
Pubblichiamo un estratto dal libro Qui giace un poeta, uscito per Jimenez: oltre cinquanta autori italiani e stranieri hanno raccontato il loro personale viaggio su tombe di artista.
di Luca Miele
Lowell, 12 marzo 1922
St Petersburg, 21 ottobre 1969
Edson Cemetery – Lowell, Massachusetts
Eccoti qua, vecchio Jack.
Esili ciuffi di erba ondeggiano spinti da una brezza gentile. Sono così i cimiteri americani, gentili, non come i nostri, intossicati da cappelle, architetture, marmi, non ci vogliamo arrendere alla morte, neanche alla fine, vogliamo che la pietra conservi qualcosa di noi, della nostra piccola gloria.
E invece la tua tomba Jack, qui all’Edson Cemetery, a Lowell, Massachusetts, la cittadina croce e delizia della tua esistenza dove sei nato e dove riposi, è semplice, rarefatta, sospesa nel silenzio interminabile della morte. Il marmo non affiora dalla terra, non si erge, non pretende visibilità: che lezione che è la tua tomba, Jack. Prima abitavamo la morte, sapevamo che i morti non morivano, riempivamo le loro case dell’eternità con le cose che amavano e che avrebbero impiegato in eterno. Poi abbiamo smesso di crederci, e abbiamo fatto dei sepolcri solo un prolungamento di marmo del nostro ego. Per questo amo la tua tomba, Jack. Perché si accontenta dell’anonimato della morte.
Un fazzoletto di ossa silenziose, al riparo nel ventre della terra, circondato dal verde del prato. Il tuo nome (“Ti Jean”. John L. Kerouac) è inciso nella pietra, assieme alla data della tua nascita e a quella della tua morte, la tua vita è stretta tra quelle due date (mar. 12, 1922 – oct. 21, 1969) e assieme al nome di tua moglie (Stella, his wife) che si è unita a te nell’eternità. E poi c’è quella scritta, “He honored life”, che sembra quasi un vezzo, il riconoscimento postumo della tua febbrile scomposta insaziabile sete di vita. Che vecchio bastardo che sei Jack: qui è venuto, con la sua chitarra Bob Dylan nell’ottobre del 1975, c’è una foto che lo immortala accovacciato sul prato assieme ad Allen Ginsberg, qui orde di ragazzi brufolosi piangenti entusiasti adoranti sono venuti a celebrare te, il tuo mito, a celebrare Jack Kerouac, sono venuti a celebrare la tua vita raminga, sono venuti a celebrare “la purezza della strada”, sono venuti a celebrare la tua affannosa ricerca di Dio, sono venuti a celebrare la tua lunga inutile fuga dalla morte mentre tu te ne eri andato in realtà già da tempo, volatilizzato, evaso, più il tuo corpo si allargava e più il tuo spirito lo disertava: ti infastidivano quei ragazzi, la rivoluzione degli zaini che sognavi e che non è mai avvenuta, ti sentivi vecchio e inutile e stanco dinanzi alla fame che invece divampava negli occhi e nelle gambe dei ragazzi che bussavano alla tua porta, e hai trasformato la tua vita in desiderio di morte, apparivi sempre più sfatto, bolso, ubriaco, nella falsa clownesca libertà della bottiglia.
Già, quella vecchia puttana della morte, come la chiamava Hemingway, che non ha mai smesso di tormentarti, vero Jack? Perché tu la odiavi, la odiavi con tutto te stesso, la temevi e ti ossessionava. Funziona così, Jack: più si ha paura della morte e più le si corre incontro, più la morte ti spaventa e più ti consegni al suo imperio, più ti bracca e più trasformi la tua vita in un anticipo di morte. Basta aprire a caso uno dei tuoi libri, per scoprire il muso ringhioso della morte. La tua arte è stata spesso questo: un lungo sofferto doloroso lamento per la morte che ti assediava, che ci assedia, per “la verità che affiora dalle ossa dei morti”.
