Lo spazio, immaginarlo, attraversarlo, raggiungerlo. Lo spazio, abbracciarlo, lasciare che ti abbracci, che ti conforti, conquisti, che diventi parte di te e che tu sia parte di quel mondo vasto, di quel tempo che non scorre, ma accompagna le giornate e le stagioni, rimodula quello che sei, lo mischia con ciò che sei stata, che ti è appartenuto, che – suo malgrado – ti ha abbandonata. Lo spazio come riparo, lo spazio per superare il lutto. La terra, il bestiame, la campagna, la vegetazione che cambia, il caldo poi la neve, il West, la strada di tanti, la salvezza di molti. Lo spazio, ricominciare. Gretel Ehrlich incrocia il Wyoming che non ha ancora trent’anni, ci va per un documentario, purtroppo David, il suo compagno amatissimo, muore. Va via, ma poi, per i giri strani che la vita fa, per i segnali che manda, come l’invito di un amico, in Wyoming ci torna, ci resta e recupera – in quella sterminata terra – sé stessa e il senso dello stare al mondo, un senso nuovo, qualcosa di molto simile al respiro. Gretel ricomincia in un modo, un tempo e un luogo distanti da Santa Barbara, in California, dove è nata. Arriva che sa già cavalcare ma i cavalli in Wyoming sono altra cosa rispetto a quelli del sud-ovest, e diverse sono le persone, il modo di raggiungerle, di comunicare.

«È solo un gran vortice di vento e serpenti a sonagli, un vuoto che non raccapezzi più né da dove vieni né dove stai andando, e comunque sia non fa differenza».

Il conforto della vastità, questo il titolo del libro di Gretel Ehrlich, da poco uscito per Black Coffee (trad. Sara Reggiani), è scritto con una prosa nitida, a tratti lirica (l’autrice è anche poeta) i testi risalgono al periodo tra 1979 e il 1984, potremmo chiamarli racconti, potremmo chiamarli saggi, frammenti di un romanzo, di certo sono testi che ricompongono una parte del paesaggio americano insieme all’anima di chi lo attraversa, sceglie di rimanerci, lo fa proprio. Ehrlich quando perde il compagno ha una vita aperta, piena di possibilità, è nata in California da famiglia benestante, ha studiato a New York, lo scenario però cambia ma il campo del possibile non si esaurisce, soltanto si trasforma. La scrittrice si stabilisce in Wyoming e ci racconta quelle storie, da subito sue, perché il modo di stare nel territorio lo riconosce da subito, leggendola si capisce bene che è il Wyoming che la abita, prima ancora del contrario che stabilisce l’anagrafe. Lo spazio determina la residenza, registra i passi da quel momento in avanti.

«E ho visto centinaia di leggiadre antilopi spostarsi a sessanta miglia orarie, con la bocca aperta come a voler inghiottire tutto lo spazio».

Gli amici cercano di stanarla dicendole di smetterla di nascondersi in Wyoming, ma non è così, e i testi di Ehrlich lo spiegano bene, vivere lassù a nord-ovest è l’opposto di nascondersi, è la maniera giusta di mostrarsi, di riprendersi la vita. In queste pagine, che si leggono con grande rapimento, la scrittrice racconta di donne e di uomini, gente con cui ha a che fare dalla mattina alla sera. Persone che magari parlano meno di altre, ma che sanno dire quel che serve, disposte a farsi anche due ore di macchina per andare a cena da un amico. Ehrlich fa a pezzi anche un bel po’ di stereotipi, primo tra tutti quello che vorrebbe i posti come il Wyoming, luoghi da uomini; è palesemente il contrario, le donne di quelle terre sanno essere rudi, dure, tenaci, così come i maschi sanno essere teneri, dolci, arrendevoli. Allora via a cavallo, via ad aiutare chi è in difficolta, via a lavorare all’aria aperta dalla mattina alla sera, via a far nascere un vitellino, via a tergersi il sudore dalla fronte per il caldo, via a guardare l’incanto della neve che cade, via a spalancare le finestre all’alba, via a ravvivare il fuoco.

«Tutto in natura è un costante invito a essere ciò che siamo».

L’America è vasta, come ci ricorda anche il titolo di questo libro, la pace la si trova in tanti modi, così come la letteratura è fatta di tante cose. La scrittura di Ehrilch fa pensare facilmente ai racconti di Annie Proulx, ma anche per esempio alle poesie di Grace Paley, quelle scritte nel periodo in cui scopre il Vermont. In una poesia Paley rimpiange di aver scoperto troppo tardi la parola stormire, termine che non viene facilmente se vivi quasi tutta la vita a New York, e chissà qual è stata la prima parola che ha raggiunto Gretel Ehrlich quando ha deciso di restare in Wyoming, forse il verbo capire, forse il verbo ricominciare, forse il verbo spaziare.

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giannimontieri@minimaetmoralia.it

Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagioneAndrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia. Altre info qui: https://giannimontieri.wordpress.com/biografia/

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