspetta da lui dopo avere visto anche solo un paio dei suoi film. Ricordo di avere scritto un messaggio a un amico, dicendogli che Herzog era esattamente come me lo aspettavo. Che ero soddisfatta. Al terzo giorno di Langhe eravamo diventati un po’ amici. Ricordo che prima di salutarci per non rivederci probabilmente mai più (previsione più volte smentita), si è raccomandato di smettere di scrivere per i giornali e di scrivere piuttosto libri. “Devi scrivere libri”, ricordo che mi ha detto, “ma questo già lo sai”.

La cosa che sorprende di Werner Herzog quando chiacchieri con lui è l’assoluta imprevedibilità di quello che dirà. Gli chiedi di consigliarti un libro (io ad Alba, in auto nel tragitto tra un ristorante e l’altro) e lui ti dice di smettere di leggere libri, che già ne hai letti troppi, che piuttosto dovresti guardare i paesaggi dipinti da Hercules Seghers (di paesaggi di Seghers ne ho trovato uno molti anni dopo ai Musei Capitolini di Roma, a pochi minuti a piedi da casa mia, si chiama Porto di mare, è piccolo e straordinariamente bello, vado a guardarlo ogni volta che posso). Gli dici che vuoi fare il regista (uno studente del liceo di Alba, o forse della Scuola Holden) e lui ti dice di non guardare film, piuttosto devi leggere libri, che i film ti fanno perdere lo sguardo e nei libri invece trovi le storie da adattare. Gli chiedi com’è vivere a Los Angeles (sempre io ad Alba) e lui ti parla del problema che a Los Angeles non si può camminare, se fai jogging va bene, ma se cammini ad andatura normale appari sospetto e dopo pochi minuti la polizia ti ferma. Lo interroghi sui vulcani (ancora io ad Alba, a una cena, una decina di persone sedute intorno al tavolo desiderose di ascoltarlo) e lui ti informa che tra qualche anno non ricordo più quale vulcano erutterà distruggendo quasi ogni forma di vita sulla Terra, umana e animale, sopravviveranno solo i rettili, dice. Gli chiedi se gli è piaciuto il Castello di Rivoli (io a Torino pochi mesi fa) e lui ti dice di sì ma che non ama particolarmente i musei, che lo inquietano, che non ci va mai, che è andato solo al Museo del Prado a vedere alcuni quadri, quelli di Goya, quelli gli sono piaciuti. Gli dici che sei andato a visitare l’Asklepion di Kos (io, sempre ad Alba, la prima cosa che gli ho detto in assoluto) e lui dice che quel sito è stato restaurato malissimo, ci è andato nel 1968 e poi non ci ha più messo piede.

La seconda volta che l’ho incontrato è stato al Biografilm Festival di Bologna, qualche anno fa. Io ero lì a seguire il festival, lui a presentare un paio di film insieme, entrambi magnifici. Il primo era Herzog incontra Gorbaciov, diventato ai miei occhi leggendario per una scena in cui Herzog non riesce a trattenersi e a nome della sua gente, i tedeschi (ma non solo) che come lui desideravano più di ogni altra cosa la caduta del muro di Berlino, gli dice: We love you. Il secondo è Family Romance, LCC, che racconta una vicenda singolare ai nostri occhi e normalissima per un giapponese: una donna si rivolge a un’agenzia che affitta amici e parenti a chi non ne ha o non li ritiene presentabili. La donna ha bisogno di un padre da fare conoscere alla figlia dodicenne abbandonata dal padre quando aveva due anni. Di agenzie del genere è pieno il Giappone, a rendere diversa questa storia è il fatto che il finto padre si affeziona alla finta figlia, e l’affetto è reciproco. È un film di una bellezza assoluta, ricordo di averlo visto la mattina a una proiezione stampa e di essere tornata a rivederlo la sera alla proiezione ufficiale. Herzog ha girato il film insieme al figlio Simon e alla moglie Lena (fotografa e artista talentuosa che nei mesi scorsi ha esposto a Venezia, a CFZ Ca’ Foscari Zattere, una magnifica installazione VR dal titolo Last Whispers: Immersive Oratorio for Vanishing Voices, Collapsing Universes and a Falling Tree, lirico e struggente memoriale dedicato alle lingue estinte o in via di estinzione). Della conferenza stampa che ha seguito le proiezioni del Biografilm ricordo Herzog che dice che hanno girato Family Romance solo lui, la moglie e il figlio, un vero film di famiglia. Dice che gli altri nomi che si vedono nei titoli di coda sono nomi inventati ma che è sempre lui, uno degli pseudonimi è il nome di un traduttore di Virgilio, un traduttore che gli piace molto. In quei giorni bolognesi l’ho intervistato, divisa tra il desiderio di non deluderlo ripresentandomi come giornalista e non come autrice di libri, e quello di passare una mezzoretta a fargli domande di cui ignoravo del tutto le risposte.

