In

di Christian Raimo

1.

Gli indifesi non si difendono, impara.
Per esempio, il freddo di questo gennaio,
in questo posto lontano da casa,
in questi paesi dove per qualche ora
tutti mi amano (mi danno del cibo e del vino,
mi chiedono il perché di chi sono)
– in questi giorni di luce ridicola
in cui più di ogni altri
ce l’avrei di una casa il bisogno,
con ritratti di famiglia e promesse
ripetute alla nausea – questo inverno plurale,
circolare, straniero, io l’ho accolto
come un principio fraterno,
l’ho lasciato depositare per bene
sulla pelle, e poi sulle dita, negli incavi
di mani e di piedi, gli ho lasciato intaccare gli strati profondi
fino alla cortina dell’ossa, l’ho fatto fermare lì dove voleva,
dove c’era più spazio.
Io accetto tutto.
Lo vedi questo spacco sanguinante sul labbro:
ecco, ci siamo capiti.

2.

I campi oltre la collina le culle
dei paesi, le curve
immobili
del telo spaziotemporale,
caselle vuote e ombrate,
un cruciverba diluito,
presenze gocciolanti
in cui le case formano un reticolo
che cinge la città:
un abbraccio velleitario:
un bambino
di quattro anni con suo padre.

3. La preparazione del cotone

Usa il linguaggio farfallino, bimba,
trasforma fibre in fili, fili in fiocchi,
oppure intreccia la trama coi fili del tessuto,
davanare, su, quernere, giuntare.

Dalle fibre tormentate capaci di sfrangersi,
di finezza uniforme, oppure da quelle di flessibilità
­variabile, ma ben sgranate,
con filamenti logori e un fracco di foglie,
si può scegliere per procedere alla mischia
e conseguire, dopo più miscele, falde
che si facciano uniformi, metà Salonicco, metà
garza americano.

Poi, per mezzo di un “flacello”,
come un’arte infantilita,
passare a schiudere i bioccoli
sputando i corpi duri di cui il cotone si è frammisto
durante l’imballaggio ed il trasporto.

4. La colorazione tramite gualdo

Le piante fatte macerare nell’acqua resa alcalina
da una certa quantità di calce:

per ottenere grumi, piccoli dischi, palle,
e darle a vendere col nome di “pastello”.

I tintori lo usano nei tini,
e con due remi pressano i tessuti

finché l’azzurro non infetta
ogni scavo delle fibre.

È per due secoli così
fino a quando nelle Antille
qualcuno scopre delle foglie
con potere colorante più efficace.

Non è lo stesso che fai tu, la notte alle due mezza,
che prendi a caso le lenzuola nell’armadio
e le ficchi col colore in lavatrice
come un atto di creazione a buon mercato?

4. 1708

Come custodi di labirinti interni, i bachi
trattengono i filamenti di 700, 800 metri.
I gelsi si diffondono conquistando i campi
come tramonti accelerati:
effetti di colorazione in photoshop: contagi.

La seta è cruda, poi sgommata, e deprivata
della sua bavosità. Riammassata, arriva
in un anno a misurare
più di 10000 libbre.

5. L’università del fustagno

La produzione del fustagno inquadra
due diversi gruppi di persone:
lavoratori proletari, che filano il cotone
nei telai di legno dentro le loro case; magistri,
possessori di soldi da investire, infrastrutture, capitali
e mezzi: che acquistano il cotone ancora grezzo
per smerciarlo agli artigiani.
Anche in questo caso_ il mondo riunito si divide
da una parte una e dall’altra l’altra:
i privi e i proprietari:
e nessuna è quella giusta, mai.

6. Il recupero delle fabbriche

Archeologia industriale
è una contraddizione, pare:
archeologia è il mondo da che è mondo, è tutto ciò che è vecchio-
L’industria: è quello che si fa, l’adesso.
La foto del futuro. Chieri è come Biella,
è come Racconigi, o Pinerolo,
l’impianto medievale è rosicchiato sulle costole
dalle boite, queste qui, le fabbriche,
dove si è saputo conservare
uno scheletro di travi, il fisico, industriale:
questo posto rappresenta
il processo secolare,
l’identità tra borgo, città e manifattura.
Vivere e operare,
nella coincidenza degli orari.
I telai segnano e scandiscono le ore
come le campane, che chiamano, distolgono.
Il processo del lavoro diventa il patrimonio,
il simbolo, l’estendersi, il vivere in comune, il totem,
la forma della vita, l’archivio dei ricordi, il sole.

