di Luca Todarello
«Desiderava tornare a Rio, lasciare quella città senza demoni che le offuscava la vista». La nervatura di Città senza demoni (Feltrinelli, € 17,00) – perché di nervatura bisogna parlare quando si affronta un’esistenza tormentata come quella di Clarice Lispector –, romanzo d’esordio di Roberto Francavilla dedicato alla grande scrittrice brasiliana, sta in nuce in queste poche ma potentissime parole.
Francavilla mette in scena una parentesi poco nota della biografia della sua protagonista, quella dell’esilio “dorato” a Berna tra il 1946 e il 1948, al seguito del marito Maury, diplomatico brasiliano. Nella città elvetica Clarice, con due romanzi già all’attivo e il plauso della critica, precipita in una bolla perbenista, intrappolata tra apatia, rendez-vous consolari e una relazione coniugale rarefatta come l’atmosfera alpina che, invece di favorire, assedia la sua scrittura.
Forte della frequentazione di Lispector in qualità di traduttore di diversi suoi romanzi, Francavilla restituisce i motivi che resero sempre più opaca la luce dentro quella bolla e che attentarono duramente alla potenza scrittoria di Clarice. Ne risulta, come per sottrazione da un elegante gioco di rimandi all’opus lispectoriano, una narrazione ammaliante nello stile e parimenti inquietante nelle atmosfere se non, a tratti, seducente come la prosa stessa dell’autrice della Mela nel buio. Ma non si tratta di emulazione, Francavilla aggira i rischi della sovrapposizione affidandosi alla sua devozione letteraria verso un modello inimitabile e assurto negli anni a vero e proprio culto.
C’è l’erotismo sprigionato dai corpi, come nella scena del balletto di Kurt Jooss, al quale Clarice assiste sotto un turbamento non così involontario e c’è il meccanismo della trasfigurazione della carne, come nei ricordi della frequentazione a Rio con il poeta Lúcio Cardoso: visioni che prenderanno forma in diversi racconti e soprattutto nella Passione secondo G. H. (1964), capolavoro del Novecento sudamericano.
È la stessa Clarice, in un passo del romanzo di Francavilla, a dire infatti che per lei conta solo la geografia del suo corpo, non quella della città dalla quale esso tenta di divincolarsi. E c’è un’appassionata e sapiente orchestrazione del linguaggio, addomesticato secondo le regole dello stile lispectoriano: ne cogliamo un potente esempio quando Clarice spiega a Marcel, professore di filologia a Ginevra, che la sua lingua «è un cavallo, [che] appartiene a quella stessa razza ma corre e scarta in modo assai diverso. Si imbizzarrisce spesso, è abituato a galoppare nelle foreste, a vincere la sete del sertão, a lasciarsi ammaliare ascoltando certi suoni, di più, certe canzoni che in Europa non esistono».
Per rifuggire la noia e l’accidia che incombono sui giorni svizzeri, e soprattutto per cercare un suo luogo fuori dal tempo e dallo spazio, dove possa «provare l’ebbrezza di non abitare, di condurre un’esistenza che non prevedesse una tana», Clarice attraversa Berna a piedi, come una novella Robert Walser («Deambulando per la città, si chiede dove si trovino i sedici domicili, di cui le ha parlato a lungo Marcel, abitati nella sua topografia inquieta da Robert Walser»). Sono vagabondaggi sofferti e adombrati, distanti dalla curiosità del flâneur e riconducibili alla ricerca dei suoi “demoni”, di qualcosa che possa dare avvio al vero motore della fantasia di Clarice, il desiderio.
Zweig, Kafka, Cocteau, Valéry, il cinema degli anni Quaranta: sono solo una parte della nobile costellazione alla quale Clarice torna con regolarità e che Francavilla racconta con uno stile forte nel restituire il sottile confine tra la voglia di “esistere” della scrittrice e il baratro della depressione. Soprattutto, avvertiamo le oscure vibrazioni che avviluppano il processo compositivo di Clarice. A Berna, infatti, termina la stesura della Città assediata, che verrà pubblicato nel 1949: «Per tre anni aveva scritto il suo romanzo cancellandolo e riprendendolo ogni volta dall’inizio, riscrivendone parti, a volte, identiche a se stesse, nell’illusione di una catarsi. E il suo romanzo, allora, le appariva come un mostro multicefalo, ogni testa – come mozzata e separata dal resto del corpo – le sorrideva anche se privata della sua fisionomia».
Una storia di visioni oscure e di scrittura, una narrazione che porta direttamente nella terra di mezzo tra sogno e veglia, in quel territorio ignoto che in pochi, come Clarice Lispector, hanno saputo attraversare e trasformare in letteratura.
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