
Nuovo appuntamento con la rubrica a cura di Anna Toscano. Dieci domande a poetesse e a poeti per cercare di conoscere i loro primi avvicinamenti alla poesia, per conoscere i loro albori nella poesia, quali siano stati i primi versi e i primi autori che li hanno colpiti, in quale occasione e per quali vie, e quali i primi che hanno scritto. Le altre puntate sono qui.
Qual è la poesia che hai incontrato, e quando, che ti ha fatto pensare, per la prima volta, che fosse qualcosa di fondamentale?
Alle elementari la maestra ci fece leggere una poesia che lasciò in me un segno molto forte: era breve, tragica e tagliente, e raccontava di un fratello aviatore morto in Spagna. Ne ho conservato sempre l’impressione, ma senza ricordarne l’autore, che credevo spagnolo, e senza ritrovarne il testo, né per caso, né quando, e capitava periodicamente, mi impegnavo a darle la caccia. C’erano, in quei versi di cui avevo perso le parole, una rivelazione e assieme un senso di esclusione. Solo un paio di anni fa, durante un esame di stato al liceo linguistico, la poesia è rispuntata: era Mio fratello aviatore di Brecht. Dentro quella fossa ho trovato per la prima volta la poesia.
Qual è il primo autore o autrice che ti è rimasto/a in mente come poeta?
Nell’antologia delle medie c’era qualche pagina dedicata ai crepuscolari: erano riportati alcuni versi tratti da La Signorina Felicita di Gozzano e Per organo di Barberia di Corazzini. Mi riconoscevo in entrambi: nell’ironico disincanto dell’uno e nel dolente ripiegamento dell’altro. Quei loro nomi stranamente allitteranti non li ho più scordati.
C’è stata una persona o un evento nella tua infanzia, o giovinezza, che ti ha avvicinato alla poesia? Chi era? Come è accaduto?
Più che una persona o un evento citerei un luogo: la scuola. Ho avuto diverse maestre e professoresse, ma la poesia è stata una costante della mia esperienza scolastica, anche attraverso esercizi di scrittura che per me rappresentavano un grande divertimento, soprattutto per la ricerca delle rime. In occasione della festa della mamma del 1989 scrissi un lungo testo in distici in rima baciata che mia madre conserva ancora e che immagino abbia divertito, a suo tempo, anche lei («ha i capelli rossi e neri / come il vestito dei carabinieri. // D’inverno fa vestiti a maglia / sempre della sua taglia»). Chissà che alla base della passione per la poesia non ci siano anche le filastrocche ascoltate da bambini, e dunque un senso ritmico e fonico.
Quali sono i primi libri di poesia che hai cercato in una biblioteca o in una libreria?
Il mio primo acquisto fu l’edizione Newton & Compton di Tutte le poesie di Gozzano, che era curiosamente preceduta da un’introduzione di Giacinto Spagnoletti piena di acrimonia verso i poeti crepuscolari (servì senz’altro a riconoscermi in loro). Nello stesso periodo e nelle stesse edizioni economiche recuperai anche il Canzoniere di Petrarca e un’antologia di Ungaretti, ma li lessi in modo irregolare. Al primo anno di università frequentai un corso di Mengaldo su Montale, che aprì tutte le altre porte della poesia del ‘900.
Il primo verso, o la prima poesia, che hai scritto e che hai riconosciuto come tale: quando è stato e in quale circostanza?
Al di là degli esercizi scolastici, scrissi la prima poesia a 12-13 anni. Si trattava di una specie di tirocinio pascoliano intitolata Fine e impregnata di una generica malinconia adolescenziale. Poi per anni ho composto in inglese testi di canzoni, a centinaia, e durante l’ultimo anno di liceo ripresi coi versi in italiano. Tutto passava, come forse è naturale, attraverso l’imitazione; c’era il bisogno di “rifare il verso” a ciò che mi piaceva, a volte anche con tratti parodici.
Quando poi i versi sono arrivati copiosi, quali sono stati i tuoi pensieri?
Fino a 19 anni ho scritto su quaderni, poi al pc, e ricordo l’apertura quasi quotidiana delle pagine o dei file come un piacere: entravo nella dimensione in cui potevo esprimermi con più libertà e sentirmi più a mio agio. Tuttavia è rimasto a lungo, assieme a quell’intimo godimento, un senso di imbarazzo, se non di colpa, perché tutto quel tempo dedicato all’esercizio solitario della scrittura mi sembrava anche, forse per un retaggio ambientale, una sottrazione alla vita.
Quando hai avuto tra le mani le tue prime poesie pubblicate, cosa è accaduto?
All’ultimo anno di liceo, nel 1999, vinsi un concorso di poesia per studenti dedicato a Giuseppe Berto. Il titolo della silloge, Solo poesia e approssimazioni per difetto di quotidiana felicità, era un modo ironico per schermirsi: in effetti molti tra amici, compagni, professori e familiari che lessero quei versi (uscirono pure sul quotidiano locale) mi chiesero ragione della loro tristezza. Ero dunque felice per il riconoscimento, ma provavo anche disagio e un certo energico dispetto per il fatto di dover giustificare quanto avevo scritto e spiegare che quelle parole mi corrispondevano in un modo diverso da come tutti credevano. Se avessi conosciuto Pessoa, avrei citato i suoi versi, secondo cui il poeta è «colui che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente».
La poesia per te è più di una fede o quasi una fede?
A dire il vero ho sempre collegato la poesia all’infedeltà: ti viene a visitare a suo piacimento, spesso lasciandoti a lungo solo, e tu di contro hai bisogno di abbandonarla e tradirla continuamente per riuscire a darle la forma migliore. La categoria della fede ha un sapore orfico eccessivo; mi limiterei a parlare di una passione tanto forte da dover essere intermittente, oltre che non sempre corrisposta.
La poesia inizia?
Sì, ci deve essere una miccia a innescarla, e perciò credo che sia importante continuare a proporla a scuola, come la filosofia, cosicché tutti abbiano la possibilità di conoscere un linguaggio e uno sguardo sul mondo prezioso proprio perché sempre più inattuale.
La poesia finisce?
Ogni aspetto del mondo contemporaneo sembra congiurare in questa direzione. La poesia ha bisogno di tempo vuoto, capacità di osservazione, raccoglimento, silenzio, attenzione data al mondo e non soltanto a sé, amore per le cose. L’era della distrazione e dell’informazione ne è un costante boicottaggio, e vedo anche in me il rischio di non vedere più ciò che ho attorno. In compenso la poesia ha sempre dato voce alle cause perse: saprà, credo, difendersi e resistere fino all’ultimo.
Anna Toscano vive a Venezia, insegna presso l’Università Ca’ Foscari e collabora con altre università. Un’ampia parte del suo lavoro è dedicato allo studio di autrici donne, da cui nascono articoli, libri, incontri, spettacoli, corsi, conferenze, curatele, tra cui Il calendario non mi segue. Goliarda Sapienza e Con amore e con amicizia, Lisetta Carmi, Electa 2023 e le antologie Chiamami col mio nome. Antologia poetica di donne vol. I e vol. II. Molto l’impegno per la sua città, sia partecipando a trasmissioni radio e tv, sia attraverso la scrittura e la fotografia, ultimi: 111 luoghi di Venezia che devi proprio scoprire, con G. Montieri, 2023 e in The Passenger Venezia, 2023. Fa parte del direttivo della Società Italiana delle Letterate e del direttivo scientifico di Balthazar Journal; molte collaborazioni con testate e riviste, tra le altre minima&moralia, Doppiozero, Leggendaria, Artribune, Il Sole24 Ore. La sua sesta e ultima raccolta di poesie è Al buffet con la morte, 2018; liriche, racconti e saggi sono rintracciabili in riviste e antologie. Suoi scatti fotografici sono apparsi in guide, giornali, manifesti, copertine di libri, mostre personali e collettive. Varie le esperienze radiofoniche e teatrali.