Diari, dialettica e trappole

“Chi ti dice che i soldi non fanno la felicità è un bugiardo! Se cresci senza avere niente e sei fissato solo con le cose materiali […] capisci che questa è la vita”. “Cercate in primo luogo cibo e vesti, e il regno di Dio vi spetterà in sovrappiù”. Capita che Simba la Rue e Hegel esprimano lo stesso concetto e siano praticamente indiscernibili. Che le armi culturali siano spuntate, quando un fenomeno sociale si vuole totale, si presenta così, e lo diventa davvero: “La trap è ovunque, è una sorta di iperoggetto”, è linguaggio egemonico. Perché tutti in questi anni abbiamo ascoltato la trap, volenti o nolenti, tutti abbiamo masticato questa musica indigeribile, tutti abbiamo visto gli adolescenti – i nostri ragazzi, i bambini – cantare e vestirsi e mimare quello stile, quei personaggi: allora abbiamo sollevato il sopracciglio e poi abbiamo continuato. Ora arriva Maxirissa – un titolo trap in sé, uno stigma per raccontare una musica fatta di marchi e marche – e squaderna voci e chiavi di lettura, accelera e rallenta. Le sue pagine – questi diari, il sottotitolo va preso sul serio – non risolvono il problema, ti ci lasciano affondare.

Il libro di Piccinini e Robertini non è un’introduzione alla trap (“la trap spiegata bene”, come dicono quelli) – di cui pure ci sarebbe bisogno per i boomer – ma un archivio e un serbatoio di idee e materia per pensare il fenomeno musicale dell’ultimo decennio in una chiave che non passi per la demonizzazione. Intanto, ci troviamo una definizione utilissima a partire dalla sostanza verbale, dalla forma che assume, una forma immediatamente conflittuale, agonistica, costruita sulla “prestazione”: “La trap è costruita su una prevalenza della rima baciata, come performance ginnica, parossismo, accumulo che nelle jam improvvisate di fronte al pubblico scatena urla e applausi, decreta vincitori e sconfitti. Una delle sue figure retoriche preferite è la paronomasia, le assonanze interne in cui la fonetica detta legge all’universo”. Ed è un buon inizio – leggi del suono e decretazione di strada, insieme.

La chiave compositiva del libro è intrigante. Maxirissa non è appunto un trattato, ma un sistema coordinato di notazioni antropologiche e osservazioni politiche decisamente ficcanti (“ecco l’eco di Salvini, del Far West trumpiano filtrato con l’autotune, ‘la difesa è sempre legittima’ che mette d’accordo Rete 4 e la trap”), di interviste e dichiarazioni spontanee, il tutto condito da una verve narrativa notevole, con punte di sarcasmo tipica delle due penne, e formule da tenere a memoria (la “trattativa Stato-trap”, Silvia Sardone “in estasi securitaria”). Ci sono passaggi saggistici, altri analitici, e poi vertiginosi assalti frontali ad alcuni personaggi (Blanco stanotte non dorme tra due guanciali). C’è un resoconto disturbante del tour embedded nella Rozzano di Paki. Ma il meglio sono quelli che nel testo vengono chiamati i featuring. Arrivano spesso dopo le analisi, le definizioni “dall’alto” di alcuni fenomeni, di alcune carriere. Poi la parola passa ai protagonisti e il giudizio si ribalta (due pagine di Tedua che meritano il prezzo del biglietto, l’intervista con Mowgli nel paragrafo “Via Padova State of Mind”, Rondo attento al sociale e ignoto a tutti, Paki che spiega il suo rapporto col territorio). È la dialettica della trap, o le trappole della dialettica – non sai più cosa pensare, e allora pensi il doppio.

Non dice nulla

Per noi tutti – noi over quaranta, i vecchissimi che leggiamo i longform –, per noi la trap non “dice” nulla, e quando dice sbaglia. Ma Piccinini e Robertini ci mettono a tacere. Spiegano perché gli Articolo 31 che oggi titolano un disco Protomaranza non sono credibili: “c’è nelle rime di questi reduci della Gen x una scia chimica di giudizio morale e politico, un’aria di ‘si stava meglio prima’ che non ci possiamo più permettere”.

Il tema è decisivo – ne va di ciò che siamo. La trap risponde alle domande su come siamo fatti all’altezza di questi anni Venti. E se le risposte, ovviamente, non sono rassicuranti, non è colpa di un’espressione sociale che fa dell’ambivalenza la sua chiave. Ambivalenza tra realtà e finzione, tra rivolta e conformismo, tra sottoproletariato e nouveaux riches, metropoli e hinterland. La trap dice moltissimo – già solo, inizialmente, dell’incapacità di leggere “una comunità spesso difficile da intercettare, stigmatizzata o criminalizzata dai media, ma vitalissima e sorridente a tifare per il fra’ che ce l’ha fatta”. Dice della trappola semantica dell’integrazione, delle guerre culturali con cui si maschera la povertà coatta, dello stato sociale sparito nei territori fuori-centro. Dice del sessismo da nord a sud, dell’educazione sentimentale inesistente di più e più generazioni, di più e più strati sociali – che si amalgama senza pause critiche, senza prese di distanza, a questo vocabolario intimo della ‘nazione’. Ma dice anche in positivo.

