
di Leonardo Rafanelli
Portola Drive è una piccola strada alberata della città di San Mateo. Un gruppetto di case che non sembra volersi distinguere troppo dall’interminabile distesa urbana che avvinghia la baia di San Francisco. Il sole della California, nelle giornate buone, qui va a incorniciare un quadretto che farebbe la felicità di qualsiasi regista hollywoodiano degli anni ’80: giardini circondati da staccionate in legno, pickup parcheggiati di fronte ai garage, canestri su supporti di plastica e qualche bandiera a stelle e strisce, come a voler ricordare che da queste parti Dio deve vedersela con altre due religioni: il patriottismo e lo sport.
Tom Brady, che ha vinto il suo settimo Super Bowl domenica scorsa dimostrando ancora una volta di essere uno dei più grandi campioni di tutti i tempi, ha lanciato le sue prime palle proprio in questo quartiere. Prima di diventare una leggenda, prima di entrare nella storia trasformandosi in TB12. Quando era ancora un bambino che veniva escluso dalle partite dei ragazzi più grandi, e quando era noto al massimo come Thomas Edward Patrick Brady Jr. – uno di quei nomi in cui i genitori americani sembrano voler racchiudere il destino dei propri figli.
Siamo lontani da quel “cuore petrolifero del Texas avvilito dalla depressione” raccontato magistralmente da H.G. Bissinger in Friday Night Lights (uscito l’anno scorso per i tipi di 66thand2nd nell’ottima traduzione di Leonardo Taiuti) e questo caseggiato borghese sembra tutto un altro mondo rispetto a quella Odessa in cui una squadra liceale richiamava regolarmente ventimila spettatori, rimettendo insieme i pezzi di speranze frantumate dalla vita di tutti i giorni.
Eppure, anche qui si gioca a football, e lo si venera. Anche qui i ragazzini lanciano quella palla ovale, dopo aver scavalcato la catena di un cortile sognando un giorno di poter muovere un’altra catena, quella che nei match dei professionisti segna l’avanzamento verso il touchdown.
A Portola Drive, ormai, tutti parlano di Tom Brady, e giurano di ricordarselo da ragazzino. Se lo ricordano i suoi compagni della Junípero Serra High School, dove l’esordiente Thomas faceva la riserva della riserva della riserva, e non era considerato abbastanza bravo nemmeno per giocare in una squadra che perdeva 8 partite su 8 in una stagione. Se lo ricordano gli osservatori dei college a cui Brady, snobbato, inviava imperterrito i VHS delle sue partite per far capire che sì, poteva giocare a football. E se lo ricordano sicuramente tutte le squadre che nel draft del 2001 gli preferirono altri giocatori, lasciandolo ai New England Patriots come 199ª scelta.
Brady, insomma, non era un predestinato, e di occasioni per lasciar perdere il football ne ha avute parecchie. Ma se ci si basa sui canoni dell’epica americana più classica, non poteva che finire così: con Thomas che diventa Tom, e che nonostante i suoi 43 anni vince talmente tanto da superare non solo tutti gli altri giocatori, ma anche le squadre più vincenti della National Football League.
Storie come queste vogliono palcoscenici adatti, e pochi lo sono più del Super Bowl, ovvero la celebrazione più solenne tra i riti del culto sportivo made in USA. Una partita che vale una stagione, un sogno che a volte rimane tale persino per i campioni. E quello di domenica scorsa, già in partenza, non era un Super Bowl come tutti gli altri: era quello del COVID-19, quello con il pubblico limitato a 25.000 persone tra cui 7.500 operatori sanitari vaccinati. Era quello chiamato a rappresentare la pacificazione dopo le lacerazioni del razzismo, nel segno del nuovo presidente Joe Biden e con tanto di apparizione della poetessa Amanda Gorman, ormai icona di quella che si presenta come una specie di nuova era.
Era anche il Super Bowl in cui Tom Brady, dopo aver vinto 6 campionati con i New England Patriots, si metteva in discussione ricominciando da capo con una nuova squadra, i Tampa Bay Buccaneers, perdenti da 18 anni. Ed era persino, come lo hanno descritto i media statunitensi, uno scontro generazionale, perché dall’altro lato della linea di scrimmage c’era il venticinquenne Patrick Mahomes, quarterback dei campioni uscenti Kansas City Chiefs: lui sì, un predestinato, texano come la Odessa di Bissinger, e già considerato non solo un campione, ma anche il principale candidato a raccogliere l’eredità di Brady.
Si può parlare di un crocevia: per un gruppo di sportivi così come per un paese. Una versione amplificata di quello spirito che vuole la finale del campionato di football come qualcosa che va oltre la partita, e che tra spot milionari, celebrazioni e placcaggi rappresenta un momento in cui tutta la nazione esce da sé stessa per guardarsi un attimo dagli spalti di uno stadio.
