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di Vincenzo Corrado

C’è una regola fondamentale nel wrestling: tutto è finto, ma nulla è falso. È il concetto di kayfabe, la grande illusione che regge l’intero spettacolo. Gli atleti si insultano, si colpiscono, si tradiscono, ma fuori dal ring sono spesso amici, alleati, colleghi che costruiscono assieme la propria rivalità. Il pubblico lo sa. Eppure reagisce come se fosse tutto vero, si schiera, si appassiona, si indigna.

La Zanzara di Giuseppe Cruciani e David Parenzo funziona nello stesso modo. È uno show radiofonico – ormai anche un colosso del podcasting, incoronato come il più ascoltato in Italia su Spotify – che vive di scontri, provocazioni e ruoli ben definiti. L’elettore di destra che urla contro il comunista, l’ambientalista che insulta il negazionista climatico, il No Vax che sbraita contro il sistema. Come nel wrestling, le identità sono scolpite nel marmo: i face e gli heel, i buoni e i cattivi. E, soprattutto, il pubblico che alimenta il gioco, che partecipa all’illusione anche quando sa che è una recita.

Il wrestling è uno spettacolo antico, radicato nella cultura popolare americana, dove la verità e la finzione si mescolano fino a diventare indistinguibili. E lo stesso accade con La Zanzara, che è riuscita a trasformare il dibattito radiofonico in un format che sta al giornalismo come il wrestling sta allo sport. La notizia è solo il pretesto per il combattimento, il microfono è il ring, le telefonate degli ascoltatori sono le sediate sulla schiena che servono a far salire la tensione.

E Cruciani? È il Vince McMahon della radio italiana, il patron che decide chi va over, chi è destinato a fare da jobber e chi deve restare al centro della scena. Ha creato un mondo dove l’opinione conta meno del personaggio che la esprime, dove il contenuto è spesso secondario rispetto al tono con cui viene urlato. Il pubblico lo sa, eppure resta lì, fedele, pronto a indignarsi e a tornare il giorno dopo per indignarsi di nuovo.

Ma come siamo arrivati a questo punto? Come siamo passati dall’informazione alla lotta libera verbale? Per capirlo, dobbiamo partire dalle fondamenta del wrestling, dalla sua struttura narrativa, e poi ritrovare gli stessi meccanismi nella trasmissione che da anni ridefinisce il confine tra talk radio e puro spettacolo.

Il wrestling è, prima di tutto, una storia. I lottatori sono attori di una narrazione continua, fatta di rivalità costruite e colpi di scena studiati. La verità è un concetto elastico, che si piega alle esigenze dello spettacolo. Ecco perché nel wrestling esiste una parola chiave: kayfabe. È il principio che regge tutto. Vuol dire accettare la finzione senza mai dichiararla apertamente. Pensiamo a un match tra John Cena e The Rock. Tutto è già deciso, le mosse sono coreografate, eppure il pubblico impazzisce come se fosse una battaglia vera. La kayfabe funziona perché tutti fingono di credere alla storia. Senza questa sospensione dell’incredulità, il wrestling si sgretolerebbe.

Ora, prendiamo una puntata de La Zanzara. Un ascoltatore chiama e dice che il Covid è stato inventato per controllarci, che il governo ci spia con il 5G, che le scie chimiche esistono. Parenzo lo interrompe, lo provoca, lo spinge a dire qualcosa di ancora più assurdo. Cruciani lo lascia parlare, lo incalza, magari lo asseconda con ironia. E l’ascoltatore? Va avanti, alimentando il suo personaggio, perché sa che è quello il gioco. Il pubblico, intanto, si divide: c’è chi ride, chi si scandalizza, chi si arrabbia sul serio.

È il kayfabe della radiofonia. Chi partecipa a La Zanzara – conduttori, ospiti, ascoltatori – sa che il programma vive di esagerazione e teatralità. Eppure, come nel wrestling, nessuno rompe mai davvero la magia. Nessuno dice: “Questo è solo intrattenimento”. Si lascia tutto in sospeso, così chi vuole credere ci crede e chi non ci crede può comunque godersi lo spettacolo.

Heel e Face

Nel wrestling ci sono due archetipi fondamentali: i face, i buoni, quelli che il pubblico ama e sostiene; e gli heel, i cattivi, quelli che vengono fischiati, insultati, e che esistono proprio per far risaltare gli eroi. Senza un heel convincente, un face non funziona. Non puoi avere Hulk Hogan senza Andre the Giant, non puoi avere Steve Austin senza Vince McMahon.

