
Questo articolo è uscito su La Stampa, che ringraziamo
di Nicola Lagioia
È il 1939. L’Europa è ancora in pace. La vita a Varsavia scorre placida e felice. Ma all’improvviso la gente si ferma per strada. Occhi sgranati, bocche spalancate. Cosa ci fa Adolf Hitler, qui, nel 1939? E perché è tanto interessato alla vetrina di una salumeria? Non è forse vegetariano? Una piccola folla si stringe intorno all’inquietante figura. Poi una bambina si avvicina al dittatore, allunga carta e penna e gli chiede un autografo. Soltanto allora lo spettatore comincia a sospettare che nulla di ciò che ha visto è come sembra. L’inquietante apparizione non è il cancelliere tedesco a Varsavia (o almeno, non ancora) ma il signor Bronski, l’attore di una compagnia di teatro locale. Travestito da Adolf HItler, sta preparando una commedia che prende in giro il nazismo e se ne va tranquillamente a zonzo senza passare dal camerino per cambiarsi d’abito.
Comincia così Vogliamo vivere!, capolavoro di Ernst Lubitsch, girato nel 1943, in piena guerra, il che lo rende ancora più geniale. Ricordo la prima volta vidi questo film meraviglioso. Era il 1999, ero da poco arrivato a Roma, avevo l’abitudine di rifugiarmi per ore nei cinema d’essai allora attivi nella capitale. Ogni giorno vedevo un paio di film (era anche il tempo in cui leggevo venti libri al mese). Fu e un periodo di impetuosa crescita intellettuale, sentimentale, spirituale. Qualche anno prima abitavo a Bari, non potevo definirmi un cinefilo. Avevo visto Pulp Fiction, ed ero uscito ingeunamente esaltato dalla sala pensando che Tarantino fosse un mezzo genio. Solo davanti a Vogliamo vivere! cominciai a capire che l’altra metà del suo talento consisteva in una forma aggiornata di furto con destrezza. Quale artista non è anche un ladro? John Travolta e Samuel L. Jackson che entrano e escono dai personaggi devono tanto a Vogliamo vivere!, così come il montaggio destrutturato di Tarantino (scoprii una settimana dopo, in un altro cinema d’essai) era preso di peso da Rapina a mano armata di Stanley Kubrick.
Capire che nel mondo del cinema (come in tutte le arti) niente nasce da niente ma è tutto un passarsi di mano una fiaccola scintillante non minò la mia sospensione di incredulità, la arricchì. I registi da me amati – lo riscontravo ogni settimana guardando le nuove uscite – rubavano il fuoco agli dèi per illuminare i panorami del presente. Ma quando e come quel fuoco era divampato la prima volta? Questo, invece, lo scoprivo quotidianamente nei cineclub.
Ho avuto una giovinezza fortunata. Molte di quelle sale hanno iniziato presto a scomparire. Una forza violenta e idiota le ha chiuse una dopo l’altra. Ora ne restano pochissime. Una città senza cinema che proiettano i classici è come un mondo senza biblioteche, eppure è il contesto in cui viviamo. C’è così da salutare con gratitudine “XX secolo. L’invenzione più bella”, la rassegna promossa da CSC – Cineteca Nazionale, con il sostegno del Ministero della Cultura e in collaborazione con Circuito Cinema, grazie alla quale 150 capolavori del Novecento stanno riempiendo la programmazione del Quattro Fontane a Roma. Il ciclo, curato da Cesare Petrillo, andrà avanti fino a fine giugno, ma l’augurio è che continui fino alla fine del XXI secolo.
Da Altman a Kubrick, da Truffaut a Lubitsch, da Zurlini a Wilder (che proprio di Lubitsch fu il più grande allievo) le opere in cartellone sono le tappe di un viaggio meraviglioso per chiunque ami la vita dopo che la pandemia ci ha tenuto fermi così a lungo. Cos’è il grande cinema, se non il tentativo riuscito di condividere sentimenti che resterebbero senza volto? E non è forse, il grande cinema in sala, la possibilità di condividere queste emozioni così intense con amici e sconosciuti?
Una mano che si posa sulla mia nel buio della sala mentre guardo La morte corre sul fiume di Charles Laughton. Il tuffo al cuore condiviso (percepibile proprio da una fila all’altra) durante i momenti più toccanti di Anna di Alberto Grifi. Una discussione furibonda all’uscita di Camille Claudel di Bruno Nuytten. Lo sguardo trasfigurato dell’amico con cui ero andato a vedere Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij. “Dio mio…”, si fece sfuggire in un sussurro. E io: “non eri ateo?”. E lui, preso a schiaffi dalle bellezza: “lo sono sempre, ma non al cinema”.
Ho molti di questi ricordi ancora intatti. Sono ricordi che lavorano per me, danno fiato al futuro, contribuiscono a proteggere la mia parte irriducibile. Sapere che i luoghi dove tutto questo può accadere sono aperti è motivo di speranza.
Nicola Lagioia (Bari 1973), ha pubblicato i romanzi Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) (vincitore Premio lo Straniero), Occidente per principianti (vincitore premio Scanno, finalista premio Napoli), Riportando tutto a casa (vincitore premio Viareggio-Rčpaci, vincitore premio Vittorini, vincitore premio Volponi, vincitore premio SIAE-Sindacato scrittori) e La ferocia (vincitore del Premio Mondello e del Premio Strega 2015). È una delle voci di Pagina 3, la rassegna stampa culturale di Radio3. Nel 2016 è stato nominato direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino.