Zehra Doğan è un’artista, attivista e giornalista curda. Nel 2016 condannata a tre anni di reclusione dalle autorità turche per un disegno raffigurante la città curda di Nusaybin, situata al confine con la Siria, dopo il bombardamento dell’esercito turco. Il disegno –postato su Twitter – fa il giro del mondo e la sentenza di propaganda terroristica non tarda ad arrivare. Per quasi tre anni Zehra rimane in carcere, nella prigione numero 5 di Diyarbakir. Una prigione inscritta nella storia del Paese come luogo di persecuzione, ma anche di resistenza. Nonostante la mancanza di materiale, sfidando muri e divieti, continua a disegnare facendo uscire i suoi lavori dal carcere in modo clandestino. Per realizzarli utilizza materiali di fortuna: avanzi di cibo, capelli, tè, caffè e sangue mestruale. Prigione numero 5 (Becco Giallo, pagine 128, euro 20) è quindi un diario dal carcere, un pezzo di poesia, una forma di resistenza, una risposta alla rabbia. È la sua testimonianza, unica e tragica.
Questo libro per lei è il risultato di un lavoro che ha trasformato quasi tre anni di reclusione, resistenza e lotta, in testimonianza. Come è nato?
Durante il periodo in cui le città curde erano assediate, nel 2016, ho realizzato un primo fumetto. Disegnavo su tablet e mandavo le tavole a un amico perché le conservasse, poi le cancellavo, per non averle in caso di arresto, perché i pochi giornalisti rimasti lì rischiavano di essere arrestati in qualsiasi momento. Alcuni di questi disegni sono stati condivisi sui social e alla fine non sono riuscita a finire il progetto, perché sono stata arrestata e imprigionata. È nato così. Si trattava di rappresentare ciò a cui ho assistito. L’ho fatto sul retro delle lettere del mio amico Naz Oke, che su mia richiesta mi scriveva su carta kraft, lasciando il retro dei fogli vuoto. La natura, la storia del luogo e il modo in cui operiamo nella nostra vita quotidiana, la nostra vita insieme, sono stati lamia fonte di ispirazione.
La voglia di disegnare – scrive nel libro – non l’ha mai abbandonata. Cosa rappresenta per lei il disegno?
Il disegno è il mio modo di esprimermi. Spesso, per trasmettere un pensiero, registrare un evento nell’archivio della storia, coinvolgere il pubblico, informarlo, renderlo consapevole, un semplice disegno è più efficace delle sole parole. Ci sono anche riflessioni o testimonianze profonde e dolorose per le quali sentiamo un’urgenza, un bisogno di espressione, ma di fronte alla loro natura abominevole, le parole rimangono del tutto insufficienti, mentre il pennello può ritrarle.
Durante la reclusione il materiale artistico era proibito: come ha realizzato i disegni?
Il materiale “di intrattenimento”, compreso quello artistico, era proibito. Fin dai primi giorni ho sentito un forte desiderio di creare, così ho cercato mezzi alternativi. Molto rapidamente ho capito che avevo tutto ciò di cui avevo bisogno a portata di mano, dovevo solo essere creativa e trasformare i materiali di tutti i giorni in materie prime. Ho messo le mani nella spazzatura, ho usato come supporto scatole da imballaggio, pagine di giornale, lenzuola, federe, vecchi vestiti, tessuti che mia madre mi portava, ma anche il retro delle lettere, che è appunto il caso del libro. Tutto ciò che poteva fornirmi i colori è diventato vernice, dalla salsa dei piatti, al caffè, alla curcuma, al succo di bucce di melograno. Anche il sangue mestruale.
Nel libro parla dei tanti giorni con la loro «buona dose di disgrazie». Se tornasse indietro c’è qualcosa che farebbe in modo diverso?
Continuo a ripetermi che avrei dovuto disegnare e dire di più. Avrei dovuto parlare di più, ad esempio, dei bambini imprigionati con la madre, dei prigionieri malati, descrivendo altri momenti della vita quotidiana o della storia. Ma queste tavole sono state realizzate di nascosto, e molto rapidamente, per poterle far uscire dalla prigione il più rapidamente possibile. Quando oggi guardo il libro finito, ho l’impressione che nell’insieme questo aspetto si percepisca e rispecchi quindi una realtà, un’urgenza.
Com’è la situazione oggi in Turchia? Anche rispetto alla libertà di stampa.
In Turchia viene messa la museruola non solo al giornalismo d’opposizione, ma anche alle espressioni individuali, con intimidazioni, minacce, procedimenti penali, arresti, incarcerazioni. Una singola frase, a volte estrapolata dal contesto, può essere usata contro di te. Centinaia di giornalisti vengono incarcerati e arrestati dietro il pretesto delle accuse di terrorismo, e migliaia di persone sono perseguite per i loro commenti sui social network. Ciò rende estremamente difficile il lavoro dei pochi media dell’opposizione, che stanno lottando per sopravvivere e cercano di continuare a funzionare. Di fronte a minacce di chiusura, multe e sanzioni, a volte si tratta di autocensura. I giornalisti vengono arrestati, rilasciati, arrestati di nuovo, all’infinito. Ma queste donne e uomini determinati continuano nonostante tutto, instancabilmente.
In passato ha anche ricevuto premi internazionali come segno della lotta e dell’impegno nella lotta per l’emancipazione femminile. Com’è la situazione su questo fronte?
