Homer & Langley (Mondadori 2010, traduzione di Silvia Pareschi), l’ultimo romanzo di E.L. Doctorow, è un libro apparentemente mite, persino dimesso, trasparente nella struttura e nella lingua, mai sopra le righe. Sottovalutarlo è dunque un rischio possibile, ma sarebbe un errore. La storia dei due fratelli che attraversano il ’900 orgogliosamente separati e catafratti nella grande casa sulla Fifth Avenue di New York in cui sono cresciuti (non a caso la strada dei musei – il Guggenheim, per esempio – e dello shopping, dunque la via dell’accumulazione), ricalca e al contempo mette in torsione la vera storia di Homer e Langley Collyer, che alla morte dei genitori, negli anni ’20 del secolo scorso, si chiudono nella loro casa di Harlem e “resistono” immersi in un cumulo di materiali compulsivamente e indiscriminatamente raccolti nel corso del tempo, fino al 1947, l’anno della loro morte. Doctorow si rende conto che all’interno di questa vicenda c’è qualcosa che trascende la semplice anomalia psichiatrica – la disposofobia, anche detta “sindrome dei fratelli Collyer” – e si cimenta nel racconto della natura più traumaticamente profonda del ’900, provando – come altri narratori in questi anni – a dare forma al ventesimo secolo per prenderne congedo.

Nello sguardo di Homer – progressivamente sempre più opaco, fino alla completa cecità – il ’900 è un fantasma concreto, un’anamorfosi che si lascia a tratti intercettare; man mano che i decenni trascorrono – e alla Prima Guerra Mondiale segue la Seconda e poi la Corea, il Vietnam, i movimenti culturali, le evoluzioni tecnologiche – anche l’udito di Homer si ottunde e del secolo restano rumori piccoli, sparsi e lontani, in ulteriore graduale evanescenza; ma resta anche il presentimento – il bisogno, il desiderio – di una voce, quella della scrittrice Jacqueline, in onore della quale Homer si taglia i capelli e si compra un abito nuovo, una voce che valga da smagliatura nel tessuto di compatta imperturbabilità del tempo, perché poter immaginare che un frammento di presente si svincoli dal flusso insensibile e venga a cercarci per rivolgerci, finalmente, la parola, è un’allucinazione indispensabile e struggente.
Come in Europeana di Patrik Ourednik – altro libro straordinario nel quale il ’900 è un amnios nel quale galleggiano i corpi, le storie e la Storia – Homer & Langley ci chiarisce che il secolo appena trascorso (ma in realtà non ancora trascorso, tanto è ostinatamente radicato nelle nostre percezioni) non può che essere intravisto, colto di sfuggita; perché non c’è altro tempo – individuale e collettivo, “storico” – se non quello che manca. E alla fine balena un’ipotesi, o più esattamente un vitalissimo incubo: il ventesimo secolo non è stato altro che un organismo cieco e sordo, accumulatore, omerico, un’intelligenza autotrofa che trovandosi condannata a “una consapevolezza irrimediabilmente consapevole” non può che raccontarsi a se stessa senza potersi mai percepire.

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4 commenti

  1. Ho letto di questa storia sul Sole, c’era anche la foto originale dei due fratelli durante un trasloco, ci fu un crollo a un certo punto e i poverini perirono sotto il peso dei loro oggetti. Certo è una sindrome assurda, ma succede a me anche col pc, quel consultarlo compulsivamente per sapere tutto su tutto con Wikipedia e ritagliare articoli di giornale senza poi saperli archiviare, senza ancora osare entrare in Facebook, perché allora come frenare la mia curiosità? Se è una sindrome, comunque, credo sia abbastanza diffusa. Ciao!

  2. La casa di Homer e Langley è il Funes di Borges che incamera ogni ricordo possibile, assume e trattiene ogni particella di realtà piombi su di lui o ne lambisca il passo. Abolendo il discernimento in un parosssismo di permeabilità alle cose che si possono nominare e contare, in un’estasi, forse, di doclilità a qualsivoglia pressione di significato. La vita di Funes diventa impossibilità di connessioni -perchè tutto è già compresente, attaccato- annientaento del libero arbitrio del ricordo. Muore di congestione polmonare. La casa di Homer e Langley è un polmone (verdeoro, verdenelbuio, verdastro) che a un certo punto si congestiona. Un archivio che di cui si rompono i lacci (o che finisce in un computer). Homer e Langley muoiono perchè sono fratelli convergenti anhe nella morte; Homer e Langley muoiono come muoiono tutti i grandi personaggi della letteratura, quando per suppurazione finiscono le metafore.

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giorgio@zerounoscritture.it

Giorgio Vasta (Palermo, 1970) ha pubblicato il romanzo Il tempo materiale (minimum fax 2008, Premio Città di Viagrande 2010, Prix Ulysse du Premier Roman 2011, pubblicato in Francia, Germania, Austria, Svizzera, Olanda, Spagna, Ungheria, Repubblica Ceca, Stati Uniti, Inghilterra e Grecia, selezionato al Premio Strega 2009, finalista al Premio Dessì, al Premio Berto e al Premio Dedalus), Spaesamento (Laterza 2010, finalista Premio Bergamo, pubblicato in Francia), Presente (Einaudi 2012, con Andrea Bajani, Michela Murgia, Paolo Nori). Con Emma Dante, e con la collaborazione di Licia Eminenti, ha scritto la sceneggiatura del film Via Castellana Bandiera (2013), in concorso alla 70° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Collabora con la Repubblica, Il Venerdì, il Sole 24 ore e il manifesto, e scrive sul blog letterario minima&moralia. Nel 2010 ha vinto il premio Lo Straniero e il premio Dal testo allo schermo del Salina Doc Festival, nel 2014 è stato Italian Affiliated Fellow in Letteratura presso l’American Academy in Rome. Il suo ultimo libro è Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani (Humboldt/Quodlibet 2016).

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