E in La Zanzara? Il meccanismo è lo stesso. Cruciani si muove costantemente tra i due ruoli, a seconda della necessità. Se c’è bisogno di un heel, lo diventa: difende posizioni scomode, gioca con il politicamente scorretto, provoca fino al limite. Ma quando serve, può anche essere un face, quello che smaschera l’ipocrisia, che mette in difficoltà un ospite potente, che dice quello che gli altri non osano dire.

Parenzo, invece, è un heel puro. È il liberal fastidioso, quello che moralizza, che interrompe, che si indigna. Il pubblico lo ama o lo odia, ma non può ignorarlo. È il Ric Flair della situazione: elegante, verboso, provocatore, sempre pronto a mandare in bestia gli avversari (e gli ascoltatori).

E poi ci sono gli ospiti ricorrenti: i complottisti, i sovranisti, gli indignati, i radical chic. Ognuno con il suo ruolo ben preciso, ognuno funzionale alla dinamica dello show. Come nel wrestling, non è importante quello che dicono, ma il modo in cui lo dicono. Il tono, il ritmo, la capacità di accendere il pubblico.

Il risultato? Una messa in scena perfetta, dove tutto sembra spontaneo ma nulla è lasciato al caso. Come in un match di wrestling, lo scontro è studiato nei dettagli, ma ciò che conta è l’illusione del caos. Il pubblico deve credere che tutto possa succedere, anche quando ogni elemento è calcolato.

Ed è proprio qui che La Zanzara e il wrestling si incontrano davvero: entrambi non sono solo spettacoli, ma esperienze. Non ti limitano a raccontare una storia, ti trascinano dentro, ti fanno sentire parte del gioco. Un gioco che, alla fine, è molto più vero di quanto sembri.

La narrazione

Nel wrestling, un buon match non è solo una questione di tecnica. Un incontro può essere perfetto dal punto di vista atletico, ma senza la giusta costruzione narrativa, senza un vero conflitto tra i personaggi, il pubblico non si scalda. Servono tensione, ritmo, colpi di scena. Serve che uno dei due lottatori finisca a terra e sembri spacciato, per poi rialzarsi all’ultimo secondo e ribaltare tutto.

Se c’è un posto in Italia dove questa dinamica viene riproposta ogni sera, è La Zanzara. Cruciani e Parenzo non conducono semplicemente una trasmissione: mettono in scena un match dopo l’altro, una serie infinita di segmenti dove le opinioni sono pretesti per il vero spettacolo, che è il conflitto.

Giuseppe Cruciani è un brawler, uno di quei lottatori che non si preoccupano troppo della tecnica, ma puntano tutto sull’impatto. Il suo stile è aggressivo, diretto, sempre sopra le righe. Sa come alzare il ritmo, quando lasciare che l’avversario si scopra, quando affondare il colpo decisivo. Non si schiera mai apertamente, ma destabilizza, provoca, spinge chi gli sta di fronte a mostrarsi per quello che è.

David Parenzo, invece, è più simile a un technical wrestler, quelli che giocano di fino, che lavorano ai fianchi l’avversario con argomentazioni precise. Parenzo è fastidioso, invadente, incalzante. È l’heel che il pubblico fischia, quello che interrompe gli ospiti con la sua voce acuta, che porta chiunque sull’orlo di una crisi di nervi. Ma è proprio questo il suo ruolo: far perdere la pazienza agli ospiti, costringerli a sbagliare, metterli in difficoltà.

La loro dinamica funziona perché è complementare. Come in una coppia di wrestler perfettamente assortita – pensiamo a The Rock e Mankind ai tempi della Rock ‘n’ Sock Connection – uno porta l’energia, l’altro l’astuzia. Insieme, creano lo spettacolo perfetto.

I jobber

I jobber sono quei lottatori destinati a perdere. Servono a far sembrare più forti i veri protagonisti dello show, vengono mandati al tappeto rapidamente, senza troppe cerimonie. Poi ci sono i main eventer, quelli che invece reggono il peso della serata, quelli per cui il pubblico paga il biglietto.

Anche alla Zanzara ci sono due categorie di ospiti: quelli che vengono usati come carne da macello – il negazionista improbabile, l’ospite che non sa argomentare bene le proprie idee, l’ascoltatore che si lascia trascinare dalla rabbia – e quelli che invece sono veri e propri main eventer, capaci di reggere un confronto con Cruciani e Parenzo, di tenere il microfono in mano senza farsi dominare.