“Noi tutti tremanti nelle nostre scarpe di mortalità, nati per morire”. “E io morirò, e voi morirete e tutti moriremo”. “La terra è essenzialmente una tomba”. “Il raccapricciante destino di noi esseri umani, ognuno di noi morirà improvvisamente in qualche terribile momento”. Hai pure cercato di fotterla la morte. Sei diventato buddhista per spogliarla della realtà, per ridurla a illusione a parvenza, per sottrarle il suo pungiglione. “Non siamo mai davvero nati, non moriremo mai davvero. Il Sé è soltanto un’idea, un’idea mortale. Il mondo che vedi è soltanto un film che si srotola nella tua testa” scrivevi. Ma non è durata Jack. Alla fine la morte tornava sempre. Alla fine hai scelto la Croce, la materialità della morte, il corpo scannato, torturato, appeso al legno che ti è apparso nel delirio, come racconti in Big Sur. Addio illusioni, addio Buddha: restava solo la morte.
Si può amare la vita e contemporaneamente consegnarsi alla morte? Devi essertelo chiesto presto, quando tuo fratello Gerard se ne è andato. Era un bambino, lo eri pure tu. Sei arrivato a rimproverarti di essergli sopravvissuto, di essere tu, suo fratello, la causa della sua morte. Eri Caino, eri Giuda, eri il fratello che si macchia del sangue di suo fratello. Il dolore si è incistato dentro di te, ha iniziato a secernere un veleno silenzioso. Ad ammalarti. Hai rivestito il piccolo Gerard di tutta la purezza di cui eri capace, ne hai fatto un santo, un essere in comunione con gli angeli, ne hai trascritto le visioni – eri sempre a caccia di visioni, posseduto dalle visioni – ma alla fine ti sei dovuto arrendere: “Gerard è morto, l’anima è morta, il mondo è morto e il morto è morto”.
Alla morte hai voluto guardare in faccia. Altre volte hai voluto guardare in faccia Dio, che è poi la stessa cosa. Dio. Che mi dici di Dio, Jack? Hai passato la tua vita ad amarlo, a cercarlo, a smarrirlo, a maledirlo, a supplicarlo. Hai osato persino le vie impervie della teologia. “Il Signore è ni-uno, il Signore non è costretto da nessuna forma” hai scritto.
Hai pregato. Mi piace la tua preghiera disperata. La preferisco a quella di molti uomini di fede. Mi piace la sua dismisura. Una preghiera esaltata e sconfitta. La preghiera di chi ha creduto che si può amare Dio anche con la carne, con le budella, con le viscere, con l’abiezione. Quel Dio che hai deciso di inseguire sulla strada perché la strada ti sembrava, in fondo, la cosa che più assomigliava a Dio. Infinita, pura, estatica. Hai pensato che la strada era quanto di meglio potesse spingerti vicino a Dio. E con quel pazzo di Neal Cassady, a cui in On The Road hai dato il nome di Dean Moriarty, lo hai persino incontrato nel deserto, hai osato la lingua di Dio. “C’è solo l’innominabile parola divina. Che non è una Parola, ma un Mistero” hai scritto. E lì, sulla strada, sapevi che avresti incontrato le uniche persone che a te interessavano perché in loro vedevi i soli che potessero avvicinarsi a Dio, “i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno Oooooh!”. E lo stesso Dean, il tuo compagno di scorribande, di strada e di vita, era un “pazzo di fede assoluta”. Quelli che amavi erano i “santi del deserto”. Fuggivi “da quella roccaforte dell’ignoranza che è la città moderna”. Ma ogni volta vi ritornavi, sedotto dal suo richiamo.
La cosa più bella che hai scritto Jack l’ho trovata nei tuoi diari. È una preghiera.
