
Di recente in alcune sedi (vedi qui e qui) ho scritto sul tema delle famiglie queer per sostenere le ragioni di una tesi che al momento incontra fortuna nel jet set culturale italiano – e questo è un bene, dato che i canali della cultura diffusa, per naturale inclinazione, giovano alla diffusione. La tesi è che la famiglia queer è un fenomeno antico, che per anzianità supera persino quella monogamica. E non si vorrà qui ignorare una prima obiezione, sostenuta con tanto di studi in primatologia, secondo cui la coppia monogamica mena vanto di veneranda età. In effetti, sarà bene precisare: la famiglia queer è più antica di quella monogamica fondata sull’amore romantico e sul vincolo di esclusività sessuale. Questa tesi, lo si ammetterà, è meno controversa. All’ulteriore obiezione sul termine “queer”, che certo è imberbe e perdipiù modaiolo, rispondo: sta qui il punto che vorrei sostenere in quel che segue. Per ora, tuttavia, emendo quanto scritto sopra: la famiglia estesa è un fenomeno antico, che per anzianità supera persino quella monogamica fondata sull’amore romantico e sul vincolo di esclusività sessuale. Suppongo che ora il consenso sia più solido e ampio.
La tesi che qui sosterrò con dissimulata leggerezza è duplice. Primo: è più che opportuno rivendicare l’uso del termine “queer”, ancorché inappropriato – o meglio, proprio perché inappropriato. Secondo: è un errore appuntarsi sul conflitto tra famiglie monogamiche e famiglie non-monogamiche (al di là dell’accattivante contesa su quale preceda quale), e per questa ragione l’uso del termine “queer” è a mio giudizio assai raccomandabile.
Senza dubbio “queer” non ha mai inteso velarsi di neutralità. Comprensibile quindi che possa mobilitare ritrosie in chi crede alla religione tramandata dei due sessi e dei due generi, oltreché della famiglia monogamica, che su questa differenza si principia per la perpetuazione dell’umanità. Ribadisco il punto col comodo ricorso all’ipse dixit. In Teorie queer. Un’introduzione, Lorenzo Bernini, riconosciutissimo esperto sul tema, scrive quanto segue: “‘Queer’ può essere […] considerato il contrario di ‘straight’, che vuol dire ‘dritto’, ‘retto’ e – dal momento che, in un regime di eterosessualità obbligatoria, l’eterosessualità è tradizionalmente associata alla rettitudine morale – anche ‘eterosessuale’. In italiano esso può essere tradotto con ‘storto’, ‘strano’, ‘strambo’, ‘bizzarro’, ‘bislacco’, ma equivale a insulti come ‘frocio’, ‘finocchio’, ‘culattone’, che in inglese possono però essere rivolti anche a una donna”. Da scrupoloso custode dei confini teorici, oltreché semantici, Bernini precisa poi che il termine non è utilizzabile per tutto e tuttə, perché l’uso più ristretto, e più fedele alla genesi del concetto, è teso a debilitare la rassicurante convinzione che il sesso sia questione ordinata e inequivoca, e quindi vuole richiamare la presenza di sessualità, generi e orientamenti di confine, sfumati, oppure chiaramente contrapposti all’ordine tradizionale del binarismo eterosessista. Insomma, “queer” ha una genealogia specifica, relativa a certi eventi storici e certe persone incarnate, che in qualche modo va rispettata.
Benché vero, a mio avviso, questo non restituisce il senso pieno della dimensione e della portata di un termine che, per studiata proclività, fa luce su qualcosa che non torna: “queer” indica che, nel meccanismo presunto oleato della socialità consolidata, qualcosa s’inceppa, salta, mostra segni di cedimento o quantomeno languisce. “Queer” dice in altri termini – termini civicamente poco lodevoli, se si vuole – che esiste un ordine delle cose rispetto al quale le cose fanno le bizze. A me convince, pertanto, la sua mobilitazione per lamentare l’inadeguatezza di detto ordine, il quale, per aderire all’imperativo dell’ordinare, forza le cose oltre misura. Nel caso delle famiglie non-convenzionali, che con ostentata tenacia definisco queer, sarà bene precisare che si tratta di configurazioni meno rare e curiose di quanto possa sembrare a chi l’assimila alle prime fantasiose traduzioni dei geroglifici per mano di Athanasius Kircher. Possono essere distinte in tre ampi gruppi. Un primo gruppo nasce da variazioni del matrimonio formale o dalla sua assenza, inclusi i matrimoni seriali (matrimonio-divorzio-matrimonio), la mono-genitorialità, assieme ai matrimoni e alle unioni tra persone dello stesso sesso. Un secondo gruppo emerge quale risultato di alterazioni del processo di riproduzione, quando la prole non è il prodotto dell’unione sessuale tra genitrici e/o genitori – incluse le famiglie che si formano per adozione o attraverso tecniche di riproduzione assistita. Un terzo gruppo deriva dalla formazione di legami elettivi che sono considerati simili alla parentela, in cui la filiazione non si fonda né sulla biologia né sul diritto.
Dinanzi a tanto ampia tassonomia, storce il naso sia chi ama la conservazione sia chi ama il progresso. Ci si chiede infatti: perché scomodare il “queer” se in molte di quelle configurazioni famigliari la posta in gioco non è la destituzione della cultura eterosessista e cisgender? La mia risposta è che “queer” ha un potere unico di destabilizzare una certezza che, ancora granitica, domina la concezione della famiglia nelle nostre latitudini socio-culturali, a dispetto delle varie alchimie con i colori dell’arcobaleno – la certezza cioè che la coppia monogamica fondata sull’amore romantico e sul vincolo di esclusività sessuale sia il perno di una struttura in cui tutto il resto è rubricabile, e più spesso derubricabile, come “non-convenzionale”. Il termine “queer” trae fuori dall’angusta nicchia del non-convenzionale e rilancia la questione quale vettore di un problema che reclama attenzione. Chiunque, quindi, vi faccia appello, lo fa come gesto impudente di lotta politica – non importa cosa “queer” venga a significare in quel contesto particolare. Su tale lettura eterodossa, dalla mia parte ho Eve Kosofsky Sedgwick, che nel saggio Queer and Now scrive: “[Rispetto ai più classici ‘gay’ e ‘lesbica’], il termine ‘queer’ pare fondarsi in modo assai più radicale ed esplicito su atti particolari e performativi di auto-percezione e filiazione sperimentali. E val la pena rendere esplicita questa ipotesi: alcuni significati decisivi si inverano quando ‘queer’ è declinato in prima persona. Un possibile corollario è il seguente: quanto occorre – tutto quanto occorre – per rendere vera la descrizione ‘queer’ è l’istinto a declinare il termine in prima persona”.
Oggi, quindi, le famiglie estese o allargate, che dir si voglia, sono famiglie queer, perché la loro richiesta è quella di un’attenzione che erode, poco o tanto che sia, il primato di un modello che da modello ha fatto per due secoli. E qui non c’è da inscenare titanomachie, perché non si chiede certo che la monogamia romantica venga meno come configurazione a sé, bensì che si smetta di utilizzarla a mo’ di metro per valutare le pretese e le pratiche di chi intende organizzare la propria vita famigliare in modo alternativo. Giova ripetere: la famiglia, e la parentela in genere, è il modo in cui si organizza quello speciale rapporto d’interdipendenza tra persone che condividono una parte rilevante della loro vita e si accordano sulla gestione orchestrata delle incombenze. Il sesso è tra queste, ma anche le bollette, l’acquagym della bambina e le vacanze del nonno, ché pure lui ha diritto a far vacanze; oppure l’affitto che sale o la semplice paura di rimane solə, che alfine è la più grande delle paure. “Queer” continuerà certo a significare anche un sesso irregolare, impudico, che collude con l’immoralismo, proprio perché non lo si potrà mai vincolare in modo perdurante ad alcun oggetto finito.
Ed è pur vero – aspetto sovente vittima di rimozione, anche tra chi esalta il queer – che alcune configurazioni famigliari prediligono il margine e non intendono cacciarsi nelle spire dell’irriconoscimento giuridico. Secondo costoro, è al contempo più dignitoso e premiante vivere la propria esistenza sociale senza aspirare alla legittimità, dignitosissima ma costosa, che offre il diritto dello Stato. A sbastirlo fino in fondo, questo filo mi tirerebbe per le vie irte della teoria sociale e giuridica, dove da un secolo e più si discute del problema di quanto la vita sociale, nella sua indocile pluralità, sia confinabile nelle categorie ferme e asfittiche del sistema giuridico. E del problema correlato, vale a dire se lo Stato debba riconoscere ogni fenomeno sociale per il solo fatto che esiste come fenomeno sociale. Il tema è spinoso, ma una risposta semplice, e credo ragionevole, può accennarsi nel modo che segue. No: né tutto ciò che esiste nella società può riflettersi nella legge statale, né per il fatto che esiste deve riflettersi in essa. La caratteristica genomica della vita umana è l’inestirpabile vocazione al differenziarsi, e quindi alla moltiplicazione dei modelli e delle forme; mentre la legge dello Stato, per quanto pluralista possa essere, pone un limite al novero delle possibilità. Lo Stato dovrà decidere cosa può farsi e cosa no – altrimenti non sarebbe Stato, né agli essere umani uno Stato servirebbe ad alcunché. D’altro canto, come s’è detto, l’idea di dover regolare per legge ogni fenomeno si scontra col desiderio di chi fieramente preferisce l’illegittimità, che è sempre anche coraggiosa illeggibilità, tendenza alla sottrazione, volontà di sfuggire a codici di traduzione facile ma potenzialmente infelice.