La terza volta l’ho incontrato a Pennabilli nel 2021, a casa di Tonino Guerra. Herzog era lì per visitare i luoghi di Tonino Guerra e per ricevere un paio di premi, l’Enit Luoghi dell’Anima e il Premio alla Poesia. Io ero lì su gentile invito di Flavia Schiavi e Olivia Alighiero di Punto e Virgola, l’ufficio stampa del festival I Luoghi dell’Anima, e del figlio di Tonino Guerra, Andrea. Sapevano che conoscevo già Herzog, conoscevano me, non dovevo per forza intervistarlo ma erano certi che a un certo punto ne avrei scritto (lo faccio qui e adesso). A Pennabilli Herzog era insieme al figlio Simon e a due dei suoi collaboratori di lunga data, il bravissimo direttore della fotografia Peter Zeitlinger con cui lavora del 1995, e sua moglie, l’altrettanto bravissima regista Silvia Zeitlinger. Con Peter e Silvia siamo diventati immediatamente amici, ci siamo rivisti spesso, abbiamo iniziato a collaborare, sono diventati parte della mia famiglia allargata e sparsa nel mondo. Dei giorni a Pennabilli ricordo tutto: Herzog che parla di Tonino Guerra con commozione, come fosse un fratello appena ritrovato di cui ignorava l’esistenza, Herzog a casa di Tonino Guerra che parla con Lora, la moglie di Tonino Guerra, di registi russi amati e frequentati da entrambi, Herzog che con orgoglio porta al dito l’anello con l’impronta del poeta romagnolo, inventato dal figlio Andrea come Premio alla Poesia, Herzog che a spasso tra le strade del paese traduce per me le conversazioni in tedesco con Peter, Silvia e Simon e ogni tanto dice: no, questo è troppo bavarese, è impossibile da tradurre, Herzog che nel bel mezzo della conferenza stampa del premio dice di amare Franco Baresi. Non lo ha mai incontrato di persona ma si scrivono spesso (si incontreranno a Torino poco più di un anno dopo). Qualcuno del pubblico seduto davanti a me bisbiglia: Franco Baresi il poeta? E qualcun altro gli risponde: No, il calciatore del Milan. L’indomani dirò a Herzog che mi piacerebbe intervistarlo sul libro che ha in uscita, Il crepuscolo del mondo (è magnifico, lo ha pubblicato Feltrinelli nella traduzione di Nicoletta Giacon), ma che prima devo leggerlo. Gli dico che da Feltrinelli avrò le bozze a luglio, e che potremmo sentirci subito dopo. Lui mi dice: va bene, ma fatti mandare anche le bozze del mio amico Franco Baresi, anche lui ha un libro in uscita per Feltrinelli. L’intervista poi non l’abbiamo più fatta ma all’ultimo Salone del Libro di Torino mi hanno chiesto di conversare con lui sul palco. È stato lo scorso maggio (la conversazione è online sulla piattaforma NEXO+), ed eravamo entrambi emozionati, io di sicuro (prima dell’incontro, nei viali del Salone continuavo a imbattermi in gente che mi diceva di essere venuta a Torino appositamente per ascoltare Herzog, di quanto fossero stati fondamentali i film e i libri di Herzog per le loro vite, e cose così) , mentre di Hergoz era palpabile la commozione alla vista delle migliaia di persone, ragazzi soprattutto, che si aggiravano dentro e fuori il Lingotto, libri impilati in mano, o dentro grandi borse di stoffa. Più tardi sul palco ha comunicato al pubblico che la notizia più bella di quei giorni era che un libro di poesia fosse finito nelle classifiche dei libri più venduti in Italia. Parlava dell’antologia Poesie da spiaggia curata da Nicola Crocetti e Lorenzo Jovanotti (il libro è bellissimo ed è pubblicato da Crocetti). A fine incontro, fuori dal Lingotto, mi ha ribadito l’importanza della cosa, meglio: l’importanza della poesia, è importante che la gente legga poesia. Sì.

Fuori da non so più quale evento di Herzog a cui ho assistito in questi dieci anni, un uomo aveva portato con sé una copia delle poesie del regista, da fargli firmare, un libro pubblicato quando era solo un adolescente. Herzog lo ha firmato con un certo orgoglio. Altre volte ho visto arrivare gente con gli zainetti pieni di DVD, con copie della Conquista dell’inutile (i magnifici diari del set di Fitzcarraldo, in Italia lo ha pubblicato Mondadori nella traduzione di Monica Pesetti e Anna Ruchat), o di Incontri alla fine del mondo, il libro intervista che ha scritto con Paul Cronin (in Italia lo ha pubblicato minimum fax nella traduzione di Francesco Cattaneo, è anche questo un ottimo libro), o più di recente con Il crepuscolo del mondo (a cui seguirà presto l’uscita, sempre per Feltrinelli, dell’autobiografico Ognuno per sé e Dio contro tutti). A casa, nello scaffale delle mie persone preferite, custodisco gelosamente una copia di di Sentieri nel ghiaccio (forse il mio più amato dei libri di Herzog, in Italia lo ha pubblicato Guanda nella traduzione di Anna Maria Carpi), sul frontespizio la dedica, For Tiziana, with best regards, Werner Herzog. Poi in basso, tra parentesi: Write!

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Autore

tizianaloporto@minimaetmoralia.it

È nata a Bolzano e ha vissuto ad Algeri e Palermo. Abita tra Roma e New York, dove traduce e scrive di libri, cinema e fumetti per La Repubblica, Il venerdì e D. Ha tradotto, tra gli altri, Charles Bukowski, Tom Wolfe, Jacques Derrida, A.M. Homes, Douglas Coupland, James Franco, Lillian Roxon e Lena Dunham, e ha tradotto e curato la nuova edizione italiana di Jim entra nel campo di basket di Jim Carroll (minimum fax, 2012). Insieme a Daniele Marotta è autrice del graphic novel Superzelda. La vita disegnata di Zelda Fitzgerald (minimum fax, 2011), pubblicato anche in Spagna, Sudamerica, Stati Uniti, Canada e Francia.

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