Oh, mio Signore, ora mi rallegro delle mie pene, come se Te le avessi chieste e Tu me le avessi concesse. Esulto, immerso in queste sofferenze. Sarò forte come l’acciaio, mio Signore, diventerò sempre più forte, il fuoco mi forgerà, mi renderà più deciso, più saldo, migliore, secondo la tua volontà o Dio perduto, secondo i tuoi comandamenti. Ora lascia che io Ti trovi, come nuova gioia che invade la terra all’inizio del nuovo giorno, come il cavallo che, nel suo campo, al mattino, vede il padrone giungere verso di lui attraverso l’erba. Ora sono come l’acciaio, mio Signore, Tu mi hai reso forte e pieno di speranza.
Colpiscimi e risuonerò come una campana!
Jack, nel cassetto ho un libro su di te. Staziona lì da un bel po’. Non è concluso. Aspetta la sua fine. Rimando. Sono in panne. Inseguendoti, ho scoperto che è impossibile catturarti. Che sei sfuggente ed elusivo. Che la tua opera è labirintica e, che se cerchi il filo che ti restituisca l’insieme, inevitabilmente finisci per perderti. O peggio, quel filo ti si attorciglia addosso. Sei stato tutto e il contrario di tutto. Eri un beat(o) eppure eri tormentato. Eri un uomo sensuale ed eri innamorato della purezza. Cantavi la vita ed eri ossessionato dalla morte. Cantavi la verità e non finivi mai di perderla. Cercavi Dio e ti scoprivi posseduto dal diavolo. Hai consacrato la tua vita alla scrittura ma sei finito attaccato a una bottiglia, finendo per odiare la parola stessa: “L’orrenda certezza di avere per tutta la vita ingannato me stesso, pensando sempre che ci fosse qualcos’altro da fare perché lo spettacolo continuasse mentre in realtà sono semplicemente un pagliaccio, depresso esattamente come chiunque altro. Odio Scrivere”. Eri doppio, come gemellare era il tuo rapporto con Dean, che per te è stato a volte un fratello, a volte un padre, a volte una maledizione. Lo sapevi, lo ammettevi. “Ci sono troppe cose che mi piacciono e mi confondo e mi perdo a correre da una stella cadente all’altra fino allo sfinimento. Non avevo niente da offrire tranne la mia confusione”.
Come tanti, ti sei sentito, sei stato orfano. Tuo padre, anche lui afferrato dalla morte. La vostra è stata una generazione di fratelli, di figli che rinnegano i padri, di figli che si slegano dai padri, di figli che fuggono dalla casa paterna. Sulla strada scorrazzano solo gli orfani. I padri sono morti.
Ma i morti non tacciono. Lo sapeva bene Edgard Lee Masters quando compose L’antologia di Spoon River e lo sa un altro che ha amato la tua strada e che, seguendo le tue orme, dice di essere nato per correre, Bruce Springsteen. Ebbene Bruce, a un certo punto della sua lunga carriera, ha poggiato un orecchio sulle lapidi e ha sentito e poi cantato la voce dei morti. E cosa dicevano i morti? Emettevano un lungo interminabile sussurro: siamo vivi, siamo vivi, siamo vivi. E lo sa lo scrittore peruviano Renato Cisneros quando conclude il suo romanzo La distanza che ci separa con queste parole:
Se i tuoi morti ti scelgono, se ti seguono, è perché vogliono che tu gli dia voce, che tu riempia gli spazi vuoti, le crepe; che accumuli, amministri e condividi le loro bugie e le loro verità che, in fondo, non sono così diverse dalle tue. Forse scrivere è proprio questo: invitare i morti a parlare attraverso di noi.
Sono qui per sentire la tua voce, Jack. Così come sento la voce di mio padre.
Ormai l’ho imparato, lo so Jack. I morti hanno sete d’amore.
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente
E’ sempre bello leggervi. Un sincero grazie di cuore ma soprattutto Buone Feste