Per esempio la trap parla – dà la voce, fa prendere parola – dei ragazzi della seconda generazione – i figli degli immigrati, l’oggetto preferito del moral panic mediatico orchestrato dalla destra, e fintamente neutralizzato dall’altra parte da un buonismo di facciata (“la colpa è della società” come mantra inutile). La trap parla delle carceri – dal di dentro. Sì certo: Jailhouse Rock, e Johnny Cash e Dylan, e da noi De André e poi Silvestri, ma questi ci passano tanto, tanto tempo, e ci vuole Simba La Rue, ventitré anni, a spiegare il principio di terrore del carcere minorile – dove il peggio è a portata di sguardo (e quindi la produzione proliferante di violenza, i desideri di suicidio, le proiezioni di nulla). La trap parla degli istituti di detenzione (il famigerato Beccaria molto prima di Mare fuori), che la destra fascista di governo ha rimpinguato di infinite leve tra gli applausi: “Se l’immigrazione è il terreno sim­bolico su cui si gioca la partita globale dei prossimi anni, Baby Gang parla la lingua del futuro, la politica quella del passato, della paura, della cella”. Solo la cecità su temi totali come la migrazione e le carceri spiega perché una parte della società che ha poco e niente ma si vuole tutto ne parli di continuo, e la parte che ha moltissimo reagisca dicendo che schifo.

I soldi c’entrano

La trap ostenta il denaro contante. Non c’è video in cui non appaiano mazzette malloppi e cumuli (accanto a strisce motori e glutei). Qui torna l’America, il mito fondativo da 50 Cent a Puff Diddy – molto in generale il gangsta rap degli anni Novanta, e le sue diramazioni prima e dopo. Lo ammette Baby Gang, ventitré anni e un decennio in comunità o in carcere (minorile prima, poi no): “Noi da ragazzini eravamo poveri, ma ci vestivamo da rapper americani. La nostra generazione è responsabile di aver introdotto i buttafuori nei negozi, perché rubavamo di tutto”.

Certo, avverte Piccinini nell’Outro, può essere “un punto di vista decisa­mente snob” quello di “usare la trap per avere la temperatura di ciò che accade nel mondo”. Ma la questione è proprio questa: la trap è un termometro. Non è né il virus, né la terapia – è solo uno strumento diagnostico davvero efficace per cogliere lo stato dell’arte di desideri e bisogni. Un rilevatore di economia politica.

Il format 

La trap vive in un format. Sul piano produttivo, con le “librerie” di suoni confezionati a scelta libera ma comunque obbligata. Sul piano narrativo, con schemi di storie che ritornano: “fantasy gangsta su borsette, spaccio, crudités, troie e banconote”. Sul piano promozionale, coi suoi autori (quasi sempre maschi) che nella comunicazione interpretano uno spartito quasi identico (sparate, sfoghi e dissing). Sul piano del discorso pubblico: dove il gioco di guardie e ladri della strada viene replicato nell’arena mediatica. Perché la trap – che si dice inclassificabile, non incasellabile, anti-sistema – da anni è integralmente dentro. Mara Maionchi e Sfera Ebbasta vanno a braccetto da quel dì, perché il format della fama è decisamente più grande di loro ed è efficacissimo per lasciare tutto com’è. Almeno in Italia, in enorme ritardo rispetto alla fonte americana, i trapper vengono invitati nelle giurie degli X Factor, ma anche nei peggiori talk show a dire la loro di fronte ad adulti scandalizzati, una riedizione meno comica del mitico dialogo Mussolini (nipote)–Bello Figo. La proiezione della dialettica su uno schermo di schermaglie rende tutto incomprensibile, ma vende (“in tv il conflitto (virtuale) è gratis, blocchi pubblicitari a parte, e fa ottimi ascolti”). È la trappola comunicativa della “maxirissa”: “il format scatena i fantasmi di una spe­cie di lotta di classe proibita dove i maranza vanno a menare i figli di papà. Chi non ha nulla vuole qualcosa, e la prende da chi ce l’ha già. Siamo in un saggio di Piketty sulle disuguaglianze o in un film dell’orrore con zombie in Nike tn che scendono in centro dalle periferie a fare brutto? Purtroppo in nessuno dei due: il paternalismo, il moralismo e la tragica sete di giustizia fanno rissa con la povertà, il disagio e l’ostinata forza di avere una vita e divertirsi a qualunque costo”.

