Questa estate ha coinciso per me con due balconi, uno sul Foro Italico di Palermo e l’altro sul golfo di Napoli “nata per l’ozio”, come già la cantava Ovidio. Davanti al primo sfilavano i traghetti, dal secondo si vedevano le acque buie della notte accendersi per lo sbocciare silenzioso dei fuochi d’artificio, come altrettanti fiori scarlatti e verdi. Ho ripensato ai versi di Iannis Ritsos sui vecchi che guardano partire le navi, “partiti anche loro”, e improvvisamente anche all’Aschenbach di Thomas Mann in “Morte a Venezia”, a sua volta alla finestra dell’Hotel del Lido, maliziosamente lieto che un disguido lo obblighi a protrarre il soggiorno, a rimirare ancora quel mare e quel giovane, enigmatico efebo che sconvolge la sua vita d’artista augusto e morale, e che sarà anche l’ultima cosa contemplata prima di morire di colera.

“Rimase seduto in silenzio lassù dove nessuno lo poteva vedere, guardando dentro se stesso. Poi alzò il capo e con le due braccia che pendevano inerti dai braccioli della poltrona descrisse un movimento ascendente e rotatorio, con le palme rivolte verso l’alto, come a indicare un aprirsi e un allargarsi delle braccia.” Quello stesso albergo si sovrappone a sua volta per molti con l’ultimo indugiare dell’estate, con la luce di settembre, lo si intravede nei giorni della Mostra del Cinema, il rito finale che sancisce il ritorno agli impegni quotidiani. È una coincidenza significativa. Il Mediterraneo che fa slacciare il colletto, abbassare la guardia delle emozioni, allargare le braccia, tornare a desiderare, persino a rendersi ridicoli per inseguire una bellezza che ci espone ancora una volta in tutta la nostra fragilità, per Mann raccontava i sussulti di ogni forma data alle nostre esistenze quando viene esposta alla pura forza della vita.

Aschenbach non sarà mai così artista come quando morirà in spiaggia col trucco disfatto di un gagà, le braccia tese verso Tadzio immerso in acqua. Quella maschera che cola siamo noi, tempo che sfugge mentre ci protendiamo verso una promessa di giovinezza eterna. Una lotta segreta che si ripete, che la promessa sottesa a ogni estate incarna ancora e ancora, e che al fondo esprime anche la tensione d’ogni vera esperienza artistica ed emotiva, giacché la conoscenza vera è sempre un sacrilegio, notava Nietzsche, un’empietà sacra, maledetta e necessaria, la rottura d’ogni schema che già abbiamo imposto, con eroismo o ottusità spaventata, alle infinite terribili possibilità. Per questo anche i vecchi sono partiti senza averlo fatto, giacché la vecchiaia è lo stato più schematico e vigile dell’esistenza, teso a difendersi in un’unica traiettoria prefissata, e a un certo livello non coincide con l’età anagrafica, è una disposizione spirituale.

Esiste categoria più ferocemente conservatrice di certi insegnanti di lettere, le cui proposte oscillano tra classici sventolati con snobismo provinciale, mummificati, e bestseller impegnati ma che non hanno mai letto per conto proprio Cortazar, Wallace, Plath? Non sono meno rattrappiti gli adoratori ruffiani della giovinezza, gli intellettuali che corteggiano le onde e le mode sui social, altro camuffato maquillage, altro spaventato trucchetto retrospettivo. Non è così che si resta, che si torna dolorosamente giovani.

Il rischio autentico, ciò che Tadzio indica all’orizzonte sull’Adriatico, è infinitamente più vasto. Ogni profonda esperienza artistica è al contempo un balzo verso l’ignoto di nuovi alfabeti, pulsazioni, gioie e dolori, e proprio per questo il ritorno a qualcosa che già segretamente conosciamo, che ci fa riscoprire connessi ai linguaggi che, già in passato, hanno esposto chi ci precede nella lunga processione comune al medesimo rischio e turbamento. C’è una visione nel racconto di Mann, “un’avventura del corpo e dello spirito” che non compare nell’adattamento cinematografico di Visconti, che pure aveva pensato di ambientarla in un bordello.  “Regnava la notte e i suoi sensi erano all’erta; poiché da lontano si avvicinava un fragore, un tumulto, un miscuglio di rumori -: strepiti, squilli e sordi boati, acute grida di giubilo e un rullio particolare fatto di lunghi uuuuu strascicati – il tutto inframezzato e talvolta coperto in modo atrocemente soave dalle note di un flauto gravi e perturbanti. Ma lui conosceva una parola, oscura, ma che designava colui che stava per giungere. Il dio estraneo.”

Sono parole che si potrebbero applicare senza modificarle d’una virgola a un rave. Lo scrittore Di Vita si è visto dare del “drogato” perché sosteneva che un festival tekno può essere struggente come una sonata di Debussy. Mann, facendo tremare il vecchio venerato scrittore nell’orgasmo di un Baccanale in sogno, raccontava già che l’arte vera, la giovinezza, sconvolge i conforti delle nostre tiepide riposanti misure uccidendo noi e ciò che sappiamo di essa. Non occorrono pepli e corone di foglie, sarebbe troppo facile, l’ennesima imbalsamazione. Il dio estraneo non smette di farci cenno nella notte.

 

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2 commenti

  1. Buongiorno l immagine che accompagna l articolo è un disegno di Fabio Rieti ?
    Se si dove posso trovare tutti i disegni che Rieti ha fatto per e sul film ? Grazie
    Francesca Zurlini

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Autore

rialti@minima.it

Edoardo Rialti scrive per “L’Indiscreto” e “Il Foglio”. È traduttore per Mondadori delle opere di R. K. Morgan, G. R. R. Martin, J. Abercrombie. Ha curato opere di Shakespeare, Wilde, C. S. Lewis. È autore delle biografie letterarie di C. Hitchens e J. R. R. Tolkien.

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