L’esito è da giorni sui quotidiani di tutto il mondo: i Buccaneers di Brady hanno sconfitto i Chiefs per 31 a 9, non lasciando loro nemmeno la soddisfazione di segnare un touchdown. Un risultato che ha frantumato ogni pronostico, come del resto era accaduto per tutta una stagione in cui nessuno credeva che un giocatore ormai vecchio, con una squadra nuova e deboluccia, potesse davvero fare qualcosa di concreto, al primo tentativo.
Brady è un system quarterback, si diceva, cioè uno che vince perché è inserito in una squadra vincente. Dopo la partita di domenica si inizia invece a dire che la squadra forte l’ha creata lui, dal niente, richiamando in campo persino il suo vecchio amico e compagno di squadra di sempre: quel Rob Gronkowski che si era ritirato da un anno per darsi al wrestling, ma che alla telefonata di Tom non ha saputo dire no.
Patrick Mahomes ha provato a resistere, ma tra le ombre di un infortunio al piede e una squadra non al suo meglio, nulla ha potuto contro quello che con ogni probabilità era uno dei suoi idoli da bambino.
Perché quando Brady vinceva il suo primo Super Bowl, nel 2001, il quarterback dei Chiefs aveva 6 anni, e magari era lì a lanciare palloni sognando di diventare come lui. Difficilmente poteva immaginare di ritrovarselo contro, finendo persino sconfitto.
Del resto, Tom Brady è alla soglia dei 44 anni, e ha già chiarito che di ritirarsi non ne vuole sapere. Anzi, annuncia che si allenerà di più, per aumentare la sua mobilità in campo. Come dire agli avversari: “Tremate, perché non è finita qui”.
Ora, mentre c’è chi scommette che sull’onda di Brady anche i campioni di altri sport cercheranno di prolungare le loro carriere, sulle testate giornalistiche è scattata la corsa alla pubblicazione del suo segreto, la ricetta che gli permette di sconfessare l’età e vincere in uno sport che si basa su contrasti violenti, e dove di conseguenza le carriere lunghe non sono all’ordine del giorno. Si parla di un pigiama speciale per recuperare energie, di una dieta maniacale da cui sono banditi peperoni e funghi. Ma non basta: si intravede qualcos’altro, dietro lo sguardo che Brady ha sfoggiato a metà partita, e che, a detta di chi lo ha conosciuto, è lo stesso di quando da ragazzino continuava a chiedere di giocare mentre tutti lo relegavano alla panchina.
Si tratta di qualcosa che ha a che fare con quello spirito con cui si vivono tante cose in America, compreso uno sport che a seconda dei momenti può essere ossessione, religione, e anche cultura. Una cultura che, nel bene e nel male, arriva a volte a sostituire quella scolastica, e quando non lo fa, in qualche modo la integra.
Non è un caso che Joe Biden, in un’intervista a margine del Super Bowl, abbia dichiarato che il suo sogno da bambino non era fare il presidente, ma giocare nella NFL. Non è una frase di circostanza: sembra che quello che i detrattori chiamano “Sleepy Joe” fosse invece parecchio sveglio come wide receiver ai tempi del liceo. Tra le sue imprese c’è quella che lo vide guidare la squadra della Archmere Academy fin quasi a rimontare uno svantaggio di 30 punti, innescando uno spirito di riscossa che avrebbe fatto comodo ai Chiefs domenica scorsa. E anche se adesso, al posto del numero 30 sulla casacca ha quel 46 che scandisce la sua presidenza, gli è rimasta ancora una partita da giocare su quel campo che tanto ama: Biden sarà infatti chiamato a ricucire laddove il suo predecessore Trump aveva provocato strappi nel rapporto col mondo dello sport.
È un po’ come se al crocevia del Super Bowl di domenica fossero arrivati da strade diverse tre ragazzini: il giovane Thomas Brady che voleva giocare a football, il giovane Patrick Mahomes che sognava di ripercorrerne le gesta, e il giovane Joe Biden che voleva fare il ricevitore nella NFL. Con abiti diversi, certo, ma in fondo sempre loro. Perché c’è qualcosa, nell’America, che noi europei non riusciamo proprio a capire: qualcosa di nascosto dietro un cunicolo angusto, in cui non riusciamo a entrare. Forse l’unica cosa piccola in un paese in cui tutto è esageratamente grande, persino i bicchieri e i cucchiaini da caffè.
È la stesso fantasma – a volte poetico, a volte spaventoso – che spinge i Boobie Miles, i Jerrod McDougal e i Mike Winchell raccontati da Bissinger in Friday Night Lights: giovani che sacrificano la loro istruzione, e in un certo senso anche il loro futuro, consapevoli che l’apice della loro vita sarà lì, al liceo, su quel campo da football. Con una città intorno che li spinge a fare questo, mentre nasconde sotto i colori di una squadra le cicatrici lasciate dalla fine del boom petrolifero. E poco importano le perplessità degli insegnanti di Odessa, o lo sguardo di sufficienza del resto del mondo. Tra gli ingranaggi che muovono l’America, coi suoi successi e i suoi fallimenti, ci sono sempre sogni di bambini che resistono al passaggio nell’età adulta. E sono a volte ingenui, a volte perversi e altre volte grandiosi. Come solo i sogni dei bambini sanno essere.
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