Il destino delle donne è simile in tutto il mondo. Sono nel mirino del sistema. Il mondo patriarcale vomita le sue guerre su di noi, impone le sue discriminazioni di genere, sociali ed economiche. La guerra che sta conducendo contro di noi non è una semplice guerra dei sessi, di dominio, è anche una guerra ideologica, che detta ancora regole sul modo di comportarsi, di vestirsi, di essere belli, di praticare il sesso, di procreare. Ma le donne lottano. Sono, in diversi angoli del mondo, su più fronti, ma è una lotta. Dobbiamo porre fine al dominio perpetuato dal capitalismo, oltre che dal patriarcato. In Kurdistan il posto delle donne è molto diverso. Perché c’è una resistenza come quella del Rojava, e sono le donne che stanno in prima linea. È la prima volta in Medio Oriente che una rivoluzione è guidata dalle donne. Anche in Turchia, in particolare dagli anni ’90, c’è stata una resistenza molto significativa da parte delle donne. Cito esempi dalla mia terra, ma ci sono casi simili dappertutto. Non è solo una lotta per l’identità. Contemporaneamente alla lotta per l’identità, le donne conducono una lotta di genere. Questo incontra quasi sistematicamente una risposta violenta da parte degli stati, perché la lotta delle donne è vista come una minaccia, perché tutte le leggi sono principalmente patriarcali e maschiliste. E il campo dell’arte non fa eccezione. Sono ancora tante le conquiste da fare, anche tra noi donne. Il potere maschile ha avuto origine con la civiltà e risale a milioni di anni fa. Quando a volte parlo di “estirpare il maschile in noi”, penso a questo dettame considerato naturale, come una norma, che è presente negli uomini come nelle donne, ma penso che le donne – con la loro lotta – stanno marcando questa epoca e che saranno loro a cambiare il mondo.
C’è un pensiero positivo che l’ha guidata durante la prigionia?
“Avremo anche buone giornate”. E conservo in me questa convinzione, anche oggi.
Una delle parti più commoventi del libro è il racconto delle azioni più semplici e quotidiane, come la sveglia, i pasti, i turni delle pulizie: come è riuscita a raggiungere il giusto distacco per raccontare quella routine che trasmette in maniera così lucida un senso di oppressione?
Oltre al resoconto di quei giorni c’è una consistente parte di racconto che riguarda il passato. Quanto è importante conoscere il passato per comprendere ciò che è accaduto?
Le radici del presente si estendono nel passato. Per capire oggi, è estremamente importante conoscere ieri. La storia viene riscritta dai vincitori e le verità vengono cancellate. La storia delle donne, degli oppressi, è parte di questo procedimento. Per costruire il futuro, un mondo migliore, dobbiamo affrontare la realtà e dobbiamo integrarla con tutti i suoi aspetti con coerenza, perché è una questione di continuità. La memoria storica collettiva si costruisce attraverso la trasmissione.
Che cos’è stata la Prigione N° 5?
“Prigione N° 5”, dal suo sinistro nome “La galera d’Amed” (Amed: Diyarbakır in curdo), fu creata nella sua forma attuale dopo il colpo di stato del 12 settembre 1980. Gli anni ’80 e ’90 furono i periodi più brutali, quando gli oppositori politici, per lo più militanti socialisti e curdi, subirono torture sistematiche. Ma ogni persecuzione e oppressione provoca come reazione una propria resistenza. Questo luogo è quindi anche la culla di una grande resistenza che ha segnato la storia.
Una domanda che nel libro lascia aperta: che cos’è la libertà?
La libertà per me non è “fare quello che vuoi”, ma essere in grado di dire “no”, essere sé stessi. E questo, indipendentemente dalle condizioni, in prigione o nel bel mezzo della guerra.
L’ultima pagina, quella con il timbro della commissione di censura, è una pagina di poesia. Quanto è stata importante la poesia, anche quella delle piccole cose, per resistere?
Tra i Curdi, la poesia ha una grande importanza popolare. Le nostre serate, con amici e famiglia, sono sempre poetiche. Ma soprattutto, la poesia è un’arma. Riunisce tutte le metafore in una parola. Vale a dire che non è necessario dire molte cose, la poesia può esprimere tutto in un colpo solo. Non c’è bisogno di pagine intere piene, né di lunghi discorsi politici. È come un dipinto. Si concentra su quello scatto e lo realizza sempre in modo sincero. È perché è sincera che è forte. Nella poesia c’è sincerità e sentimento. Penso che l’arte plastica e la poesia procedano di pari passo. Nei miei disegni, ciò che orientava e canalizzava le mie emozioni era la poesia. Questo è il motivo per cui le poesie di Ahmed Arif, Didem Madak, Nilgün Marmara, Forough Farrokhzad sono importanti per me. Mi hanno sostenuta. E per esempio due miei amici, mentre guardavano, scrivevano poesie, ispirandosi ai disegni che facevo. Uno è stato tenuto nella prigione di Tarso, l’altro nella prigione di Diyarbakir. Sono stata felice che un disegno che avevo realizzato ha risvegliato in loro un’altra ispirazione. Magari leggendo le loro poesie, un’altra persona, con altre emozioni, scriverebbe un articolo, o un racconto, o un testo letterario. Vale a dire che tutto fa nascere qualcos’altro e si autoalimenta. Questa è la bellezza dell’arte. Produci disegni, poesie, scritti, crei e rimani in piedi. E diventa un modo per resistere. È così, soprattutto in prigione.
Eugenio Giannetta, classe 1986, è autore e giornalista professionista dal 2018. Laurea in Lettere e Master in comunicazione sociale con relazione finale sul rapporto tra etica e comunicazione. Dal 2016 ha una collaborazione continuativa con le pagine culturali di Avvenire. Collabora inoltre come consulente per la comunicazione con varie realtà editoriali e del Terzo settore. Suoi articoli appaiono e sono apparsi su numerosi siti e riviste tra cui Vanity Fair, Harper’s Bazaar, Esquire, Elle, Marie Claire, Artribune, La Stampa.