Il lavoro rifiutato

Nell’esergo di Maxirissa c’è un brano del Toni Negri quasi maledetto di Dominio e sabotaggio – parla di passamontagna – oggi, per i trapper, il balaclava. Ma nel turbinio stentato di rime monche, parole biascicate e paronomasie, c’è davvero spazio per un discorso sul dominio sabotato: sabotare la performance passando direttamente all’incasso è una delle provocazioni irricevibili di un genere che gode della propria aura illegale. La trap dice chiaramente che in questo sistema economico ce n’è abbastanza (di sfruttamento, di turni orrendi, di assenza di garanzie e protezioni, di precariato venduto come opportunità) per non voler lavorare, e per fare qualsiasi cosa pur di non lavorare.

E non descrive soltanto desideri ossessivi e sordidi (di fare i soldi, di stordirsi o maltrattare umani, di reificare donne). La trap crea personaggi che hanno sogni ripetitivi. Fa parlare la società delle sue ossessioni e usa sempre la prima persona: e quindi le armi e la mamma, il sesso e la strada come totem, l’estasi psicotropa e il comando, ma anche gli incubi, i tabù (la povertà, il fallimento nella società del merito). Se c’è una parola che nell’ideologia trap non funziona, quella è compromesso. L’aura è data dalla sua assenza: “La necessità vera è quella di crearsi uno storytelling”. E questa narrazione rallentata, ipnotica, sbagliata, si incaglia in punti d’ideologia che accomunano gli estremi apparenti: la destra di sistema e la strada antisistema. Soprattutto se è vero, come è vero perché ce lo spiegano gli autori, che “la biografia di Karima El Mahroug aka Ruby (il titolo è Karima ed è stato pubblicato nel febbraio 2023) sia quella di una trapper: l’infanzia nel paesello in Marocco, le botte del padre violento, l’adolescenza passata a vendere asciugamani in spiaggia in Sicilia (‘fare la vu cumprà’, erano anni che non si leggeva questa espressione) e la fuga da diciotto comunità”. I piani altissimi del berlusconismo – il “Berluscaverso” – si confondono con quelli infimi del rapper di strada. Ma il punto di confusione non è neanche il successo, “farcela”: è la scintilla che c’è tra vendere e comprare. È la merce.

Uso dei sogni, uso di realtà

Alla domanda degli autori, su cosa è rimasto di “ingentrificabile”, lo storytelling trap risponde come ostenta sempre: con la realtà. La trap misura la realtà perché è integralmente merce: ripete lo schema che avvalora qualsiasi cosa che può dare fama (costruire aura, definire icone), ma la merce la difende, la privatizza, la fortifica, risputandola fuori come rima imperfetta, ideologia, intelligenza col nemico che poi qualcuno capitalizza, qualcuno salva, nessuno spreca. È realtà il turbo-capitalismo, questa sorta di versione acceleratissima e insieme statica che sperimentiamo da anni (facciamo le guerre, ma YouTube promette a tutti vacanze a Dubai, vacanze da fermo), è fotografato dalle autonarrazioni trap nella palude delle sue “perversioni emotive”: “Sesso, solitudine, soldi, noia”. Distorto, filtrato, intossichito, il desiderio si addormenta in un luogo imprecisato tra la strada, le sue panchine, e i privé di un locale del centro.

Ma altrove il desiderio corre, scappa – anche quella è realtà parlata dalla trap.

C’è una critica durissima, in questo libro, a Io capitano di Garrone, reo di non aver capito quanto sia forte il “legame tra canzonette pop e viaggio”. La migrazione, il movimento di migrazione è legato anche e soprattutto a qualcosa che riduttivamente chiameremmo desiderio, e che è fatto anche di note e flow, flussi e rime e proiezioni di futuro: “altro che la distinzione pelosissima tra migranti economici e migranti che scappano dalle guerre”. Nella migrazione c’è ancora un uso dei sogni, di quella cosa che Mark Fisher ha sancito come negata: il futuro. Dentro la trap, nella fotografia della stasi, nell’elegia della merce, il moto che la contraddice non è prevedibile, ma è nelle cose che si sognano.

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malpassimo@minima.it

Massimo Palma insegna filosofia politica a Napoli. Studioso del pensiero e della letteratura tedesca e francese del Novecento, ha scritto libri su Walter Benjamin, Eric Weil, Alexandre Kojève, lo studio Foto di gruppo con servo e signore, e il saggio I tuoi occhi come pietre (Castelvecchi, 2017 e 2020) e la biografia intellettuale Max Weber. Una vita politica (Carocci, 2025). In francese, per La Variation, sono usciti Velvet Underground. Le son de l’excès (2023) e Walter Benjamin, Substance (2024). Ha curato opere di Max Weber, Georges Bataille, Georg Heym, Fredric Jameson, Walter Benjamin (da ultimo Il mio Kafka, Castelvecchi, 2024). In ambito extra-accademico, ha pubblicato Berlino Zoo Station (2012), Nico e le maree (2019), Happy Diaz (2021), Olanda, 1945. Anne Frank e i Neutral Milk Hotel (Nottetempo, 2023). Nel 2022 ha vinto il premio Franco Fortini per la poesia con Movimento e stasi (Industria e Letteratura, 2021). Nel 2024 è uscito “La conta” (Edizioni Volatili).

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