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di Christian Raimo

L’anno in cui i miei si separarono avevo vent’anni, e vivevo ancora con loro. Ero un ragazzo senza equilibrio – forse come chiunque conoscessi. Ma io sentivo di esserlo: era come se mi mancasse un regolatore omeostatico, e questo mi trasformava in un sistema tortuosissimo di vasi comunicanti che non si pareggiavano mai, restavano a secco o strabordavano. Ero esaltato per certe cose. La mia memoria, per esempio. O meglio, la mia capacità di raccogliere dettagli, di ricordarli, di catalogarli: in questo ero impressionante. Avevo il ruolo del registratore visivo domestico. Quando qualcuno, mio padre, mia madre, mio fratello, discuteva se quel giorno fosse successo questo o quell’episodio, se fosse marzo o maggio il mese in cui mentre tornavamo dalla gita a Venezia sull’autostrada all’improvviso ci era venuto incontro un pavone e papà era andato a sbattere contro il guardrail e aveva distrutto la macchina, o se era vero che quando mi ero ammalato di morbillo mio fratello non aveva voluto starmi vicino nella stessa stanza neanche nella stessa casa perché gli facevo paura, piagnucolava e aveva pregato di poter dormire a casa di un amico. Ero sempre io a fare il filologo: a riportare uno a uno tutti i dettagli. Quel periodo tu eri depressa mamma, quella volta papà l’hai detta quella cosa, quasi a ricordargli sempre: questi siete voi, questi siamo stati noi, non altro.
E quando, il primo febbraio del 1994, tre-quattro giorni dopo che Berlusconi aveva fatto quel discorso televisivo in cui diceva che amava l’Italia, mio padre invece di mettersi a cucinare matriciane o carbonare e tagliare corto, dicendo «Almeno mangiamoci una pasta fatta bene», si era ritirato a dormire. E sempre il primo febbraio, intorno all’ora di cena – una cena che poi non facemmo – a testa bassa, con una voce inopinatamente nasale, mio padre fece un discorso anche lui, prendendola molto alla lontana, dicendoci che da un bel po’ di tempo nei modi in cui ci sistemavano in casa si poteva enucleare una certa tensione, e poi disse che lui e mia madre insomma questo sì era forse evidente era forse comprensibile era normale lui e lei lui e mia madre non si trovavano bene.
Io, che al penultimo anno del liceo leggevo manuali di fisica universitaria, mi voltai di scatto verso di loro e cominciai a fare quello che sarebbe accaduto per gli anni successivi: a non guardarli come esseri umani. Mio padre e mia madre – gente che c’era e viveva e si guardava e si baciava e si giudicava e si faceva del male prima che io ci fossi. Non due esseri umani ora, ma due corpi per un esperimento. Mio padre: un grave che prende la parola per dire – dalla sua prospettiva inorganica –, per confessare di non trovarsi bene, di essere stato posizionato male. Qualcuno l’aveva messo fuori sesto lì, e lui dopo esserci rimasto tanto tempo, s’era reso conto che quello, quel posto, non era il suo, così l’esperimento non funzionava.
Primo febbraio, una giornata di vento calmissimo, anomala e calda. Le nuvole: dei parallelepipedi schiacciati, disposti in cielo come le isole di terra in Super Mario Bros. E io che esco di casa, mi vado a fare un giro, mio padre che ancora dice: «Adesso dobbiamo parlarne, questo fatto di non trovarsi bene… e le condizioni che… e l’equilibrio delle cose… e le dinamiche personali… e le conciliazioni sono difficili…» Come se aggiungere parole a altre parole potesse creare una specie di bozzolo analgesico intorno alle decisioni.
Io senza salutarlo sono fuori di casa e guardo il mondo, anche questo è tutto inorganico. Polvere, mura dipinte, lamiere, mattonati, il cielo rosa pantone. Le automobili sono sculture di pistoni e ferro, lo spiazzo con le altalene e gli scivoli è una colonia lunare disabitata, qui sorgeranno i palazzi, le insegne delle vie e i cartelli stradali saranno l’unica inflorescenza che sbucherà dalla terra. Le cose muoiono se hanno vita, ma se nessuno gliela dà questa iattura della vita non è detto che debbano morire.
Per questo mentre i miei si separavano, mentre mia madre restava a dormire da una sua amica, e mio fratello decideva di andarsene da Roma… io mi ricordo che passai quell’anno a dare un occhio al citofono ogni volta che uscivo e rientravo a casa. La targhetta con il cognome di mio padre accanto a quello di mia madre mi sembrava, a conti fatti, molto più intelligente di tutti noi esseri umani viventi che ci affannavamo per non rinfacciarci violenze, per fare o non fare quelle scene terribili in cui mentre si piange abbracciati a qualcuno, ci si distacca appena dall’abbraccio, perché la persona che pensavamo ci stesse salvando è proprio quella che ci sta facendo morire, e tutto l’amore che credevamo che ci stesse dando è soltanto l’infinita giustificazione alla sua impotenza.

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5 commenti

  1. io a vent’anni (1991) vivevo con mia madre e mia sorella, conobbi il professore con cui mi laureai, feci un bellissimo viaggio in corsica con due cugini.

  2. sì, sono andato fuori tema.
    nel 1994 avevo 23 anni, mi stavo per laureare, e la frase di berlusconi, solo la frase delle radici…, devo dire non mi dispiacque; ricordo anche l’opuscolo agiografico che arrivò a casa.

  3. “…in casa si poteva enucleare una certa tensione” Ma come parla tuo padre? Sicuro di ricordare bene?

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Autore

fandzu@gmail.com

Christian Raimo (1975) è nato a Roma, dove vive e insegna. Ha pubblicato per minimum fax le raccolte di racconti Latte (2001), Dov'eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (2004) e Le persone, soltanto le persone (2014). Insieme a Francesco Pacifico, Nicola Lagioia e Francesco Longo - sotto lo pseudonimo collettivo di Babette Factory - ha pubblicato il romanzo 2005 dopo Cristo (Einaudi Stile Libero, 2005). Ha anche scritto il libro per bambini La solita storia di animali? (Mup, 2006) illustrato dal collettivo Serpe in seno. È un redattore di minima&moralia e Internazionale. Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi Il peso della grazia (Supercoralli) e nel 2015 Tranquillo prof, la richiamo io (L'Arcipelago). È fra gli autori di Figuracce (Einaudi Stile Libero 2014).

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