Il titolo potrebbe trarre in inganno. L’ultimo libro della giornalista e scrittrice svedese Ia Genberg, baciato in patria da uno straordinario successo e insignito del premio August e del premio Aftonbladet, non ha un tocco minimalista, non si concentra sulle piccole cose né è angustiato in limiti imposti di tempo e di spazio, ma si misura con lo scorrere impossibile (da contenere in un racconto) di una vita, con il suo infrangersi sulle vite altrui e con la capacità di decifrarne la natura proprio a partire dalle relazioni con l’altro. Certo, occorre abbassare le difese per permettere alle fondamenta del proprio sé di riemergere con chiarezza, ci può essere bisogno per esempio di rimanere bloccati a letto dalla febbre, come accade alla protagonista, e accettare “di avere il passato sempre tra i piedi” per qualche giorno. “La vita mi ha regalato la mia buone dose di magia, e il più delle volte è successo nell’incontro con gli altri”, scrive Genberg, e allora il racconto si snoda in quattro parti corrispondenti ad altrettante figure essenziali per chi narra, figure con cui non è più possibile mettersi in contatto, irrimediabilmente destinate ai cassetti della memoria.

Innanzitutto Johanna, un’ex fidanzata che sembrava destinata a rimanere per sempre, con la sua testardaggine nel non lasciar nulla a metà, nemmeno un brutto libro, ma poi rivelatasi capace di volare via senza pentimenti verso le altezze a cui ambiva, il riconoscimento, la fama, la presenza fissa in radio e in televisione. Poi Niki, un’amica con il potere di trasformare il bene in male e l’amore in odio nel volgere di una notte, una donna incapace di controllo e senza un pizzico di talento nella difficilissima arte della sfumatura. C’è l’amore travolgente e irrazionale per Alejandro, inafferrabile musicista-performer di cui non si hanno informazioni certe, neanche riguardo il suo nome. Ed infine Birgitte, la figura più fragile e dolente delle quattro, che rende l’ultima parte del libro una magistrale dimostrazione di come la letteratura sia il terreno privilegiato dove venire a patti con l’istituzione che ci tiene in ostaggio sin dal nostro primo vagito, la famiglia naturalmente.

Dopo l’assurdo walzer degli addii, ognuno dei quattro personaggi trova il modo di rimanere nella vita della protagonista in tracce tanto inconsapevoli quanto indelebili. In questo senso, l’assenza della persona amata non è mai percepita come un vuoto, semmai come il suo esatto contrario: “forse è così che si può descrivere la pienezza, persone che entrano ed escono attraverso i miei occhi senza ordine né gerarchia”. La protagonista racconta le persone che ha amato per parlare di sé o racconta di sé per parlare delle persone che ha amato? La prosa fluida, intima e raffinata e un tempo della narrazione tutt’altro che lineare non aiutano a venire a capo della questione, ma ci indicano come chi abbiamo amato contribuisca a modellare quello che chiamiamo io, “che non è altro che questo: ciò che resta delle persone a cui ci siamo stretti”, ma per rendercene conto abbiamo spesso bisogno di inezie, una canzone dimenticata, un vestito bizzarro o una dedica ritrovata su un vecchio libro di Paul Auster: ecco, i dettagli del titolo trovano un senso in questi avvallamenti del racconto, negli istanti di grazia febbrile in cui scorgiamo una direzione all’interno del caos (“Viviamo così tante vite dentro una vita sola, vite più piccole con persone che vanno e vengono, amici che spariscono, figli che crescono, e io non sono ancora riuscita a capire quale sia quella che le abbraccia tutte quante”).

Sullo sfondo ci sono anni che confluiscono in decenni e secoli che si passano il testimone in modo artificioso (ricordate l’atmosfera trepidante e illusoria prima del capodanno del Duemila? Genberg la racconta come se avesse in mano una speciale cinepresa VHS in grado di riprendere le nostre ansie più recondite), c’è una Stoccolma fatta di appartamenti condivisi in cui allenare la propria arte retorica o piccoli caffè dove guardarsi negli occhi senza sentire il bisogno di misurare il tempo, ci sono gli ideali dei padri ormai sul viale del collasso, pronti a lasciare il campo all’individuo della società capitalistica, e la strenua resistenza dei cercatori di bellezza che conoscono la magia del quotidiano.

I dettagli sa catturare il vociare aggrovigliato dalle affinità elettive, gli ineludibili rapporti di potere all’interno di una coppia, la paura di perdere l’amore e quella di perdersi la vita a causa dell’amore; contiene riflessioni sulla scrittura e sulla creazione (“tutti i miei tentativi di scrivere erano un inutile affannarsi per raggiungere qualcosa che ormai era perduto per sempre”), nonché sugli insondabili misteri della generazione e della genitorialità, in passaggi densi e commoventi. C’è tutto questo in un racconto lungo appena centoquaranta pagine.

 

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Autore

pierluigilucadei@minimaetmoralia.it

Pierluigi Lucadei, marchigiano, è nato a San Benedetto del Tronto nel 1976. Giornalista, critico musicale e scrittore, collabora con «Il Mucchio Selvaggio», ilmascalzone.it e «Rivista Undici». Suoi racconti sono apparsi sulle riviste «Cadillac» e «Achab». Ha pubblicato «Ascolti d'autore» (Galaad, 2014) e «Letture d'autore» (Galaad, 2016).

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