foto di di Veronica Bassani

Gli anni Novanta italiani sono stati sicuramente un momento di grande creatività musicale se si pensa alla mole di produzioni dall’indie rock dei Csi, al post punk degli Afterhours e dei Marlene Kuntz passando per il post rock dei Massimo Volume e tutto il cantautorato pop che in oltre un decennio ha attraversato l’elettronica, il rap e infinite vie di sperimentazioni sonore.

Contestualmente alla scena musicale, quegli anni sono stati un lungo shoegaze collettivo, un’attitudine, tra distorsioni e introspezione, in cui hanno trovato terreno fertile figure chiave della musica nostrana.

Riccardo Sinigallia è probabilmente uno dei grandi protagonisti nati in quel fecondo momento, schivo artigiano della musica, ha surfato quegli anni fino ad oggi, in una carriera costellata da intuizioni che hanno sempre funzionato.

Quando penso a qualcosa che funziona naturalmente, senza troppe forzature, mi torna in mente Robert De Niro in New York, New York di Scorsese: “Il magico accordo è quando sei in sintonia con la vita, Francine, quando nella vita hai tutto quello che vorresti avere, tutto quanto: hai la donna che vuoi, fai la musica che vuoi e riesci anche a fare un po’ di soldi. Questo è il magico accordo”.

Riccardo Sinigallia il magico accordo sembra averlo raggiunto molte volte nella sua carriera di musicista e produttore. Re mida della musica italiana, Sinigallia è praticamente l’artefice di molte delle produzioni di maggior successo dell’ultimo ventennio.

Tra il 1997 e il 1998 arrangia e produce i primi due lavori di Niccolò Fabi, Il Giardiniere e l’omonimo album nonché disco d’oro; c’è la sua mano dietro alcune canzoni dell’album La favola di Adamo ed Eva di Max Gazzè,  è co-autore tra gli altri di Tiromancino, Frankie hi – nrg mc; produce l’album Non erano fiori di Coez e La fine dei vent’anni di Motta.

Con i Deproducers – progetto che lo vede coinvolto con Gianni Maroccolo, Vittorio Cosma e Max Casacci – realizza due colonne sonore, La vita oscena di Renato De Maria e Italy in a Day di Gabriele Salvatores, mentre la sua carriera da solista ha un andamento poco roboante ma tutt’altro che privo di sperimentazioni sempre diverse: dall’omonimo album del 2003 a Ciao Cuore (2018) è difficile parlare di uno stile di Riccardo Sinigallia, perché si va dal cantautorato al trip hop seguendo l’onda dell’elettronica, con un tratto che resta però solido e distintivo in tutti questi anni.

Scrittura raffinata, composizione attenta e sapienti mani sul mixer.

Ho incontrato Riccardo Sinigallia alla vigilia del suo concerto/evento A cuor leggero, che andrà in scena domenica 10 a cori (LT) nella chiesa di Sant’Oliva, all’interno della rassegna InKiostro. Al suo fianco, sul palco, il produttore musicale Marco Olivotto, in una performance di parole e musica che già nel 2019 è stata sperimentata con successo grazie all’intuizione dei ragazzi dell’associazione Uglydogs.

Domenica andrai in scena a Cori (LT) nella chiesa di SantOliva, con levento A cuor leggero, una performance che era stata immaginata e programmata nel 2020, allinterno di InKiostro – Rassegna di musica e scrittura,  prima che chiudessero il mondo causa pandemia. Puoi dare qualche anticipazione sullo spettacolo?

La cosa bella di questi incontri con Marco (Marco Olivotto, ndr) – ne abbiamo già fatti un paio mi sembra – è che nessuno sa bene prima cosa accadrà.

Ci sono alcune canzoni che posso suonare con la chitarra, lui le conosce, da lì prendiamo spunto per dialogare su argomenti più o meno adiacenti, dando sfogo al nostro reciproco narcisimo.

Ci sarà probabilmente anche Laura (Laura Arzilli, compagna di vita e di palco di Sinigallia, ndr) con la sua voce e con il basso che è ormai prosecuzione fisica della mia chitarra.

Le norme che hanno seguito questo particolare momento storico hanno cambiato le abitudini di tutti noi. È cambiato il tuo modo di vivere la dimensione del live? Cosa ricordi della prima volta che sei tornato a suonare dal vivo?

Mi ricordo una diversa rifrazione tra i musicisti e le persone in platea.

Nonostante distanziamenti e mascherine c’era un altro modo di rispondere alle vibrazioni e alle parole.

Voglio spiegarmi altrimenti sembra retorica.

Se canto una mia canzone in teatro,  in un club o ad una festa di piazza è netta, chiara, oggettiva la differenza dei livelli di risonanza tra parole, melodia, armonia e ritmo. E’ una differenza che io conosco bene e posso anche analizzare, addirittura gestire e potenziare in relazione alla location.