7. L’imbiancatura

Per eliminare il giallastro
proprio delle fibre naturali,
lino canapa e cotone,
o per rendere candidi i tessuti,
la tela grezza è esposta all’aria
o distesa sopra un prato soleggiato
e con la cenere. Lavata,
oppure immersa al fiume
e stesa un terreno, lasciata lì a seccarsi,
trattata
con materia detersiva,
liscivia, alcali di soda,
per un lasso di una quindicina d’ore,
poi ridispiegata sopra un campo, riseccata,
ribagnata dentro il fiume,
e intinta in un mastello colmo di latte reso agro
per un giorno intero,
insaponata, e poi ancora sopra un prato.

Nell’Ottocento il procedimento cambia
con l’arrivo di un fornello
sopra il quale si situa una caldaia che dovrebbe esser di ferro:
qui si versa dentro l’acqua
e si dispongono le tele da imbiancare,
che saranno poi innaffiate
con liscivia di soda o di sapone,
si accende il fuoco e si procede per quattr’ore,
poi le tele vanno risciacquate dentro l’acqua
e distese sulle corde, da qualche parte sotto il sole.

9. Il tessile

“L’industria chierese tradizionale
è quella dell’arredamento,
in special modo tendaggi e copriletto.

La produzione del settore
è basata sulla specializzazione del prodotto.

L’alta qualità subisce ancora l’influenza
di un gusto artigianale.

Le aziende qui presenti
sono piccole, non superano
i venti dipendenti.

Noi abbiamo una gestione famigliare,
intessiamo rapporti solidali
con tutti gli operai”.

Il signor Quagliotti
della sua ditta omonima
più figli, mi mostra delle tele,
gli ordini, lo spaccio,
mi porge del caffè,
e uno sguardo
di uno che si è fatto
pressoché da solo,
e mentre dovrei rendermi
conto del pregio del tessuto
che rende Quagliotti conosciuto
in tutto il mondo,
ordinato in Cina,
apprezzato addirittura
dai regnanti d’Inghilterra,
di tutta questa fabbrica
io ho in mente solamente
le foto alle pareti
di una ragazzina su una barca.
A visita finita,
quando mi chiede
se ho curiosità, domande,
qualche dettaglio da profano,
con un colpo di mano chiedo conto.
“È mia nipote morta a quindici anni”,
mi risponde.

10. La fornace di Cambiano

Al mio primo giorno di fornace
mi hanno messo ad aiutare.
Facevano i carrelli con le ruote piene,
occorreva tenere i pezzi di ferro,
mentre gli altri saldavano,
io ho guardato tutto il giorno quello che facevano.

***

Poi sono stato alla draga escavatrice,
e al locomotore che porta i vagoncini,
e su i mescolatori, dove si bagnava,
e agli essiccatoi con i bertolieri,
e agli stampi della tegoliera,
che si addensavano con la scagliola,
ma duravano niente, se uno non sapeva
il metodo d’impasto, il grado dell’amalgama:
era polvere di gesso che si faceva massa
con l’acqua di un catino,
c’era il maschio e la femmina di ferro,
e occorreva mezz’ora ad indurirsi.

***

Il carbone arriva in pezzi
sui cavalli o con il tamagnone,
si scarica da sotto la tettoia,
e poi si porta al forno.
Nell’inverno, dal forno
si tolgono le parti rovinate
prese dalla galleria, e si stuccano
con la terra quasi liquida,
fine fine ma non calce.

***

Chi guardi? Quel signore
che mentre dava alla tegoliera
la galletta gli ha rubato la mano?
Oppure il bertoliere che faceva la bianca
e gli finì un braccio tranciato
tra le pale del ventilatore che cambiava
l’aria dalle stanze
degli essiccatoi?
Oppure come si chiamava quel bambino,
il giorno che faceva freddo e il padrone
gli lasciò la giacchetta sulle spalle
con una manica davvero troppo lunga
che gli si infilò dentro le ruote della mattoniera
e quello gridò Mamma, finché fu stritolato,
e poi l’hanno lasciato un giorno intero lì
col corpo triturato e a gambe all’aria
finché arrivò l’ispettorato del lavoro.
Per un anno come lutto qualcuno lasciò
la luce accesa anche quando si chiudeva.

