Questa intervista è uscita per la rivista Rolling Stones.

di Francesco Pacifico

Incontro Bret Ellis a Milano, ultima tappa del tour mondiale di Imperial Bedrooms, il romanzo con cui riprende i personaggi del suo esordio epocale, Meno di zero, e con cui conclude una fase della sua carriera dopo altri libri chiave della nostra epoca come American Psycho e Glamorama, ossia i sussidiari grotteschi rispettivamente degli anni Ottanta e degli anni Novanta. Lo aspetto nella Sala Verdi del Grand Hotel et de Milan, dietro la Scala: questa un tempo era la suite di Verdi, ed è ancora arredata a dovere, con sediole di legno laccato, gran specchi e luci gialle e il ritratto del compositore.
Ellis entra nella sala in cappotto sformato da maniaco, hoodie, maglietta bianca, pantaloni neri, pure sformati, scarpe da ginnastica chiare brutte. Io mi sono vestito carino apposta per ottenere la sua attenzione: ho una camicia di Versace blu scura.

Te l’hanno spiegato che adesso ti devo ammazzare? Poi ti nascondo dietro quella porta, o quell’altra là in fondo.
Ma sto registrando, quindi la polizia può…
No no no no, è una battuta tre me e… Aspetta, voglio guardarti in faccia. Una battuta tra me e il mio interprete italiano, la facciamo da quando sono arrivato: se un giornalista comincia la sua domanda con: “Allora, sono passati 25 anni da Meno di zero”, io guardo il mio interprete [picchia la mano sul tavolo]… E ora che gli facciamo? O quando l’intervista comincia con Non credo che Clay sia cambiato… Quindi le interviste parlano del tour, di come sto, dei miei tweet su Angry Birds. Angry Birds. Angry Birds…
[Qui uso un trucco, qui: tiro fuori la copia di Imperial Bedrooms che mi ha autografato a NY lo scorso luglio. Gliela metto sotto gli occhi.]
E questa da dove viene? Da ieri? Ricordamelo.
Adesso sei tu che morirai.
Dimmelo.
New York, luglio.
Ok. Non a Barnes and Nobles.
Sì.
Dio, che paura. Be’, quello è stato il giorno più importante del tour di Imperial Bedrooms.
Se sei stanco non voglio farti domande. L’unica che ti farò oggi è: Tequila.
[È la risposta di Ellis a una domanda interminabile e tristissima sul dolore dei rapporti col padre fattagli al reading di NY.]
Sei stato tu?!
No. Quel pazzo con la voce bassa in fondo alla sala.
Un giorno memorabile. La cosa più memorabile è che prima del reading dovevo rivedere il mio appartamento di NY per la prima volta da quattro anni. Sta dietro Union Square [dove sta il Barnes and Nobles del reading]. A NY ho un assistente che si occupa di darlo in affitto. Lo chiamo e chiedo se mi apre l’appartamento, che al momento è sfitto. “Porto qualcuno della casa editrice e qualche amico, fammi trovare una bottiglia di vino, e apri casa che forse io arrivo un po’ in ritardo”. Così scendo verso Union Square in taxi, l’assistente mi manda sms dicendo chi c’è. Mi fa: “Voglio solo avvertirti che Tom è nel palazzo. Tom ossia Tom Cruise. È una barzelletta: quando mi sono trasferito in quel palazzo, Tom stava tornandoci a vivere. È per questo che è in American Psycho: ci siamo incontrati una volta in ascensore. Non ci hanno mai presentati ufficialmente. Ho scritto di lui, abbiamo vissuto nello stesso palazzo per quasi tutta la nostra vita adulta. È un palazzo piccolo. Quando sono andato via nel 2006, lui e Katie ci sono tornati, da L.A., e adesso fanno base a NY. L’assistente insomma mi diceva che c’era casino, gente per strada che sperava di vedere Tom e Katie. Il taxi svolta nella mia via, e a metà la strada è bloccata. Trecento persone fuori dal mio palazzo, una serie di poliziotti e tre SUV neri.
La prima volta che ci vai in quattro anni…
E nemmeno riesco a entrare. La lobby era piena. Allora individuo l’usciere e gli faccio dei cenni attraverso la folla. Ho un aspetto molto diverso da prima. Lui non mi vede da quattro anni. Mi guarda perplesso, poi mi riconosce, Ooh Bret! E quasi si commuove e tira dentro me e i miei amici, e saliamo tutti sopra insieme e io dico “Ragazzi, ora entro un attimo da solo. Sapete, ci sono entrato negli anni ottanta. È il posto in cui ho scritto American Psycho. È il posto in cui ho avuto tante storie d’amore. In cui ho fatto feste pazzesche. Questo appartamento è stato la mia vita per molto tempo. Non lo vedo da tempo, credo che mi commuoverò molto, lasciatemi due minuti”. Erano mesi che mi preparavo per quel momento. Mancava mezz’ora al reading, la libreria era a quattro isolati. Entro nell’appartamento, nella stanza. Sono pronto alla devastazione emotiva. Mi guardo intorno. È uno studio: è tutto lì. Mi guardo intorno e penso: “Che buco di merda. Che topaia. Hai vissuto qua dentro tutti quegli anni?” Non provo alcuna emozione se non il sollievo. Solliev. Oltretutto, quasi non lo riconoscevo, perché per darlo in affitto abbiamo dovuto rimetterlo apposta. Nuova cucina, nuovo bagno. Il vecchio minimalismo industrial, fichissimo ma estremo, non c’è più. E ora è un luogo confortevole. Poi entriamo, e a quel punto quelli della casa editrice cominciano a guardarsi nervosamente tra loro. Sanno che non devono dirmi nulla del reading: non voglio sapere cosa succede in libreria. Voglio arrivare lì nel secondo preciso in cui comincia. Dalla casa editrice arrivano sempre più telefonate. Allora dico: “Tutto ok? Abbiamo una prenotazione per le 21.30 a Irving Plaza, l’hotel, voglio star sicuro che facciamo il reading e la sessione autografi e per le nove-nove e un quarto sono fuori. E loro… “Ok… ok… sì…” queste ragazze nervose della casa editrice. Insomma ci avviamo lì a piedi, prendiamo l’ascensore di servizio, chiacchieriamo. Si apre la porta dell’ascensore, che sta sul fondo della sala al quarto piano. Che ci fanno tutte queste persone in piedi fuori dall’ascensore? Hanno spostato il palco da quest’altro lato? Poi ho capito. E non ci potevo credere. Mi ero preparato a una situazione più rilassante, ma a quel punto ero scioccato.
Quando il tipo dal fondo ha fatto la domanda e tu hai risposto “Tequila”… È stato un momento decisivo, per me: mi sono spesso chiesto chi sei tu veramente. E quella risposta mi ha fatto capire. Hai detto Tequila per liquidare la lunga tristissima domanda sul rapporto col padre. Ti sei preso le risate del pubblico.
Giusto.
E poi però hai cominciato a rispondere seriamente a quella domanda così commovente.
È vero, anch’io ero molto commosso, avevo un nodo in gola. Ora che me ne parli me lo ricordo benissimo. Quando è venuto a parlarmi, dopo… Sì, mi sono commosso. Mi viene da piangere anche adesso, vedi?
Ed è il punto decisivo, questo. A volte mi viene di pensare che sei solo uno stronzo.
Sì.
Uno che ha solo il dono dello stile.
Ho capito.
Sai, mi ha illuminato la cosa che hai detto al reading su chi veramente ha ispirato lo stile di Meno di zero.
Joan Didion.
Sì: ho pensato: aaah, giusto, finalmente. Eri un ragazzino con molto talento che aveva preso il sound delle frasi da Joan Didion.
Ho rubato tutto da lei. Ero piccolo. Ho imparato a scrivere leggendo Joan Didion. Riscrivevo da me le sue cose per capire come faceva… Ho rubato tutto. Mi ha aiutato a trovare la mia voce come autore, e dovevo rubare da lei. Funziona così.
Insomma, a parte questo tocco estetico che avevi, come fossi un produttore, o un Quentin Tarantino… io mi dicevo: non è che Ellis è solo una specie di dj dello stile letterario?
Giusto. Capisco.
…o invece c’è qualcosa?
Scusa, e perché non può essere entrambe le cose? Perché non può essere una combinazione delle due? Non capisco: la gente vuole o una cosa o l’altra.
No no, non voglio dire questo. Voglio dire che non è solo stile… Il modo in cui Glamorama si trasforma in un incubo. Glamorama è il tuo libro che preferisco.
Anch’io. E di tanto.
Perché dev’esserci commedia, devono esserci grandi dialoghi. E poi il libro però deve anche mostrare la sua carne, le sue viscere.
Proprio così.
Sai un’altra cosa? Il problema con noi lettori di Ellis è che tu non sembri curarti troppo di scrivere. Forse perché ce l’hai fatta da piccolo.
Non la vedo mai in quei termini. È un hobby, per me. Non sono uno scrittore professionista, non scrivo pezzi di critica letteraria, saggi, non faccio dibattiti, non vado ai festival letterari, niente. Mi piace scrivere i miei libri, che trattano del mio dolore. Il critico Dale Peck, quello cattivissimo, ha scritto un pezzo sulla mia carriera. Incredibilmente positivo. Ma il problema, dice, è come vengo recepito dalle persone: si ha la sensazione che a Ellis non freghi niente. Proprio come dici tu. Hai la sensazione che stia lì, pubblichi un libro ogni cinque sei anni, tenga in piedi la cosa… Ma ti pare che per lui scrivere sia altro che la sua visione, il suo scopo nella vita. Ma dopo aver letto quella cosa, e aver sentito te, comincio a pensare che forse avete torto. Non so. Forse invece è proprio lo scopo della mia vita, e la cosa che me l’ha salvata. Non so. Aaaah… Il problema di questo tour è come ha scollegato me, il vero me che ha avuto davvero una storia con una Rain Turner [la stalker aspirante attrice arrivista del romanzo, che sta con il protagonista per ottenere una parte] e nel frattempo scrivere The Informers, tratto dai racconti di Acqua dal Sole, e ha visto implodere la produzione del film, per quattro