logofactoryVenerdì 2 ottobre è uscito sul Manifesto questo articolo di Giorgio Vasta come introduzione alla writer’s factory – Oronzo Macondo organizzata da Agnese Manni nel cuore del Salento. Una singolare tre giorni con autori e critici impegnati in tavole rotonde, dibattiti e workshop sulla letteratura contemporanea e soprattutto sul suo rapporto con il web. Qui sotto vi lasciamo anche il link del sito Oronzo Macondo, dove potrete curiosare tra le foto e i video dell’evento e leggere gli interventi dei vari protagonisti.

Per quale ragione se dalla tastiera del mio computer salta via una lettera io di colpo mi sento sdentato? E perché se la barra spaziatrice smette di funzionare costringendomi a scrivere le parole senza spazi, dando così luogo a un lungo grottesco nastrino alfabetico, ho la sensazione fisica che la mia lingua diventi un blocchetto di gesso inarticolabile? E ancora, come si spiega che se per qualche motivo la connessione a internet non è attiva io non solo non mi limito a constatare il guasto con un sentimento neutro ma subito mi convinco di stare subendo un terribile ingiustizia, la preclusione di un diritto logico, una ghettizzazione che mi esclude da qualcosa che magari non saprei perfettamente definire ma che ha comunque un’importanza capitale? Detto in altri termini: com’è possibile che nel giro di poco più di dieci quindici anni il supporto tecnologico che usiamo per scrivere – con tutte le sue diramazioni e le sue spire molteplici che lo immergono nel fitto della rete – sia entrato così profondamente dentro di noi, nella nostra storia personale, e che questo sia avvenuto mobilitando quote di affettività concreta – di umanità – che solo dieci anni fa ci sarebbero sembrate inimmaginabili e in ogni caso parecchio discutibili?


factoryQuello che vale subito rilevare è che l’affettività – così come il linguaggio – si comporta con la medesima pervasiva arbitrarietà dell’aria o dell’acqua, nel senso che tende fisiologicamente a penetrare in tutti gli spazi disponibili. Ama irradiarsi, dilagare. E questo suo regime d’esistenza non è regolato da una prospettiva morale forte, da leggi sicure che canalizzino l’affettività nelle giuste direzioni, verso obiettivi «alti» e funzionali, evitando dispersioni e soprattutto approdi infecondi. L’affettività ama il rischio, il salto nel buio è il suo sport preferito. Inoltre è del tutto indifferente all’eventuale presunta sterilità del luogo che raggiunge perché è essa stessa a condurre in sé una capacità fecondatrice che non ammette arginamenti. Nel senso che modifica affettivamente tutto ciò con cui entra in contatto. Sollecitata da uno stimolo potente come un computer e il web, la nostra vita emotiva immediatamente prende atto dell’esistenza dello stimolo perforandolo con il suo indistruttibile pungiglione e circondandolo con la sua pellicola sentimentale. A una causa – potremmo dire consentendoci un piccolo gioco di parole – corrisponde un affetto. È dunque naturale che la nostra affettività abbia fecondato, tra le altre cose, anche tutto quanto pertiene a quell’insieme di oggetti e comportamenti che hanno a che fare con la cosiddetta tecnologia. vasta_factoryE dico «cosiddetta» per provare a ridurre il più possibile quella specie di distanza obbligatoria che sembra ancora dover resistere, in ampie zone del dibattito pubblico, tra ognuno di noi e i suoi trespoli tecnologici, distanza che in realtà mi sembra fortemente ridimensionata se non del tutto inesistente dal momento che la nostra affettività, sempre lei, serenamente indifferente alle distinzioni tra reale e virtuale (categorie che ha rapidamente trasformato in modernariato concettuale, in persistenze un po’ manieristiche e forse scarsamente utili alla comprensione del fenomeno), ha la capacità di concretizzare ogni cosa rendendo tutto limitrofo e normale e chiarendoci che ognuno di noi funziona come un magnete che tramite una forza centripeta attrae a sé il mondo ritraducendolo in forme idiosincraticamente significative. Del resto, se Raymond Carver ha potuto comporre una propria biografia «di sponda» solo descrivendo, una frase dopo l’altra, le avventure ordinarie di una tecnologia «personale» come l’automobile, le macchine che nel corso del tempo ha posseduto e consumato («La macchina che ho preso a martellate. La macchina con le rate che non potevo pagare. La macchina che mi hanno sequestrato», da My Car, l’edizione italiana è del 1986), allo stesso modo il nostro computer – e dunque il nostro essere connessi, in grado di ricevere e di trasmettere – è parte integrante della nostra vicenda biografica, una frazione fondamentale del racconto che anche senza esserne consapevoli facciamo ininterrottamente di noi stessi. mozzifactoryE lo è di certo in misura del patrimonio di lavoro che contiene inabissato nei suoi microcircuiti, la quantità e la qualità di parole (non soltanto di parole ma in buonissima parte di parole) delle quali ci siamo presi cura nel corso del tempo, ma anche in misura della sua esistenza puramente fisica – quella «vita tranquilla delle cose» già riconosciuta con tenerezza e struggimento da Georges Perec in La vita istruzioni per l’uso – e di tutti gli eventi che lo hanno riguardato e ne hanno modificato il corpo e la storia.
Il fatto stesso di non essere, stando alle definizioni correnti, un nativo bensì un immigrato digitale – dunque qualcuno in continua escursione da una a un’altra condizione, impegnato in un andirivieni talmente fisiologico da dare luogo a una vera e propria natura anfibia – contribuisce ad accentuare la percezione di connaturato mescolamento all’interno del quale viviamo inscritti, un meticciato che vede proprio nella nostra umana incoercibile pulsione a leggere tutto affettivamente quel tessuto connettivo che rende teoriche e oziose certe ripartizioni.
Una conseguenza non indifferente di tutto ciò è lo smorzamento di una nozione prepotentissima come quella di identità. Perché davanti al troppo pieno della rete – un troppo pieno che contiene al suo interno uno spalancamento vuoto – viene messa in crisi, se non estinta, sia la nozione di identità sia quella, ancora più precaria ed esangue, di patria, o per lo meno di quell’idea di patria definita da limiti territoriali. Riconoscersi, nel bianco artico del web, come meticci, immersi in un umano che attraverso il desiderio e la paura riforma se stesso senza sosta, diventa dunque, adesso, un’occasione straordinaria per sperimentare in che modo, tra i nodi e i legami della rete, siamo tutti strutturalmente apolidi. E che l’unica patria tollerabile è l’umano.