Quando però si produce uno stridore tra vita e diritto, che sa molto di transizione di fase, quello forse è il momento in cui lo Stato dovrebbe muoversi per evitare uno scollamento troppo profondo, per il quale, poi, il rischio concreto è quello di un non facile rammendo. Scrivo “transizione di fase” per indicare quel passaggio di stato dal liquido al solido che si manifesta come un brusco cambiamento di certe proprietà fisiche. D’improvviso, l’acqua si fa ghiaccio. Eppure, di brusco c’è poco, perché il raffreddamento che sopisce quasi del tutto l’agitazione termica delle molecole è progressivo, segue passaggi che via via possono isolarsi, e che nondimeno sfuggono all’occhio benché attento quando si guarda al processo nel suo intero. Fuor di metafora, governare l’agitazione di un ordine delle cose che si sogna sempiterno e si risveglia contingente presuppone la presa in carico delle pretese di chi se ne sente insoddisfattə. Prima che il diritto di famiglia si ritrovi tra le vestigia pur onorevoli di una società d’altri tempi, l’attività di sutura che la legge dovrebbe svolgere consiste nel fornire un qualche codice di dicibilità a chi invoca il “queer” per dire qualcosa che al momento è sprovvisto di parola.
Il fatto che, in termini giuridici, manchino concetti e categorie che in sociologia fanno quasi un ambito a sé dovrebbe risultare allarmante, anche agli occhi di chi ritiene che lo Stato abbia piena e totale facoltà di decidere sullo spettro dell’ammissibile e dell’inammissibile. Non si tratta, dunque, di riconoscere tutto ciò che esiste per il solo fatto che esiste – e quindi poco aiutano le callide obiezioni di chi addita i portati socialmente inintegrabili delle relazioni erotiche tra umani e animali e di chi canzona la poliginia di certe comunità islamiche o dei mormoni. Si tratta piuttosto di capire che queer è la controparte fonica, prima che semantica, di quello stridore che chiama alla presa in carico.
Un addendum gioverà a rintuzzare l’ulteriore obiezione, anch’essa sensata, di quanto male rischi di fare il riconoscimento giuridico a quelle configurazioni famigliari che, proprio perché intimamente queer, denunciano la vetustà dell’impalcatura giuridica nostrana. Se queste venissero riconosciute – recita l’obiezione – la loro carica erosiva verrebbe stemperata. Appunto, proprio come nella transizione di fase, tutto si fa liscia superficie ghiacciata, con la legge statale a fare da regina d’inverno. La risposta che qui solo accenno è che, all’opposto di chi nel diritto vede un portentoso abbattitore di temperatura, i modi del riconoscimento giuridico sono molti. Inutile qui menzionare la messe di studiosə che lavorano in tal senso. Molto meglio sintetizzarne l’idea condivisa, al netto delle divergenze sui pur dirimenti dettagli: si raccomanda dismettere le categorie rigide del matrimonio e della filiazione, per come oggi codificate, e pensare a una policromia di modelli giuridicamente codificati. Così, non obbligare i membri delle configurazioni famigliari a imboccare il sentiero a due del matrimonio e a far propri i valori associati che tradizione comanda. All’opposto, garantire strumenti con cui i membri delle diverse configurazioni famigliari possano descrivere il loro modo d’organizzazione, determinare da loro l’assegnazione di obblighi e responsabilità, disegnare le loro gerarchie di ruoli e valori – con lo Stato che certo non fa da notaio silente, ma vigila sulla tenuta dei rapporti e sugli squilibri che ovunque s’infiltrano. Tutto questo è non solo realizzabile, ma garantirebbe la felice e fruibile esplosione del vocabolario con cui diciamo pubblicamente i nostri amori e prefiguriamo gli inceppi cui sempre essi preludono. Questa è forse la migliore definizione del significato del termine “queer”.
Mariano Croce insegna Filosofia politica presso Sapienza Università di Roma. Si occupa di critica sociale, postcritica, battaglie LGBTIAQ+ e politiche della trasformazione sociale.