Il pubblico meno esperto in ogni caso la avverte, anche se non se ne accorge razionalmente.

In teatro la parola acquisisce un peso specifico maggiore rispetto alle altre  due ambientazioni che ho elencato, così come in piazza il ritmo e le pulsazioni avranno maggiore impatto rispetto al teatro, e non solo per questioni di volume.

Questo mi ha insegnato negli anni a confrontarmi con l’ambiente che mi circonda prima di suonare e di cantare. Le stesse canzoni generano percezioni, o addirittura interpretazioni diverse in relazione allo spazio e al tempo.

Il mio esempio si basa per lo più su un confronto con un ambiente fisico che influenza il coinvolgimento emotivo personale e di insieme.

Quella che sono abbastanza sicuro di avere percepito nel tour post pandemia è una diversa disponibilità nel coinvolgimento emotivo di insieme da parte di tutti i presenti nel confronto con un’ambientazione non più solo fisica ma anche storica, politica e soprattutto umana.  Necessariamente, nuovamente e  per certi versi  finalmente.

Veniamo da un periodo e tuttora viviamo giorni durissimi, forse anche prevedibili. Di fronte alla durezza, alle difficoltà e alle sofferenze di cui siamo testimoni qualcuno comincia a porsi diversamente, aprendosi alla possibilità di vivere il presente con maggiore cura, io ho forse sentito l’atteggiamento dell’inizio di questo risveglio. Potrebbe essere presto per dire se sarà un risveglio autentico, duraturo e benefico, c’è ancora scetticismo,  e per ora vediamo solo gli effetti negativi di quello che ci circonda.

Per qualcuno la scrittura di un testo è un processo dettato fortemente dallispirazione. 

Come nasce una canzone, per te? 

Quella che chiamiamo ispirazione o stato momentaneo di grazia è una sensazione fisica e mentale che ho provato,  potrei direi spirituale.

E’ innegabile che in alcuni momenti eccezionali si riesca a creare un rapporto  unico e molto stretto tra la persona che si è (ar)resa disponibile e la materia metafisica che finisce per diventare qualcosa.

E’ una parte della mia attività, forse la più magica e sorprendente.

Poi ce ne sono molte altre più o meno affascinanti  che comunque continuano ad appassionarmi.

Alcune di queste sono ovviamente più razionali e analitiche, altre ancora una volta istintive e prive di volontà o programmazione. Tutto quello che ha a che fare con la creatività sonora e poetica mi appassiona comunque ancora molto.

La forma e la sostanza.

Quali sono le canzoni che ti hanno entusiasmato già nel momento della creazione e quali, invece, quelle che ti sei divertito a produrre? 

Anche di questo probabilmente si parlerà con Marco perché è un argomento che credo gli interessi particolarmente.

Posso fare degli esempi pratici, canzoni come “Laura” sono state scritte quasi nel tempo della canzone stessa.. in cinque minuti. Anche “Niente mi fa come mi fai tu” come altre canzoni è stata scritta in tre minuti, ma poi per trovare l’ambientazione sonora che ritenevo soddisfacente ci sono voluti anni.

Poi ci sono invece composizioni che mi hanno impegnato per giorni, mesi, a volte per anni.

In qualche caso per il testo, in altri per la musica, a volte per la produzione o l’arrangiamento, oppure – come nel caso di “Che male c’è” perché non mi sentivo pronto ad affrontarle o a rappresentarle.

Quelle in cui sono maggiormente deresponsabilizzato e quindi mi diverto molto a cantare e a produrre sono le canzoni degli altri e quindi le cover come per esempio “Malamore” di Enzo Carella e Pasquale Panella,  o nonostante la complessità  “ Com’è profondo il mare” di Lucio Dalla, o anche quelle come “Le ragioni personali” o “Una rigenerazione” per le quali il mio apporto è stato sicuramente significativo ma che avevano già una sostanza e una forma molto precise quando Filippo Gatti le ha sacrificate per me donandomele.

A proposito di pop. 

Rob Fleming, in Alta Fedeltà di Nick Hornby, si chiedeva: Ascoltavo la pop music perché ero triste o ero triste perché ascoltavo la pop music?”

Appurato che il cantautorato pop ha abitato per lungo tempo soprattutto scenari languidi di tormenti amorosi e desideri non corrisposti, secondo te limmaginario di scrittura in questo genere musicale è cambiato, sta cambiando o i temi restano più o meno gli stessi? 

Molto bella la frase (sorride). E’ una domanda che ha un senso porsi. Amo il pop purché sia autentico o autenticamente corrotto.

Chi ha avuto la fortuna di vivere la musica negli anni 70 può comprendere che in Italia abbiamo avuto una profondità e varietà di proposte cantautorali come pochi periodi e luoghi della storia della canzone, forse nessun decennio come quello ha meravigliato per qualità, complessità e semplicità della proposta cantautorale. Ultimamente, dopo una brevissima illusoria folgorazione per un cambiamento – che poi si è rivelato più di comunicazione e di management che artistico – assisto a un ennesimo assopimento del linguaggio e della creatività, nonostante gli sforzi per apparire dinamici, diversi, competitivi e giovani,  le canzoni pop di oggi mi sembrano meno in forma di quelle che cantava Pupo…per non scomodare Celentano.

Si ripercorre l’atteggiamento di imitazione nei confronti degli artisti americani o inglesi. Si fanno metriche, basi e si inseguono ciecamente estetiche per reference, per delega, in franchising, nella ingenua convinzione di essere attuali, fichi, di successo.

Questa è un’ attitudine perdente che purtroppo dagli anni Cinquanta in poi ha sempre dominato i gusti del pop(olo) italiano, devastando nostra la cultura musicale e soprattutto i più grandi talenti del nostro paese che hanno dovuto smettere, fare altro, perché quei tarocchi fanno il mercato italiano e la critica li appoggia come fossero il male minore.

Per fortuna ci sono sempre dei rompicoglioni che si ostinano a fibrillare.

Il tuo nome è legato inevitabilmente a un momento preciso, gli anni Novanta, alla vogue dei suoi cantautori intimisti. Senza dover stilare il lungo elenco di canzoni che hai scritto per altri, ti chiedo come ricordi quegli anni e secondo te quando sono finiti davvero gli anni Novanta, concettualmente intendo, come stato mentale. (Temo che la mia generazione non ne sia mai uscita veramente. Mi incuriosisce conoscere la prospettiva dallaltra parte della barricata). 

(Sorride) Perché dall’altra parte?

Forse non ne sono uscito mai neanche io…

Anzi forse non sono neanche mai entrato totalmente…

Però capisco quello che intendi o per lo meno credo. In quegli anni – ad esempio per me il 94 è stato particolarmente intenso per diverse esperienze personali – abbiamo partecipato ad un piccolo cambiamento. Potrei usare dei simboli musicali per capirci. I dischi dei Portishead, Massive Attack, Bjork, alcuni dischi di rap, i rave, e in Italia gli Almamegretta, i C.S.I.,  i Sangue Misto – solo per citarne alcuni – ci hanno lasciato un segno. Anche quando qualcuno si riferiva ad una produzione straniera non si limitava a scimmiottarla ma la trasformava in una nuova, consapevole ed unica. Il successo piaceva a tutti ma non era la priorità assoluta, non era l’unico metro di giudizio, almeno per una parte viva del pubblico e per molti artisti. E questo non valeva solo per la musica, era intorno a noi.

C’è questo complicato, a volte quasi grottesco, cortocircuito tra concetto di popolarità e ammirazione per la cultura indipendente, per cui se una cosa è rivolta ad un pubblico più ridimensionato è più preziosa, esclusiva, ma allo stesso tempo, davanti a un artista che rappresenta una nicchia il suo stesso pubblico afferma quasi sempre: Uno degli artisti più sottovalutati della musica italiana. Merita sicuramente molto di più”.

Come vivi questa cosa, il concetto condiviso di sottovalutazione, in particolare?

(Ride) quante volte…!

E come posso viverlo, l’istinto è quello di spiegare molte cose,  poi mi rendo conto che sarebbe inutile, mi sono talmente abituato alle non opinioni che evito di arrabbiarmi. Poi mi occupo di musica e riesco a risolvere per conto mio e su questo e altri argomenti ho ormai smesso di combattere, li lascio stare,  ma quando penso a chi vive questi pregiudizi in ambiti più importanti come per esempio l’accoglienza o i diritti umani mi immedesimo un po’ e mi spavento.

Progetti futuri?

Ho fondato con Adriano Viterbini e Ice One un collettivo di improvvisazione chiamato ON.

L’improvvisazione è spesso abbinata a qualcosa di noioso per chi non la fa, nel nostro caso – pur ammettendo nel campo delle possibilità quella di annoiare – è una nuova forma di concerto che ha molto a che fare con gli argomenti spazio temporali e di attinenza di cui parlavo all’inizio dell’intervista. Mi entusiasma.

Alcune colonne sonore, sto imparando, devo imparare molto e studiare tantissimo ma anche questa è una sfida che mi ha ormai coinvolto.

I DeProducers, con cui mi accingo a comporre il quarto spettacolo (i precedenti: Planetario; Botanica e Dna, ndr).

E poi non so…

Una cosa che fai a cuor leggero. 

Meravigliarmi.

 

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gpborghese@minima.it

Giornalista, si occupa di teatro, viaggi e società. Collabora, tra gli altri, con le riviste Il Tascabile e CheFare.

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