
di Antonio Devicienti
Di contro a un discorso generico circa il più recente libro in poesia di Gianni Montieri Ampi margini (LiberAria Editrice, Bari 2022) preferisco provarmi in una riflessione capace di focalizzarne uno dei fili conduttori principali, vale a dire il rapporto dell’io lirico con la città (meglio: con le città e si vedrà presto quali).
Ampi margini è il risultato della ripresa, a volte della riscrittura o della variazione o della revisione e del montaggio di precedenti lavori di Gianni Montieri (anche di interi libri come Futuro semplice e Avremo cura) pubblicati tra il 2010 e oggi, per cui quello che abbiamo in mano è un percorso di scrittura che si misura con il tempo, con contenuti specifici, con stili di scrittura in fieri; non è, si faccia attenzione, quella che si chiama (con termine e in base a un’operazione editoriale ultimamente molto di moda) una “autoantologia”, ma proprio e fattivamente un ripercorrere più di un decennio di scrittura cercandone nuove modulazioni, pensandone la collocazione (mi si passi la metafora) entro un “edificio” ampio e complesso e attuando una nuova presa di coscienza di quella stessa scrittura rispetto al reale.
Sono Napoli (o meglio: l’intera, immensa, brulicante area metropolitana di Napoli e in particolare il centro storico e, altrettanto significativa, l’area urbana che si colloca lungo il cosiddetto Asse mediano) e Milano (precipuamente il suo Hinterland popolare e industriale e/o postindustriale) le realtà urbane che alimentano il libro, ma non solo.
Gianni Montieri muove da premesse autobiografiche senza, però, che l’io diventi ipertrofico e narcisista, ma riuscendo a raggiungere e a mantenere un equilibrio tra prospettiva soggettiva e oggettivazione delle esperienze. Gli spazi urbani di riferimento assumono infatti significato e valore in rapporto al loro rispecchiarsi nel paesaggio interiore che ne viene continuamente modificato e che costantemente vive di una dialettica esterno-interno, fatti-reazioni emotive e/o memoriali che spiega questi “ampi margini” i quali sono geografici, cronologici, interiori – ed è una dialettica che genera una scrittura densamente riflessiva e sempre commossa. La “commozione”, che qui dev’essere intesa etimologicamente quale moto dell’animo che si attiva e consuona con quanto gli accade intorno, non ha nulla di patetico né di sentimentale, anzi, per paradosso (ma che è solo apparente) c’è sempre un’oggettivazione del sentimento, esiste sempre una coscienza chiara degli accadimenti e dei loro perché.
Può accadere allora che nei pressi del Monastero di Santa Chiara nel cuore di Napoli un fascio di luce, che non proviene dall’edificio, ma da un motorino «che corre lungo / via Benedetto Croce» (p. 14) sia «cosa inquieta / [che] scuote la nostra immobilità» (ibidem) e questi versi, apparentemente così piani e semplici, mi appaiono come una cifra dell’intero libro: entro il contesto urbano accade sempre qualcosa che desta la coscienza, che muove la scrittura, che spinge quest’ultima a diventare presente a sé stessa non come registrazione di sentimenti, ma come scandaglio dentro il reale.
Ecco perché i non pochi testi dedicati al giuoco del calcio e a Diego Armando Maradona, quelli (delicatissimi e pudichi) dedicati al ricordo del padre dell’autore, le prose della sezione finale (Quando imparammo a tremare – 23 novembre 1980) dicono di una storia interiore, personale e intima, capace di essere storia di tantissimi, per lo meno di un’intera generazione che ha condiviso medesimi entusiasmi, stesse passioni, medesime attese e simili delusioni o disillusioni. Ed ecco che Montieri può scrivere: «Chitammore la voglio usare adesso / rivolta a chi avverte il bene, a chi crede / nel moto incessante di questo luogo / al suo costante rinnovarsi, a dispetto / di chi ancora va dicendo che Napoli / non cambia, e intanto le parole / dalla bocca dalle mani gli spariscono» (p. 19) e il poeta adotta l’espressione chitammore che aveva udito sulle labbra di un ragazzo quasi investito da un motorino: alla vista della bella ragazza alla guida l’istintivo chitemmuorte era diventato, in una frazione di secondo di pura genialità, chitammore, ché anche in questo libro, come già nei precedenti, il tema amoroso nutre la scrittura ed è amore quello per Napoli (contraddittoria, difficilissima realtà) e anche per Milano, l’altra metropoli capace di dare significato alla scrittura di Gianni Montieri; ma se Napoli è la città dei ritorni, dell’infanzia e della prima giovinezza, Milano (e, per motivi diversi, anche Venezia e Torino e una città come San Paolo del Brasile) è la città della maturità, in parte della necessitata emigrazione, in parte del venire definitivamente alla luce della scrittura stessa se Gianni Montieri è capace di comporre un testo di questa portata: «Una volta presa la funicolare / a Montesanto, siamo saliti / fino al centro di Milano / abbiamo rinunciato a morire / sbiaditi tra i fuochi spenti / dell’Italsider e quelli del vulcano / abbiamo provato a ricomporci / le ossa dove si poteva: felici? / Nessuno lo sa, nemmeno interi / soltanto qualcos’altro, frammenti / composti da valigie e mare / abbiamo comprato biglietti, / preso case in affitto, siamo / invecchiati, non è poco» (p. 24).
Infatti, quasi come una dichiarazione di poetica, si legge proprio all’inizio della sezione Avremo cura: «E mi piacciono le parole / con le parole do i nomi alle cose / allora dopo le so le cose / imparo dove metterle / dove sta la bottiglia e dove / l’attaccapanni» (p. 45) e, si aggiunga, le parole danno anche i nomi ai luoghi e alle città (sono tanti i nomi di strade e di quartieri sparsi nel libro), spesso leggiamo di sterrati e di campetti di calcio, di periferie industriali (e anche di fabbriche dismesse), di vicoli e di piazze che a seconda della propria collocazione geografica sono colme di musica o celano la violenza camorrista, oppure nebbiose segnano solitudini o attese e questa scrittura ha una voce spesso sommessa, qualche volta malinconica, sempre decisa a dire: a capire.
L’intero libro possiede così un moto pendolare che va da Napoli a Milano, oppure da Milano a Venezia o anche verso città non italiane e le prospettive urbane (mai oleografiche né banali, mai folkloristiche né calligrafiche, mai sfondo o riempitivo) sono uno degli assi portanti di Ampi margini perché esse toccano direttamente il farsi dell’io attraverso la scrittura la quale sa essere anche traccia del tempo (e della storia sia personale che collettiva), impronta della vita che avverte sé stessa nel suo farsi, mutare, ritornare, inciampare, slanciarsi in avanti; gli spazi e gli interni urbani vengono così abitati dalla scrittura di Gianni Montieri e, addirittura, l’amore per certi libri e la forza fantasticante si spingono a immaginare gli autori prediletti (o le loro tipiche atmosfere) aggirarsi in luoghi precisi (per esempio Cormac McCarthy a via dei Tribunali o David Foster Wallace a Marechiaro), mentre la fiaba del pifferaio magico e dei fatti accaduti a Hamelin si trasformano in una grande (amarissima) metafora di una Napoli ostaggio della malavita organizzata e insieme con la città sono ostaggio anche le vite di tutti, bimbi compresi (in questo caso – ma numerosi sono i testi che in Ampi margini esplicitano il tema – la presenza camorrista deforma il paesaggio urbano e sociale, uccide i sogni, nega la libertà di scelta oppure costringe ad andare via e le pagine doloranti e dolorose di Montieri non smettono mai di far presa sul reale).
Al contesto urbano appartiene il gioco del calcio, contemporaneamente metafora del vivere (più precisamente: dell’imparare a vivere) e passione tuttora coltivata; Maradona è eroe di un’epica tutta moderna e commossa: «Ti guardo fisso negli occhi / portiere vecchia volpe / dal talento di ghiaccio / ti guardo sotto il cielo di Milano / ti guardo mentre addormento / la palla sul mio petto / e tolgo il respiro a mezza Italia / ti guardo negli istanti di silenzio / (seguiranno interviste con te / che la racconti e la racconti bene) // la palla addormentata da un sussurro / scivola dolce dal petto al piede / e da lì parte, piccolo / giocattolo verso il bambino / il bambino dal petto alla culla / dal sonno al sogno / dal niente al fondo della rete» (Diego Maradona dalla sezione Quattro canti su un gol di Maradona, p. 155). Anche in questo caso i poli dialettici sono Napoli e Milano, città decisive nello svolgersi della scrittura di Montieri, si è già detto, ma anche della sua vicenda biografica, in questo saldarsi del Sud e del Nord che trova il suo epicentro proprio nel ricordo del terremoto del 23 novembre 1980 quando «tutto prese a tremare mentre noi stavamo giocando a calcio» (p. 161) e quando, nelle settimane, nei mesi e negli anni successivi coloro che quella domenica erano bambini ebbero capito la portata anche storica e morale dell’evento.
Ampi margini è libro pieno di ringhiere, di scale, di corrimano, di cortili e anche di cieli che cambiano colore, perché contiene «testi che si muovono sotto una luce che cambia» (Montieri nella Nota al testo di p. 171) e che coprono un’ampia parabola della scrittura dell’autore, ma anche perché i cieli urbani vivono della presenza degli edifici e delle strade, dei saliscendi e delle fabbriche e, ribadisco perché lo considero un elemento determinante, dei nomi dei luoghi perché sono i nomi a restituire quei luoghi e chi li vive a un’identità, cioè a una storia e a una consapevolezza, a una memoria. E in Ampi margini la scrittura in versi è capace di pronunciare i nomi.
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