Pubblichiamo il prologo de “La pelle dell’orso” di Joy Sorman (trad. Valentina Maini), in libreria per Alter ego, che ringraziamo.

di Joy Sorman

L’orso e gli abitanti del villaggio avevano stipulato un patto. Un accordo tanto antico che la sua origine si perdeva nel tempo così da sembrare sancito in eterno, sedimentato per sempre nella roccia della grotta: tra l’orso e gli abitanti del paesino avrebbe regnato la pace finché la bestia non si fosse avvicinata ai bambini. Gli uomini si impegnavano a non cacciare gli orsi che, da parte loro, dovevano tenersi a debita distanza.

Ma – così racconta la storia – un giorno un animale ruppe il patto: la sua punizione, esemplare, servì da monito a tutti i predatori delle foreste e delle montagne circostanti. L’orso si era avvicinato ai margini del villaggio e, probabilmente con l’intento di giocare, aveva falciato con un colpo di zampa male assestato un ragazzo di sette anni che si trovava lì, accovacciato sul ciglio della strada, intento a impilare pietre una sull’altra. Il bambino era morto sul colpo, il collo strappato dagli artigli affilati e dalla potenza fenomenale della bestia che, compatitela, non sapeva davvero quello che faceva, e a cui il gesto non fu mai perdonato, più colpevole di essersi avvicinata troppo che di aver ucciso. C’era stato un attacco, e le misure di ritorsione non avrebbero tardato ad arrivare.

Dopo la veglia e i funerali del bambino, le persone si riunirono, si raccolsero, pregarono con la stessa intensità con cui si erano scaldati gli animi. Spinti dagli incoraggiamenti e dalle invettive degli abitanti del villaggio, i guerrieri si prepararono alla lotta contro l’orso: simulazioni di duello ed esercizi fisici, capelli ricoperti di grasso e pelle annerita dalla terra, si colpivano il petto, sacrificavano una gallina per implorare l’aiuto degli dei e la clemenza del cielo.

Poi gli uomini si riunirono nella piazza centrale, armati di lance e di corni che facevano suonare con vigore per annunciare le rappresaglie – non si prenderà l’animale di sorpresa – e preannunciare alla comunità orsina tutta che una vera e propria caccia era in procinto di iniziare, e che il colpevole dalla pelliccia macchiata di sangue fresco di bambino sarebbe stato perseguitato senza tregua.

La battuta durò due giorni e due notti, durante i quali gli uomini non si concessero altro riposo che rapidi bivacchi per mandar giù un po’ di mais e di carne essiccata, finché l’orso venne avvistato, circondato, ucciso – una dozzina di uomini lo pugnalarono più volte per abbatterlo – e portato via su un carretto trainato da due cacciatori. La lenta processione attraversò il villaggio, le donne vestite coi loro abiti da festa in pelle di capra e ingioiellate battevano le mani e danzavano al passaggio del corteo poi, avvicinandosi, sputavano sul corpo insanguinato dell’animale dopo aver masticato foglie di alloro amaro. Infine, la bestia venne fatta a pezzi sotto gli occhi di tutti, i bambini maschi furono invitati a immergere le mani nelle interiora dell’orso e ad imbrattarsi il viso di sangue e di viscere in segno di precoce virilità.

Della sua carne, molle, oleosa e insapore, non venne fatto poi granché: solo le deliziose zampe anteriori, arrostite, furono condivise tra gli anziani del villaggio – nella speranza di assimilare in questo modo un po’ dello straordinario vigore dell’animale –, il resto fu gettato in pasto ai cani che lo rifiutarono, abbandonandolo ai maiali che, si sa, non provano disgusto per niente, non conoscono la nausea, e che si precipitarono senza esitazione sulla sua carne scialba. Dal suo grasso le donne del villaggio trassero alcuni farmaci che furono immagazzinati in vasi di terracotta in previsione di future epidemie: un unguento per lenire le palpebre gonfie, placare ascessi e gonfiori, guarire ogni genere di malattia della pelle, una pomata da applicare con movimenti circolari per curare ulcere, mal di reni e orecchioni, un balsamo per far ricrescere i capelli. Fecero anche provvista di alcuni ciuffi di pelo dalle qualità preventive. All’uomo più depresso del villaggio spettò il cuore, e all’epilettico i testicoli. Dalla sua bile venne filtrata una bevanda energetica che le vergini bevvero a turno da una coppa d’argento cesellato, per proteggersi dalla peste. La sua testa fu sepolta fuori dal villaggio, sotto una quercia. Della sua pelle si fece un trofeo, una parure selvaggia. Tagliato con estrema cura al momento della scuoiatura, lavato, conciato e lucidato, il costume sciamano si unì al tesoro di guerra, conservato in un baule dalla serratura impreziosita di diamanti.

Dopo questo episodio violento, gli orsi se ne stettero tranquilli, a debita distanza dai villaggi, e ogni anno la comunità umana non mancava di ricordare loro il castigo che avrebbero subìto in caso di tradimento: il primo giorno di primavera, un uomo nel fiore dei suoi anni scivolava dentro la pelle dell’orso.

Quindi camminava per le strade, annunciato dal tintinnio dei campanellini cuciti sulla pelle dell’animale e dalla macabra melodia del suo collare di ossa e denti – ogni suo passo così enfatizzato da un monito sonoro. L’uomo, dapprima liberato come una belva all’ingresso del villaggio, danzava al suono del tamburello, invocando gli elementi, si lanciava in una parata propizia ai raccolti, alla fertilità del grano come a quella delle donne. Poi, proseguendo il suo erratico viaggio, si gettava sui passanti accorsi ad ammirarlo, e infine penetrava con furia in tutte le case, ne scacciava i demoni a gran gesti e travolgeva i malati costretti a letto per liberarli dal dolore e dalla febbre. Al calar della notte, l’uomo smetteva di gridare, abbandonava la pelle, se la sfilava esausto per fare un bagno poi rinfrescarsi con qualche birra al mirtillo, mentre il vestito magico, una reliquia, veniva di nuovo riposto nel baule fino alla successiva primavera.

Questa usanza ritmò l’avvicendarsi delle stagioni per almeno un secolo, tempo di pace tra l’orso e gli abitanti del villaggio. Ma ancora una volta il patto venne infranto.

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