***

L’altura viene scavata come una schiena consenziente –
un’opposizione secolare al ciclo della terra –
ridotta in parallelepipedi d’argilla:
i mattoni ne sono il metro di misura,
la sua contabilità, la ratio umana minimale.

***

Tante volte per scherzare
con la punta usata a fare i buchi
scrivevo il nome sulle tegole.
Oppure ti amo, oppure pensami.

Non ne ho mai trovata una.
Solo una volta una firma di mia zia,
Conrotto Carolina, in una casa
demolita, su in montagna.
Neanche a dirglielo
che lei era già morta.

11.

Ho sempre più bisogno me ne rendo conto di raccontare la verità, le vie di mezzo che giustifico alle persone che mi chiedono conto di quel che scrivo, e a me stesso, non valgono. Ma la verità, o la comprensione parziale di quello che è vero non è immediata, fermenta in fondo alle cose, non si manifesta se non come urgenza ineludibile nei momenti di stanchezza del resto, o come cartina tornasole di un’esigenza irrimandabile. Niente fiction, niente estetismi in quello che scrivi, racconta quello che veramente ti accade, nelle forme scomposte che ovviamente conseguono.
Dì che hai provato per giorni e giorni a capire come dare un resoconto del tempo che hai passato a Chieri e dintorni e i vari esperimenti che hai fatto più erano lineari più ti sembravano kitsch, un’applicazione eccessiva di sforzo formale rispetto a un’esperienza così stretta, personale, in fondo anonima, incompleta, casuale. Dì il carico di tensioni con cui sei partito, che non hai dormito per niente, o quasi per niente, la sera prima, che hai finto di andare col treno per non fare preoccupare i tuoi. Dì che vivi dai tuoi. Dì che non hai i soldi per permetterti una casa per conto tuo, e forse neanche una stanza per conto tuo. Dì che per arrivare a Chieri ci hai messo nove ore partendo alle sei mezzo da Roma, che ti sei accostato tre quattro volte nella corsia d’emergenza a farti delle mezze dormite, lasciando acceso il riscaldamento della macchina. Racconta della faccia che aveva la tizia da cui ti sei fermato a prenderti un caffè sull’Aurelia appena fuori Roma, una donna con i denti non curati, così totalmente deprivata di qualsiasi forma di vezzo, di speranza: una radice di cinismo, una medea invecchiata. Dì quanto ti mancavano tutte le persone che conosci mentre ti allontanavi da casa a centosessanta all’ora, dì quante telefonate hai fatto a gente che non sentivi da mesi. Racconta quanto poco nerbo hai, quanto sei infantile, impaurito, bisognoso di sicurezze e garanzie, debole. Dì che sei come tutti, e che questo alle volte ti dà fastidio. Dì che con che ossessiva compulsione guardi il display del telefonino. Parla del sonno. Oppure di come ti senti ipocrita alle volte a essere gentile. Dì come non trovavi in fondo divertente ma disperante la situazione quando sei arrivato la prima sera a Sciolze e al numero del bed & breakfast dov’eri ti avevano alloggiato rispondeva una segreteria che prometteva aperture soltanto un mese dopo. Dì di come poi quando sei riuscito a metterti in contatto e sei arrivato fino a questo posto, ti sei sentito come ogni volta che delle occasioni belle che hai vengono sprecate dal fatto che goderne da solo è come non goderne, o peggio: ti fa semplicemente sentire più solo. Oppure dì di come ti sembrava piena di ferite nascoste la donna che gestiva il b&b: sicura di sé, disponibile, professionale, e così ancorata a quest’isola di idealismo – questo casale riattato nel bosco dove fare attività culturale, dove creare una comunità – conservato a tutti costi, contro tutti e tutto, il provincialismo dei chieresi, le amministrazioni miopi e pigre, le vicende personali. Dì di come la prima sera eri talmente stanco che ti sei addormentato sul letto crollando senza neanche spogliarti. Parla di come ti senti velleitario alle volte quando pensi che vorresti fare il giornalista d’inchiesta, e invece in questi casi minimi ti svegli tardi, sbagli strada, sei vestito come un cretino che ha freddo. Parla di come non ti andava di mangiare molto in quei giorni lì a Chieri, e di come invece ti sei abboffato, di come il cibo sia una forma di compensazione minimale quando ci si sente soli o a disagio. Parla di quella sorta di complesso di estraneità che si prova ad andare in visita alle fabbriche: tu stai lì a guardare come un antropologo della gente che sta semplicemente facendo il suo lavoro. Oppure dì di come ti sia impossibile ascoltare le persone con concentrazione, che è come se avessi una radiazione di fondo che ti raggruma ogni volta a te stesso, e di come non sia facile ammettere che questa non è altro che una forma di narcisismo, un’autodifesa così difficile da scalfire. Racconta di quante volte assumi la posizione fetale nel letto. Oppure smettila di essere patetico come se questa forma di autoesposizione ti