«Quando ho varcato la soglia, la casa mi è saltata addosso».
Una casa, una famiglia, una storia. I vivi, i morti e la terra di mezzo dei fantasmi. Il ricordo, il racconto, l’oblio, il sogno, l’incubo. Un tetto è tutto quello che tiene sotto, che non sono gli arredi, non sono solo gli affetti, non sono solo le persone che sotto quelle tegole vivono, ma anche tutte le altre, quelle che non sono più ma che ancora (r)esistono, attraverso le tracce che hanno disseminato, qua una foto, là un tappeto, qua uno strato di polvere che non viene via, là una tovaglia consunta, qua un fazzoletto ingiallito, qua un rubinetto che gocciola, là una credenza piena di tarli. E poi gli altri tarli i più duri ad andarsene, quelli che si installano dentro le persone e rodono dentro, in maniera incessante, per qualcosa che è accaduto, che ha dato dolore, che non riusciamo a dimenticare; o per qualcosa che potrebbe accadere.
Queste immagini, suggestioni, insieme a molte altre, rimangono – come una lunga serie di diapositive montate ad arte – nella memoria di chi legge Il tarlo, romanzo molto bello della scrittrice spagnola Layla Martínez (La nuova frontiera, 2023, traduzione di Gina Maneri). L’autrice a un certo punto scrive che tutte le famiglie hanno i morti sotto il letto, e che però le protagoniste di questo libro le vedono. Martínez, credo abbia scritto pensando – correttamente – che esistono anche altre famiglie che vedono i morti, che stiano sotto il letto o meno, e con questi morti parlano, nel bene o nel male, e a volte li cercano con lo stesso amore di quando erano vivi, altre vorrebbero sfuggirgli perché – come accadeva a loro tempo – mettono paura.
Mia madre non smise mai il lutto e non si risposò più. Solo ogni tanto si permetteva il mezzo lutto: una gonna a fiorellini bianchi su fondo nero, una camicetta di un blu talmente scuro da non riuscire a distinguerlo dal nero.
Qui, in queste pagine molto riuscite, ci sono ombre che affiorano da una parete o da un letto, voci che arrivano non si sa bene da dove, sparizioni che ancora attendono di essere spiegate, angeli in cucina e demoni in ogni angolo. C’è una nonna totalmente rapita da un passato dal quale non è possibile strapparla, memorie che contengono morti, povertà e guerra, con la nonna vive una giovane donna, che coglie e sente il peso di questo passato, e allo stesso tempo sente il richiamo del presente che stenta – tra tarli e ragnatele – a farsi vedere. Da uno di questi passati ha origine (o si collega) un terribile delitto, che segue una catena di lutti, vendette, di inesorabili ingiustizie. La nonna e la donna dialogano tra queste pareti che le attraggono e le respingono, in questa casa che pare respirare, buttando fuori più anidride carbonica che ossigeno, così che alle donne pare talvolta mancare il fiato, e in quel respiro sottratto compare la donna di mezzo, la mamma della ragazza, la figlia della nonna. Succede anche a chi legge.
E allora mi sono addormentata e quando mi sono svegliata avevo un tarlo dentro che non so se ce l’avevano messo le ombre di notte fra i sussurri o se mi era venuto in testa da solo ma non importa perché ho capito comunque che quel tarlo me lo dovevo togliere e che non potevo ancora lasciare il lavoro perché mi restava qualcosa da fare.
In apparenza questo è un romanzo gotico, se non addirittura horror, ma in realtà è qualcosa di più indefinito e complesso. Intanto, oltre a ciò che abbiamo già scritto, questo è un romanzo sulla fiducia, un altro elemento che ben si appoggia alle tematiche familiari. La nipote – la voce che Martínez sceglie per condurci nella storia – arriva a casa dalla nonna dopo aver trascorso una quindicina di giorni in carcere (preventivo) per un delitto, che comunica ai lettori, a una sorta di pubblico, di non aver commesso, ma la fiducia in questa narratrice si fa più blanda quando prende parola la nonna. La vecchia ci raccomanda di fare attenzione, ce lo raccomanda l’autrice e ce lo raccomanda la casa che continua con il suo movimento che attrae e respinge.
In questa dimora di campagna, costruita da un bisnonno, ondeggiano rabbia e rancore sedimentati, ancorati al tempo e al dolore – il tarlo – e raccontano storie di violenza di genere, di lotta di classe, di patriarcato e, soprattutto, di donne incatenate in qualche modo a questa casa, ai suoi interni, al suo tessuto che le riveste, le avvolge ma non le protegge. L’affetto è preda dei fantasmi, le memorie sono agitate dall’incubo, e nonna e nipote – in questo scenario – tentano un equilibrio, ora trovando il coraggio di rimettere a posto un armadio, di ricollocare un mattone caduto, di provare a coricarsi un’altra notte, facendo – come ultima cosa – quello che si fa nelle case: spegnere la luce.
Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagione e Andrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia.
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