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4 commenti

  1. ciò che dice gv è al tempo stesso vero e pura letteratura: è bello perché non si perita di avere troppo ragione, butta il cuore oltre l’ostacolo e illumina un pezzo di terra nuovo.

  2. La sterilità del luogo di approdo dell’affettivià, la stessa virtualità dell’humus, del terreno di coltura… sono il vero tema!

  3. Bellissima e precisa la definizione di “immigrato digitale”. Grazie.
    Attendo una “writer’s factory” a Bari.
    Cordialmente,
    Eva

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Autore

giorgio@zerounoscritture.it

Giorgio Vasta (Palermo, 1970) ha pubblicato il romanzo Il tempo materiale (minimum fax 2008, Premio Città di Viagrande 2010, Prix Ulysse du Premier Roman 2011, pubblicato in Francia, Germania, Austria, Svizzera, Olanda, Spagna, Ungheria, Repubblica Ceca, Stati Uniti, Inghilterra e Grecia, selezionato al Premio Strega 2009, finalista al Premio Dessì, al Premio Berto e al Premio Dedalus), Spaesamento (Laterza 2010, finalista Premio Bergamo, pubblicato in Francia), Presente (Einaudi 2012, con Andrea Bajani, Michela Murgia, Paolo Nori). Con Emma Dante, e con la collaborazione di Licia Eminenti, ha scritto la sceneggiatura del film Via Castellana Bandiera (2013), in concorso alla 70° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Collabora con la Repubblica, Il Venerdì, il Sole 24 ore e il manifesto, e scrive sul blog letterario minima&moralia. Nel 2010 ha vinto il premio Lo Straniero e il premio Dal testo allo schermo del Salina Doc Festival, nel 2014 è stato Italian Affiliated Fellow in Letteratura presso l’American Academy in Rome. Il suo ultimo libro è Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani (Humboldt/Quodlibet 2016).

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