Immortala il terrore di non avere scampo, la Battue, l’inseguimento di un cervo da un gruppo eterogeneo di cani da caccia, cavalieri e battitori come simbolo dei tentativi di sfuggire all’inesorabile. La trama di quell’antico arazzo francese rivela l’intrico di una disperazione che si fa emblema di una più ampia desolazione, al contempo privata e storica: il cardine dell’opera prima di Sophie van Llewyn, Bottigliette, edita da Keller nella raffinata traduzione di Elvira Grassi.

Nell’asfittico quotidiano della Romania di Ceauşescu, una giovane donna è seguita sino al travagliato approdo alla maturità tra scelte obbligate e radicali rinunce. L’evoluzione interiore di Alina delinea in parallelo la trasfigurazione di un paese consumato dalle proprie contraddizioni nella segreta ricerca di un riscatto. La narrazione si apre nel 1967, abbozza i contorni opachi della Repubblica Socialista tra pesanti limitazioni della libertà personale e un sottile gioco di equilibri celato dietro l’apparente condivisione di valori comunisti. Un intenso tratteggio sociale costruito come una flash fiction che esplora la memoria famigliare e collettiva degli ultimi trent’anni del Novecento per rendere l’affresco culturale e politico dei suoi drammi storici.

Alina è una giovane donna dagli occhi “spaiati”, come una moltitudine di altre “cose spaiate nella sua vita”. Dopo un’infanzia segnata dalla perdita del padre e dalle pesanti ingerenze della madre, deposita nel matrimonio con Liviu il sogno di costruire un futuro diverso. I progetti di quei due insegnanti elementari saranno destinati a franare per il peso della diserzione di un parente, nella condanna a logorarsi nei ruoli stabiliti dagli altri. L’incapacità di svincolarsi realmente dall’oppressione è un tarlo che li consuma poco alla volta, come accade al loro amore.

Liviu mi protegge all’inverosimile dal mondo esterno. Ho il terrore che uno di questi giorni la diga che ha costruito per me finirà per rompersi e tutte le brutture del mondo si riverseranno fuori e mi sommergeranno.

L’inquietudine che Alina prova nei confronti della madre è pari a quella vissuta nei confronti dell’idea di nazione. L’immagine materna richiama estraneità e genera terrore, una figura grottesca, ritratta perennemente con un cappotto di visone e un cappello di pelliccia di coniglio. Incarna il moralismo, i pregiudizi e le ipocrisie del suo tempo: vive di subdoli ricatti celati dietro attestazioni di merito che generano spaesamento e riluttanza in Alina, una perenne percezione di inadeguatezza come un fardello di cui è impossibile sbarazzarsi.

Una bambina selvaggia sei stata, e ora che ti sei fatta grande sei una donna ingrata, ingrata con me, vergognati, vergognati, vergognati! Maledetta, maledetta, tu sia maledetta, perché sei un’egoista e non c’è una volta che pensi a me!.

L’unica figura più vicina a incarnare tale ruolo è la zia Theresa. Figlia di un importante esponente del partito liberale e madre di un agente della Venerata Madrepatria, sa di non poter minare la credibilità altrui per chiedere intercessioni. Non le rimane che affidarsi a sante del venerdì, a rituali magici in villaggi rurali e a pratiche strampalate per allontanare lo strigoi – il tormentato spirito dei morti che risorge dalla tomba secondo il folklore romeno – e l’ombra nefasta che rappresenta.

Il romanzo si regge sul susseguirsi di immagini che scompongono il dettaglio e insistono sullo scarto per rendere un disordine interiore implacabile. Nessuno può dirsi immune dall’assillo del sospetto, meglio esternare il proprio pensiero a finestre chiuse e con il rubinetto del lavandino aperto. Una condizione favorita da norme che giustificano abusi e consentono a chi riveste un ruolo di potere di esercitare il controllo e decretare l’evoluzione lavorativa e personale dei non allineati.

Non prova affetto verso la sua patria, il suo governo, l’Amato Leader. Come può credere in un regime che incoraggia l’odio tra i suoi fratelli, che mette le madri contro i figli. Un regime che punisce gli innocenti.

La raffigurazione della violenza e l’urgenza di un’emancipazione sono rese per dettagli minimi, come fingere di intonare Triei cuori davanti al ritratto del Conducător o osservare i cocci di una tazzina come “un serpente velenoso che nessuno osa toccare”: l’emblema della propria frantumazione. Come rivela il capitolo “Come attirare l’attenzione (indesiderata) delle autorità comuniste”, sono persino gli accadimenti di per sé irrilevanti a diventare compromettenti e generare nei sospettati la tendenza a perpetuare nuove crudeltà nel tentativo di salvarsi.

In questo paese fingere di non vedere è un’arte, un’abilità che si impara da giovani. Altrimenti, ecco che si dipana il sentiero delle spie.

Il crescendo di tormento e angoscia si traduce in un’originale scelta formale che rivela le intermittenze emotive, le attese e le cocenti delusioni attraversate dalla protagonista. La prosa priva di orpelli è rischiarata da un linguaggio denso di delicate aperture poetiche che delineano il graduale percorso di riscatto dalla subordinazione.
La narrazione apre continue parentesi lirico-analitiche: la componente realista cede il passo a scorci descrittivi che rendono ineffabili i confini tra il disagio interiore e il mondo intorno.

La mia mente scandaglia le erbacce della verità. Non posso strapparle via dalla mia testa e porgerle all’uomo.

La costante alternanza di prima e terza persona, la tensione al diaristico, cedono il passo alla personale cronaca degli eventi: una “dissonante sinfonia di sofferenze” tra liste stilate per restare ancorati al presente e improvvisi accenti surreali dalla sottile vena comica che si fanno metafora della tragedia di una sopravvivenza priva di giustizia. Il ricorso a differenti figure retoriche trova negli artifici formali la misura esatta di sensazioni e inquietudini con l’associazione a oggetti del quotidiano e l’identificazione con una condizione fisica.

L’infanzia di Alina è una chiave di metallo che penzola da una cordicella. […] L’infanzia di Alina è uno zaino verde con due tartarughe di un giallo e un verde brillante, come l’invidia dei suoi compagni di classe. Al quarto anno di scuola, le tartarughe sono ormai malandate e screpolate, come i dipinti rinascimentali. [..] L’infanzia di Alina è rimanere indietro rispetto alle due compagne con cui fa il tragitto verso casa e fermarsi ad ammirare le vetrine del negozio con valuta estera. Dentro ci sono meraviglie riservate agli occidentali e ai leader del partito.

La prosa di Sophie van Llewyn individua nel simulacro di un’infanzia il mezzo per offrire una rilettura lirica e privata dell’ideologia. Ancor prima che addentrarsi nel racconto di violenze efferate e torture di ogni genere, indaga la condizione interiore di esistenze sguarnite, incapaci di credere in un reale cambiamento, costrette ad assistere alla demolizione altrui per poi rendersi conto di essere diventate ombre a loro volta.

Bottigliette è una spietata riflessione sul prezzo del raggiungimento della libertà, che usa la riflessione politica nel solco degli stravolgimenti del 1989 con la liberazione della Romania per indagare il groviglio inestricabile di senso di colpa e urgenza di affrancamento.

Tra le pieghe di una metamorfosi privata e collettiva, Sophie van Llewyn tratteggia la dolorosa incoerenza di chi è invischiato inesorabilmente in un passato-madre e riesce appena a vedere il futuro come una luce fioca, oscurata dal dolore di un ineluttabile sradicamento.

La mia città è come una melodia suonata nella tonalità sbagliata. Un roast beef glassato con una crema rosa. Dopo vent’anni è la stessa, ma è anche diversa.

 

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Autore

a.pisu@minima.it

Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all'Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

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