Pubblichiamo, ringraziando editore e autore, un estratto dal nuovo romanzo di Stefano Zangrando, I padri si saltano, in libreria per Arkadia.

di Stefano Zangrando

L’idea di un incontro online con Scheinwindl mi venne quasi subito: nell’ultimo mese le videochiamate erano diventate anche per me qualcosa di abituale. Lui reagì di buon grado alla proposta, anzi sembrava che non aspettasse altro.

Se c’era una cosa che emergeva chiaramente nella concitazione un po’ caotica dei suoi primi messaggi, questa era una certa fretta. Era una specie di premura a singhiozzo, che potrei documentare se a un certo punto di questa storia non avessi cancellato tutte le nostre chat, e che si manifestava a scariche: capitava che visualizzasse il messaggio e non rispondesse per un po’, per poi farlo però in forma fluviale. Altre volte rispondeva quasi subito, ma più laconicamente, come sottotono. Ci furono un paio di volte, in quei primi giorni, in cui gli scrissi in un momento in cui era online, lui rispose all’istante e mi attirò in uno scambio frenetico, o almeno superiore ai miei ritmi mentali, una specie di small talk di cui ricordo poco o niente, se non che lo sentivo adoperarsi per tener desta la mia attenzione, come se mi stesse un po’ addosso, ma nel quale venne fuori poco di essenziale per il compito per cui mi aveva cercato. Fu comunque in quella prima fase che, oltre alla faccenda solo accennata dell’autobiografia e a qualche prima informazione sul suo nome d’arte, venni a sapere che viveva in Sardegna da qualche anno, a bordo della sua barca a vela, che d’estate offriva veleggiate charter ai turisti, che quello era il suo unico introito e che il porto in cui ormeggiava era quello di Cagliari.

Non so se fosse abituato a destare stupore per quella scelta di vita, ma dovette almeno fiutare il mio, o meglio quella che – ne sono abbastanza sicuro – dovette giungergli come una mia iniziale cautela, una sottile diffidenza verso tutto quell’esotico in un colpo solo che puntava dritto verso il mio isolamento. Ma insomma, uno che vive in barca, senza un tetto sulla terraferma, e che ti cerca dodici anni dopo il giorno in cui ti sei bevuto qualche birra con lui per affidarti il lavoro non della tua, ma della sua vita: era naturale che ci andassi a passi lenti.

Ci demmo appuntamento per il pomeriggio di un sabato, quando sia io che Erica e Asia eravamo liberi e loro due, pensai, avrebbero approfittato del giardino per passare qualche ora all’aperto. Peccato che quel giorno si rivelò poi grigio e perturbato, per cui ci ritrovammo tutti quanti chiusi in casa.

Ero seduto davanti al MacBook nello studio, avevo chiuso la porta e oscurato la Velux sopra la mia testa per evitare che Scheinwindl mi vedesse in controluce, lasciando che a illuminarmi fosse solo la finestra che si apriva in alto sulla parete alla mia destra. Volli poi prevenire il rischio che la pioggia ci disturbasse, se si fosse messa a picchiare forte sul tetto, ricorrendo agli auricolari dello smartphone. Infilai il cavetto nel computer, aprii Google Meet e cliccai il link per la connessione che avevo preparato e mandato anche all’indirizzo e-mail che Scheinwindl mi aveva fornito su Facebook.

Non feci in tempo ad aprire la stanza virtuale che il campanellino annunciò l’ospite in attesa, come fosse stato lì ad aspettarmi. Sulle prime non udii nulla, vidi solo il busto e la testa di Scheinwindl ripresi dal basso, un busto largo in felpa bianca con dei peli che sbucavano dal colletto, tra le clavicole, poco sotto un pizzetto da capra, biondastro e lanoso come i capelli che scendevano lunghi fin sopra le orecchie per poi da lì curvare verso un nodo che immaginai sulla nuca, a parte qualche ciocca che gli pendeva libera ai lati del viso. In quel suo taglio d’occhi vagamente orientale, le pupille chiare erano poco visibili, da quella prospettiva spiccava più che altro il naso un po’ camuso, e il fatto che avesse stampato in faccia un mezzo sorriso di circostanza rendeva il suo sguardo ancora più stretto e incomprensibile. Il suo viso, per di più, era abbagliato a tratti da una fonte di luce fuori campo, una finestrella o qualcosa del genere che immaginai sopra la sua testa, da qualche parte in quello sfondo color legno, e tutta l’immagine era mossa da scossoni ripetuti, evidentemente stava ancora sistemando il tablet – o magari era il mare, quanto traballa una barca ormeggiata in un porto? Sentii una specie di cloc, poi un altro, dei fruscii, poi la voce graffiata di Scheinwindl: «Hoi. Mi senti?»

«Più o meno», risposi, «e tu?»

«Forte e chiaro», disse lui, mentre la sua inquadratura continuava ad agitarsi.

Gli dissi qualcosa di insulso come «Eccoci», mi risistemai sulla sedia e regolai lo schermo controllando la mia immagine nel riquadro più piccolo. «Allora?», dissi poi, senza sapere cosa aggiungere.

«Eh», fece lui, sempre con quel mezzo sorriso di circostanza, poi per un paio di secondi lo schermo fu coperto da una sua mano sfocata, l’immagine si mosse ancora un po’, infine si stabilizzò. «Mi vedi?», chiese.

«Adesso sì», risposi.

«Eh», rifece lui, «sto scomparendo, dioc…»

«Scusa?» Sistemai l’auricolare destro che mi traballava sulla cartilagine, ma avevo sentito bene.

«Non sto scherzando, sto scomparendo!», ripeté.

Rimasi un momento in silenzio, dovette cogliere la mia perplessità.

«Non è Covid», disse, «la grande storia mondiale non mi ha ancora riconquistato.»

Aveva una pronuncia italiana perfetta, non si sentiva il tedesco.

«È già qualcosa, di questi tempi», commentai.

«Tempi polizieschi», ribatté, «comunque vada, ne usciremo fregati.»

«Oddio, speriamo di no», dissi, e sperai pure che la cosa cadesse lì. «Lì al mare non dev’essere poi così brutto, l’aria sarà splendida. Con un virus del genere in circolazione, tutta salute.»

«È bello, sì», accondiscese. «Sai cos’è un soggetto atopico?»

«Non proprio», riposi. «Un senza terra?»

Scheinwindl sollevò brevemente le spalle. «Mah… Anche quello», disse guardando da qualche parte sopra il tablet che lo riprendeva, poi riabbassò gli occhi verso di me. «Hai ragione, non ci avevo mai pensato», e rise brevemente. «Chissà, magari sto scomparendo proprio per questo!»

E poi spiegò che no, a parte quello, atopico non significa senza terra, ma uno che soffre di problemi autoimmuni. E che lui, a parte le allergie stagionali e le dermatiti che lo avevano tormentato per anni, ma di cui non soffriva più da quando viveva sul mare, di problema autoimmune da qualche tempo ne aveva uno «bello grosso», e che era per quello che mi aveva contattato. Disse che si stava «auto-dissolvendo», che le sue cellule avevano incominciato a rivoltarsi contro di lui, o forse contro se stesse, non ricordo bene, che insomma quel problema stava iniziando a «dissolverlo».

Dovetti sgranare gli occhi, ma lui non parve dubitare della verità di quel che diceva.

«Dovresti vedere il ginocchio», disse, «è partito tutto da lì, dal ginocchio. Ovviamente, del resto: da sempre in me c’è qualcosa che non vuole piegarsi. Non dovrei nemmeno stupirmi.»

Fui lì lì per chiedergli quale ginocchio, il sinistro o il destro, ma titubai. Insomma, si capisce.

«Mi restano…», per un attimo parve fare un calcolo a mente, «… ancora tre mesi», disse poi guardando di nuovo altrove, e si sistemò intorno al collo il cappuccio della felpa, che però a me non era apparso affatto in disordine. «Tre mesi per dissolvermi del tutto, dopodiché di me rimarrà soltanto la voce nell’aria.» E tornò a guardarmi.

«La voce nell’aria?»

«Eja», fece lui. «Voce, vibrazione, suono. Soltanto suono», aggiunse, alzò le braccia e le mosse come mimando qualcosa di volatile.

Mi sorpresi a sperare che in quel momento Erica e Asia stessero facendo qualcosa insieme, dei compiti o un dolce, e che a mia figlia non giungessero le parole che stavo ascoltando.

«Tu pensi che sono pazzo», disse Scheinwindl.

«Assolutamente no», ribattei d’impulso, «non mi permetterei mai. È solo che… Non sapevo esistessero problemi del genere. È una specie di cancro?»

Scosse piano la testa. «Il cancro, neanche fosse… Ma il cancro è perversione e punto. Io invece… Aspetta, ti faccio vedere.»

Lo vidi alzarsi, dovette sbattere la gamba sul tavolo al quale era seduto e il tablet si ribaltò. Per qualche istante vidi qualcosa di indistinguibile, un po’ chiaro e un po’ scuro, forse il bordo di un boccaporto con gli angoli arrotondati, poi l’immagine si mosse di nuovo, ricomparve una mano sfocata e il tablet tornò in piedi, con la videocamera puntata a mezza altezza. Scheinwindl si era messo seduto sul bordo di uno schienale morbido, di una poltrona o di una panca, e aveva sollevato una gamba dei pantaloni larghi e chiari, che mi parvero di lino, fino a scoprire il ginocchio destro, al di sotto del quale la pelle era ricoperta di peli marroncini e ricci.

«Ecco», disse, «vedi? È diafano.»

Non sapevo cosa rispondere. Tutt’a un tratto la pioggia che batteva sul tetto si fece più forte. Dall’angolo in basso a destra dello schermo spuntava adesso il manico di una chitarra. «Da qui non si vede granché…», dissi.

Scheinwindl colpì il ginocchio con il palmo, due volte. «Sentito il rumore?», disse. «Me ne andrò…» E poi si mise a scendere da lì per rimettersi seduto.

Non era facile trovare il tono giusto. «Qui piove forte, ti sento poco», mi venne da dire e feci un gesto di scuse con le mani, poi rimasi in silenzio finché non si fu riaccomodato.

«Tre mesi», disse quando lo riebbi davanti. «Abbiamo tre mesi di tempo, mi spiego? Poi flush», e spalancò una mano in aria, «solo la voce, chissà dove.»

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