garantisse la legittimazione a dire quel che dici. Parla del ghiaccio. Del piccolo lago ghiacciato che si era formato vicino al Museo della Fornace, e di come insieme ad altri quattro ragazzi che lavorano in uno studio di architettura ricavato nei locali della vecchia fornace, ti sei messo a fare quattro cinque passi sulla lastra del lago ghiacciato. Dì come era spaventosamente bella la collina dietro alla fornace di Cambiano. Ricordati di come ti sembra sempre malinconico non catturare la bellezza, non poterla condividere, non potersene impossessare, non poterla ridare. Ricordati la prossima volta di portarti una macchina fotografica, o di fartela prestare. Dì che non hai un rapporto buono col tempo, che sei impaziente, che ti dà fastidio dormire fuori casa da solo. Che hai scoperto che Robert Smith è odiato dal resto dei Cure perché non dorme mai nel luogo dove ha fatto il concerto ma obbliga tutti a ripartire direttamente la notte stessa per la tappa successiva del tour. Ammetti che questa come la maggior parte delle fobie ha a che fare con la paura della morte. Oppure parla delle manie altrui, descrivi la strana forma di invidia e non agio di fronte alle persone che ti mostrano per esempio come il loro pallino del collezionismo sia cresciuto così tanto da diventare un museo: la casa di Francesco Barbano ad Andezeno, una sorta di villetta-teca, con strumenti del mondo contadino e giocattoli e ninnoli sparsi per i tre piani, come se lui e la sua famiglia vivessero in una sorta di paese dei balocchi domestico. Oppure torna a parlare del freddo, della strada ghiacciata a pelo di un burrone che è notte e non vedevi, e stare senza catene, tenere il motore con i giri bassi, partendo in seconda, tentando di frenare solo con le marce: dì che questo ti fa alzare la soglia dell’attenzione quel tanto da farti sentire un po’ adulto. Oppure racconta la pigrizia, dì che tu, lasciato a te stesso, quello che fai ogni volta è semplicemente gironzolare per le prime strade a portata di piedi, senza nessun criterio. Dì che sei così pigro che non ti andava neanche di pregare come ti eri promesso. Oppure parla della tua difficoltà di sorprenderti, che forse fingi di sbalordirti di fronte alle cose, mentre in realtà sei uno caduto da piccolo nel pentolone del disincanto. Oppure prendi finalmente le distanze da quest’atteggiamento da “ecco quello che inarca un sopracciglio”. Dì che ti fissi sulle facce, che ti intrufoli nella vita delle persone, che ti piace sentirle parlare, come il figlio della signora del b&b, che lavora in una piccola società di Chieri che produce robot, e lui e un altro amico hanno inventato un apparecchio che si chiama washing machine e che serve a pulire i pali della luce incrostati dal sale (che è un isolante): questo robottino viene posizionato sui fili della luce delle grosse linee elettriche – i vettori che arrivano fino in Calabria – e poi si cala come un granchio su tutto il palo e lo pulisce dai sedimenti salini. Parla degli uccelli imbalsamati della collezione dei frati, del tipo che provvede alla manutenzione delle stanze, che ha disegnato a mano centocinquanta cartelloni didattici per insegnare ai ragazzini delle scuole le migrazioni e tutto il resto. Della storia che ti ha raccontato, di come ha smesso di cacciare il giorno che non ha preso una beccaccia e quella è rimasta lì ferma a guardarlo. Dì le cose che non hai fatto: non hai chiamato nessuna delle persone che conoscevi a Torino, non hai preso il catalogo della mostra sul Moplen allestita al Museo di storia (te l’avevano chiesto due volte), non ti sei comprato né un maglione né un cappotto eppure i soldi – al contrario del solito – ce l’avevi, non hai fatto un regalo, a parte la bottiglia di whisky comprata a prezzo intero allo shop della Martini & Rossi, per il tuo amico a serio pericolo di alcolismo. Dì che ti sei incantato come un teletossico davanti a uno schermo al plasma per mezz’ora a guardarti la sequenza degli spot degli ultimi dieci anni del Martini e del Bacardi, da quello con Charlize Theron a cui si sfila il vestito a quello dei colloqui di lavoro in cui si gioca con i doppi sensi “Buona capacità di relazione”. Dì che ti sembra tipico dell’ipocrisia diffusa scrivere sui cartelloni delle pubblicità degli alcolici Bevi responsabile, come applicare i memento mori sui pacchetti di sigarette. Dì che non hai visto poveri, a Chieri e dintorni, e anche pochi immigrati. Dì che ti sembra una comunità sociale piuttosto chiusa, decisamente ricca, ben organizzata, che anche le persone con cui ti sembra non condividere nulla, anche le persone con cui c’hai preso giusto un caffè o ti hanno apparecchiato a un tavolo da solo nella mezz’ora di tempo tra un appuntamento e l’altro, dillo che alle volte all’improvviso ti mancano anche loro.

12.

Dopo tre giorni, qualsiasi posto straniero ti diventa familiare,
la forza dell’abitudine risale lungo il sangue delle gambe
fino a farti diventare un ozioso permanente, un figlio eterno
di una famiglia di giganti nani. La tua caratteristica eminente
è la disposizione al pianto in ambienti tutto sommato protetti:
il bagno esterno di un ristorante a Torino, la sala attesa
del museo enologico a Pessione. Il tuo sguardo è la tua professione,
vale i contributi e la pensione che non hai, è ossessivo
perché non ha nessuno di reale a cui badare. Ti inonda
della nostalgia fulminea per un mondo inesistente.

La lettera del cugino di Cecilia, quarant’anni, separato,
senza figli, che si è tolto la vita l’anno scorso, l’hanno trovata
solo stamattina: Cecilia era a pezzi e quindi ho richiamato.
Poi, senza che l’avessi domandato, mi ha letto una riga:
“Da bambini dovrebbero dirci che non esistono le fate, i maghi,
gli esseri immaginari, ma che al mondo ci sono
le persone, solamente le persone”.

Condividi

4 commenti

  1. bello! molto bello. Forse è banale, ma mi sono ritrovata in quasi tutto quello che scrivi.
    Nei pensieri, nelle ossessioni e nell’urgenza (e paura) di stabilire dei legami affettivi con la realtà
    e chi la vive
    E poi mi piace la doppia voce, il doppio tempo, il cosa sono spaesato e ancora stupito (lo è),
    lo stupore rispetto al bisogno dell’altro. tanti queste cose se le dimenticano, annullate
    nella prossimità brutale e patologica, anche se si racconta il contrario, della familiarità.
    bisogna avere affetto nel pensiero e pensiero negli affetti. ciao

  2. la seggiola sopra la quale sono seduta si è messa a dondolare, da sola.
    o forse ero io, che nell ultima riga, o nell intero ultimo capoverso, è come se dentro avessero cominciato a ballarmi le còse, più in profondità. Una mollica di meraviglia con una di dolore. Fra tante.
    Ogni còsa, si è messa a ballare. Forse è anche così che si risvegliano le cose.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

fandzu@gmail.com

Christian Raimo (1975) è nato a Roma, dove vive e insegna. Ha pubblicato per minimum fax le raccolte di racconti Latte (2001), Dov'eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (2004) e Le persone, soltanto le persone (2014). Insieme a Francesco Pacifico, Nicola Lagioia e Francesco Longo - sotto lo pseudonimo collettivo di Babette Factory - ha pubblicato il romanzo 2005 dopo Cristo (Einaudi Stile Libero, 2005). Ha anche scritto il libro per bambini La solita storia di animali? (Mup, 2006) illustrato dal collettivo Serpe in seno. È un redattore di minima&moralia e Internazionale. Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi Il peso della grazia (Supercoralli) e nel 2015 Tranquillo prof, la richiamo io (L'Arcipelago). È fra gli autori di Figuracce (Einaudi Stile Libero 2014).

Articoli correlati