
Non solo sfilate: la moda, quando diventa sistema legandosi ai meccanismi della pubblicità, costituisce la cifra del moderno. Scandisce il tempo e lo rende ciclico dettando i ritorni alle “stagioni della moda”. Inventa e scrive un linguaggio caricando di simboli i beni materiali. Si dà un’etica dell’entusiasmo e dell’industrializzazione dell’effimero – e la paga con la morte. Perché la moda vive della sua morte continua ed è per questo che la leggerezza di cui si traveste è fortemente ambigua. Ma è proprio di quest’ambiguità che si nutre tutto ciò che va di moda, in ogni aspetto della vita. Questi e altri temi sono affrontati da Franco La Cecla nel volume “La moda rende felici (almeno per mezz’ora)” che esce oggi per Milieu edizioni. Con un taglio originale, La Cecla racconta con ironia ed efficacia il nostro tempo: con questo libro scopriremo che i veri creativi, il vero motore della moda siamo noi, quando creiamo le tendenze, ne decretiamo la morte e la rinascita. Perché la moda ci rende felici. Ma solo per mezz’ora.
Proponiamo qui in anteprima un estratto dal volume.
di Franco La Cecla
L’idea che la moda sia la forma contemporanea dell’entusiasmo, una passione breve ma duratura, che costruisce la propria costanza sulla sua rapida obsolescenza – un’idea elaborata da Simmel, da Benjamin e ripresa da Roland Barthes – lega indissolubilmente la nostra concezione del tempo al sistema delle mode. In questa intuizione sono presenti due elementi opposti: il primo attribuisce la moda a una dimensione grave – morte e moda come due cose che si corteggiano il successo di una moda essendo legato alla sua morte prossima. Questa concezione potrebbe risalire al “Vanità delle vanità”, all’Ecclesiaste o al Qoelet e al suo grande cantore, fosse esso Salomone o uno scettico poeta ebreo. Ceronetti, che ci ha insegnato a porci domande sul significato letterale della parola vanità, dice che si potrebbe tradurre anche come “fame di vento”, insomma la vanità sarebbe un bisogno di qualcosa di imprendibile, ma anche di leggero, di impalpabile, di irrilevante. Per l’autore del Qoelet questo non implica un giudizio morale, ma piuttosto una visione generale della natura dei desideri umani e delle sue soddisfazioni. Per l’Ecclesiaste c’è un bene di cui godere in vita, ed è proprio la labilità di cibi, donne, vesti, musica, danza. Godere, per l’autore ebraico, significa godere dell’effimero.
Siamo lungi da una visione burbera e bacchettona. Da questo punto di vista la moda è antica, è la soddisfazione antica di beni effimeri. Nel momento in cui però la moda diventa un sistema, l’industrializzazione dell’effimero e la sua composizione con il sistema della pubblicità̀, questa leggerezza biblica vira in pesantezza morale. La moda vive della sua morte continua. D’altro canto, non è solo la moda che paga così la sua leggerezza. Si può dire che tutto il sistema del consumo e della produzione industriale si affacci al mondo accompagnato da un moralismo che esso stesso alimenta. È come se l’Ottocento producesse insieme al balzo industriale un pessimismo radicale sulla natura umana. E la sua ombra si allunga fino a noi.
Il secondo elemento è quello intuito da Benjamin. La fantasmagoria delle merci non è solo un imbroglio, un trucco del capitale per prendere in giro la stupidità umana, ma è nella natura stessa delle cose e degli oggetti, nel loro impossibile materialismo che li spinge immediatamente a caricarsi di connotati simbolici. La moda in questo senso è l’ambiguità̀ per eccellenza della leggerezza, che contiene in sé la caducità, ma anche il kairos, il tempo greco dell’opportunità̀, l’attimo propizio per godere. Oggi parlare di moda significa fare surf sulla cresta di questa ambiguità̀. Coloro che se ne occupano spesso dimenticano che il motore della moda non sono gli stilisti, ma gli anonimi fruitori che spesso diventano i veri creativi. Se non fosse così, tutte le collezioni e tutte le tendenze avrebbero successo, invece hanno successo solo quelle che si rifanno a derive reali della società̀ e della strada. Lo sanno bene i trend hunters che passano buona parte del loro tempo a spiare quello che accade nella società̀. Quello che Simmel, Benjamin e Barthes ci hanno insegnato è che la modernità̀ significa avere colonizzato tutto il tempo come tempo delle mode. Il sistema della moda è in questo senso un sistema che occupa il tempo e lo rende – come nelle culture primitive – un tempo ciclico. Le stagioni della moda hanno sostituito i ritorni, il ciclo stagionale e astrale delle culture tradizionali.
In questo senso è vero che la moda corteggia la morte, ma è anche vero che la vita corteggia la moda come ritmo, scadenza e ritorno.
L’espressione “la moda può rendervi felici per mezz’ora al- meno” non è un giudizio spocchioso, ma proprio l’evidenza che nella logica del provvisorio la moda è una forma di godimento certo, proprio per la sua brevità̀. Benjamin aveva già capito che prostituzione e moda erano profondamente interrelate. La prima racconta alla seconda un surrogato della soddisfazione a pagamento che libera la società̀ dal problema della durata. Nella moda il compratore si accontenta di una felicità intima e prezzolata che è tutta basata sulle apparenze. L’abito non fa il monaco, non cambia né il carattere né la condizione psichica, ma opera con l’efficacia di un mascheramento primitivo. Non fa il monaco, ma certamente provoca una ritualità̀ fisica che altera i caratteri del corpo nudo, eccita artificialmente il gioco delle membra. Chi indossa una maschera Iatmul o il costume di Oxun nel candomblé sa che quello che sta facendo non è senza conseguenze. Il costume, come la camicia indossata da Ercole, altera profondamente l’identità̀. Per questo il rito ha un inizio e una fine. E per lo stesso motivo finiscono le mode, ci si leva l’abito e lo si ripone via. Quella mezz’ora di spettacolo di sé però non è indifferente. E nel vestirsi e nell’indossare oggi c’è tutta la ritualità̀ dello specchio, dello sguardo altrui e del travestimento.
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente