
Il racconto di possessioni demoniache ed esorcismi ha trovato spazio in molte opere: si può pensare al celebre libro di Aldous Huxley I diavoli di Loudun, dove lo scrittore britannico prende ispirazione da uno dei più celebri casi di possessione della storia, quello avvenuto nel piccolo paese di Loudun, in Francia, all’inizio del Seicento. Un caso famoso e strano, portato tra l’altro al cinema mantenendone il carattere perturbante da Ken Russell in I diavoli e trasposto in musica da Krzystof Penderecki, dove a partire da una relazione tra la madre superiora Jeanne des Anges e il curato Urbain Grandier, uno stato di isteria contagerà tutte le suore del convento: una storia da cui non è possibile espungere lo spirito riformatorio del cardinale Richelieu, che aiuta il lettore a capire come in queste vicende lo spirito politico non sia mai del tutto assente. È interessante confrontare il romanzo di Huxley con lo studio di Michel De Certeau su questo caso: nel suo La possessione di Loudun il gesuita francese indagherà attraverso lo sguardo puntuale dello storico questa vicenda, non lesinando particolari feroci e inquietanti, ma interrogandosi sul luogo più difficile, e forse ineludibile, della possessione di Loudun, il suo statuto di verità, materia complessa solo pensando ai secoli trascorsi e alle informazioni che, inevitabilmente, sono andate smarrite.
Cito questi due testi perché nel libro di Fernanda Alfieri, Veronica e il diavolo. Storia di un esorcismo a Roma, da poco pubblicato da Einaudi, il possibile itinerario romanzesco e la rigorosa analisi storica si trovano continuamente a sovrapporsi, anche in questo caso raccontando, come suggerisce il titolo, una storia di possessione demoniaca ed esorcismo, in un testo che ripropone questioni simili a quelle sollevate dal caso di Loudun, in particolare per quello che riguardo le modalità attraverso cui lo sguardo storico può affrontare queste storie. Il libro di Alfieri si concentra sul caso di Veronica Hamerani, una giovane donna romana, parte di una famiglia di stampatori di monete, che nel dicembre del 1834 vede cominciare nella sua camera, e nella sua vita, un viavai di gesuiti e religiosi decisi a estirpare il diavolo dal suo corpo.
L’interesse di Alfieri nasce dal ritrovamento a Roma, durante una ricerca su un gesuita che alla fine del Cinquecento si era cimentato in un trattato sul matrimonio, del diario di questo esorcismo, specchio delle affascinanti e imprevedibili vie della ricerca che in questo caso portano Alfieri a ritrovare dei documenti nel momento in cui cerca altro. Così Alfieri si trova tra le mani Esorcisazione di Maria Antonina Haremani, ritenuta ossessa (1834-1835), più tardi una mano ha sostituito a “Maria Antonina” il nome di “Veronica”, e conosce altri due protagonisti della storia, i gesuiti Padre Kohlmann e Fratel Pietro Bechmans che il 23 dicembre del 1834 si recarono per la prima volta nella stanza della donna a Roma tra Campo dei Fiori e il ghetto, donna che non ha un nome nelle prime pagine e viene chiamata solo «ossessa», «giovane» o «inferma». Il diavolo fa subito la sua comparsa nella storia, prima ancora del nome di Veronica, quando, dopo il primo colloquio e immediatamente dopo la prima benedizione, il corpo della ragazza comincia a ribellarsi: «a queste parole l’ossessa cominciò ad urlare, alzò le gambe in alto, allargò le braccia, di modo che colla sola testa, e tre o quattro dita di spalle, stava sul letto». Il corpo di Veronica diventa testimonianza dello spirito dei tempi, trasformandosi pian piano nel terreno di scontro tra la cristianità e la sua negazione e le fatiche e violenze che questo dovrà subire sono la spesa da pagare per una battaglia che va oltre una singola e fragile esistenza individuale.
Il libro scorre alternando stralci dal diario dei due gesuiti, il contesto storico e politico e le riflessioni, analisi e congetture di Alfieri, costruendo un affascinante itinerario letterario dove sembra che le due parti si completino a vicenda nella ricostruzione di una storia rimasta per secoli imprigionata nel documento custodito nell’archivio. Gli stessi personaggi maschili della storia, non solo François-Antoine Kohlmann, ma anche gli altri gesuiti Francesco Manera e Tommaso Massa, assumono davvero le fattezze di personaggi da romanzo, vissuti in tempi complessi come quelli che seguirono la Rivoluzione Francese e il regno di Napoleone, e così anche le loro storie invitano a interrogarsi sullo statuto di questo libro che potrebbe sembrare oscillare continuamente tra il saggio storico e il romanzo.