intense settimane in mezzo a un periodo di depressione e cupezza. Dunque: come lo scrivo? Ho già deciso che voglio usare Clay, e leggo molto Raymond Chandler, e decido che non voglio la storia agrodolce, malinconica, fra Clay e Blair di Meno di zero. La storia della passione giovanile rinfocolata nella mezza età. Clay è a LA per 4 settimane di casting… bla bla bla… Sai, sentivo che dovevo scrivere quel libro, poi mi sono trasferito a LA e quel mood è evaporato. È evaporato nel momento in cui ho tradito un mio amico, Nick Jarecki, che ha scritto con me la sceneggiatura di Informers e che è stato buttato fuori dalla produzione. E in quel momento Julian [di Meno di zero] si è insinuato nella mia idea del libro. Io e Nick eravamo migliori amici, e Nick voleva interrompere la produzione del film. Era ancora in preproduzione e secondo lui stavano facendo errori, troppi tagli alla sceneggiatura, stavano facendo male – e aveva ragione. Io mi fidavo di loro, avevano ottenuto venti milioni di dollari per fare il film, avevano trovato gente come Billy Bob Thornton, Mickey Rourke, Kim Basinger, erano nomi che ci servivano, e la gente era interessata. Nick diceva: il regista farà uno schifo, non importa quanti soldi ci hanno messo: sarà un danno per noi, non troveremo lavoro per anni, se lo girano così. Avevano modificato troppo la sceneggiatura. E io con loro: anch’io aiutavo a modificarla. Facevo quel che mi ordinavano. E lui allora ha cercato di fermarmi.
E qui avevi già iniziato a scrivere il romanzo?
The informers è stato un processo di tre anni. E il libro l’ho scritto negli stessi tre anni. Ho cominciato con Clay che tornava a LA, com’è all’inizio, ma poi Julian è saltato fuori, verso luglio-agosto, quando mi sono sbarazzato di Nick, facendolo fuori dal film. [Nel libro, i rapporti fra Clay e Julian sono un disastro continuo di segreti e tradimenti.] Uno stress pazzesco, eravamo migliori amici. Mi dicevo: ma è pazzo? Si rende conto quanto è difficile riuscire a fare un film? Nick diceva: ma possiamo farlo più economico, secondo la nostra visione, non dobbiamo fare questa cosa che alla fine sembrerà una cazzo di soap opera australiana, che poi in definitiva è ciò che è stato il film. A quel punto il libro ha cominciato a cambiare, a prendere un’atmosfera molto più cupa e morbosa, e di lì a poco mi sono ritrovato impantanato in quel caos che è fare un film, e non mi era mai successo prima. E comunque, sì: c’era una Rain Turner [altro personaggio di Imperial Bedrooms], in quel periodo, nella mia vita. Che stava con me per ottenere la parte, come Rain nel libro. E il casting è andato avanti così a lungo, nove mesi, che invece di farmi una semplice tresca con una persona per una settimana e rimediarle un provino, il processo è durato così a lungo, per cui mi ritrovavo in una relazione come se fosse vera! Mentre lei restava con me perché voleva una parte! E fingeva. E io diventavo sempre più paranoico e mi dicevo “È tutto vero” e “Niente di tutto ciò è vero”… E mi chiedevo: riusciresti a fare un libro senza sangue, senza troppa paranoia? Un vero libro, autentico, sull’amore?
“No! Non posso! Perché questa donna mi sta…”
Non posso, esatto… Comunque avrei dovuto solo godermi quello che stavo facendo. È molto eccitante fare un film, cazzo. Be’, certo, creativamente è andato a rotoli, e succedono tante cose brutte, e ci sono gli attori che ricominciano a drogarsi in mezzo alle riprese. Brad Renfro: che in mezzo alle riprese è morto per quello. E quando l’abbiamo montato il film non funzionava, probabilmente perché il regista aveva ricominciato a pippare in Uruguay. Dovevamo girare alle Hawaii ma era troppo costoso e siamo finiti in Uruguay. E l’Uruguay non sembrano le Hawaii. “Ce lo faremo sembrare”. E a un certo punto ti rendi conto che sei nel mezzo di un film da venti milioni di dollari. Doveva essere un film divertente, e invece… ma il regista mi assicurava che sarebbe andato tutto bene. Ma hai delle scadenze, devi continuare, tirare avanti a girare. Ed è da tutto ciò che è nato il libro.
E ora che farai? Ti occuperai più seriamente di scrivere?
Non scriverò più romanzi.

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Autore

francesco.pacifico@gmail.com

Francesco Pacifico è nato a Roma nel 1977, dove vive. Ha pubblicato i romanzi Il caso Vittorio (minimum fax), Storia della mia purezza (Mondadori) e Class (Mondadori). Ha tradotto, tra gli altri, Kurt Vonnegut, Will Eisner, Dave Eggers, Rick Moody, Henry Miller. Scrive su Repubblica, Rolling Stone, Studio.

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