Ma se quest’ultimo aspetto è dettato soprattutto da quanto questa storia sia affascinante e dalla lingua utilizzata da Alfieri, di cui è eccellente saggio già il primo capitolo introduttivo dove l’autrice ricostruisce il ritrovamento del diario a Roma, l’interrogativo tende a presentarsi solo se si ignorano le coordinate teoriche che Alfieri delinea all’inizio del libro dove scrive di come sia stata tentata dalla forma romanzesca, ma anche di quali possano essere le strade più legittime per raccontare una storia così affascinante e violenta. Per questo siamo lontani dalla spettacolarizzazione di Huxley e forse più vicini al testo su Loudun di De Certeau e ancor di più tornano alla mente le parole che Roland Barthes dedicò al mirabile studio di Jules Michelet La strega, dove lo storico francese ricostruì la nascita dell’idea della Strega: Barthes, interrogandosi proprio sullo statuto del libro di Michelet ed elogiandone il valore, scrive che il suo racconto si situa nell’ambiguità: «è un libro di storia? Sì, visto che il suo movimento è diacronico, segue il filo del tempo. No, perché è un filo romanzesco, e si riferisce a una figura, non a una istituzione». Sembra che Alfieri accetti questa ambiguità intrinseca che vive nello stesso tempo sullo studio attento e rigoroso delle fonti e del tempo storico, ma anche sulla fascinazione per la vicenda, incrementata anche dal desiderio di riempire i vuoti di questa storia, scrivere i bianchi dell’esorcismo, i pensieri dei protagonisti nella loro quotidianità.
Negli appunti di Alfieri che si ritrovano nel libro c’è un passaggio particolarmente interessante: «ho dovuto prendere atto che quella vita, quelle gambe che andavano, quelle bocche che parlavano e quegli occhi che guardavano, ora sono parole su carta, e che fra la vita di ieri e la carta di oggi si sono levate molti pareti divisorie». Alfieri non può conoscere tutto questo, l’interezza di queste vite, e allora l’intelligenza porta a preferire alla libertà del romanziere, l’arte della congettura, una via intermedia che non è una via di fuga davanti all’impossibile, ma una precisa e rispettosa scelta di campo che, tra l’altro, si situa perfettamente nell’alveo delle scritture contemporanee più interessanti capaci di ibridare i campi della letteratura.
È indubbio che, come testimoniano per esempio anche gli studi di Carlo Ginzburg dedicati ad avvenimenti simili accaduti precedentemente, la riscoperta di storie come quelle di Veronica Hamerani contribuiscono a far emergere dall’oblio vicende complesse e affascinanti che si situano al crocevia tra la religione, la politica e le false credenze, ponendo in questo caso anche domande inaggirabili sul corpo femminile. Si capisce bene come si tratti di elementi che conservano ancora un loro ruolo decisivo nella società contemporanea, aspetto che apre a un’altra chiave di lettura di questo libro che testimonia l’importanza di conoscere storie come questa, in grado di aprire campi di conoscenza altrimenti colpevolmente poco frequentati.
Matteo Moca è dottore di ricerca in italianistica e insegnante. Scrive, tra gli altri, per Il Tascabile, Il Foglio, Domani, L’indice dei libri del mese, Blow Up e il blog di Kobo. Ha pubblicato le monografie “Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett”, “Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi” e “Un’esigenza di realtà. Anna Maria Ortese e la dipendenza dal fantastico”
Il libro, del quale ho sentito parlare perciò cerco recensioni in rete, è interessante e questo articolo pure. Devo tuttavia aggiungere che è un articolo scritto piuttosto male: nella sua struttura e nella modalità spesso non traspare chiarezza. Mi sono ritrovato a dover rileggere frasi e passaggi per comprenderli bene e -ecco perché ora commento- mi stupisce che l’abbia scritto un docente italianista, abituato a intervenire su varie testate. Il Barocco, in letteratura e non solo, se adoperato va fatto a mestiere sennò diventa Accrocco. Consiglio sempre di rileggere prima di pubblicare. Claudio