Pensiamo a personaggi come Vittorio Sgarbi o Daniele Capezzone. Loro non sono semplici ospiti, sono avversari di valore, capaci di rispondere colpo su colpo, di giocare il gioco con consapevolezza. Quando vanno in onda, la tensione è più alta, gli scambi diventano più serrati, il pubblico si infiamma. È come vedere due campioni sul ring: sappiamo che alla fine qualcuno vincerà e qualcuno perderà, ma il bello è tutto nel combattimento.

Le telefonate: il pubblico che sale sul ring

Nel wrestling classico, il pubblico è fondamentale. Può decretare il successo o il fallimento di un personaggio, può ribaltare le gerarchie, può trasformare un heel in face e viceversa. Ma è sempre parte dello spettacolo, reagisce, partecipa, alimenta il fuoco.

La Zanzara porta questo concetto ancora oltre: il pubblico non si limita a tifare, ma entra direttamente in scena. Le telefonate degli ascoltatori sono l’equivalente degli ingressi a sorpresa sul ring: possono essere momenti di puro caos, oppure segmenti perfettamente orchestrati per alzare la tensione.

C’è l’ascoltatore che chiama per insultare Parenzo, quello che difende Cruciani, quello che si lancia in un monologo surreale prima di essere brutalmente interrotto. Ogni intervento è un segmento narrativo, un momento che contribuisce alla costruzione dello spettacolo. Alcuni durano pochi secondi, come una mossa ben eseguita che manda al tappeto un avversario in un colpo solo. Altri vanno avanti per minuti, come un lungo match equilibrato, pieno di ribaltamenti di fronte.

Il risultato è che La Zanzara diventa una specie di Royal Rumble continua, dove ogni sera c’è qualcuno che entra sul ring, qualcuno che viene eliminato, e qualcuno che riesce a resistere fino alla fine, guadagnandosi un posto d’onore nello show.

Nel wrestling, tutto è spettacolo, ma il pubblico crede di avere il controllo. In La Zanzara, è lo stesso: gli ascoltatori pensano di essere protagonisti, ma in realtà sono solo pezzi di un puzzle più grande, che Cruciani e Parenzo compongono ogni sera con la precisione di due registi consumati.

Il pubblico

Nel wrestling professionistico c’è un concetto fondamentale: il pop. È il momento in cui il pubblico esplode di entusiasmo. Succede quando un lottatore amato compare a sorpresa, quando un ribaltamento improvviso cambia il corso di un match, quando la tensione accumulata per mesi in una rivalità si scarica in un solo istante. Il pop è il motivo per cui il wrestling esiste: senza il coinvolgimento del pubblico, lo spettacolo non funziona.

La Zanzara non potrebbe esistere senza la sua audience, ma non solo nel senso banale di “ascoltatori”. La Zanzara è costruita attorno alla reazione della gente, vive di polemiche, di commenti sui social, di telefonate in diretta che esplodono come un suplex ben assestato.

Nel wrestling ci sono due tipi di fan. Ci sono quelli che accettano la kayfabe, quelli che entrano nel gioco e tifano davvero per un lottatore, si indignano per le ingiustizie, festeggiano quando il loro beniamino vince. Poi ci sono quelli che sanno che è tutto finto, ma amano lo spettacolo lo stesso: guardano con distacco, analizzano, commentano, ma non smettono mai di seguire.

Il pubblico della Zanzara è diviso esattamente nello stesso modo. C’è chi ascolta Cruciani e Parenzo perché ne condivide le idee, chi li segue perché li detesta e spera di coglierli in fallo, chi partecipa per il gusto di vedere il caos in diretta. E poi ci sono quelli che, anche quando non ascoltano, sanno perfettamente cosa è successo nella puntata della sera prima, perché l’onda lunga dello show arriva comunque fino a loro, attraverso i social, le polemiche, gli articoli indignati.

Esattamente come nel wrestling, la reazione del pubblico è parte dello spettacolo. Se nessuno si indignasse per le provocazioni di Cruciani, se nessuno contestasse Parenzo quando moralizza, il programma perderebbe senso. Il loro ruolo è costruire ogni sera un’arena virtuale in cui il pubblico possa schierarsi e prendere posizione.

Nel wrestling esiste un altro concetto chiave: l’heat. È il calore del pubblico, l’odio che un heel riesce a generare. Quando un wrestler come Roman Reigns entrava nell’arena e veniva sommerso dai fischi, quello era heat. Quando un lottatore si prende il microfono e insulta la città in cui si trova, quello è heat. Oggi, il vero heat non si misura più solo nell’arena, ma online. I social network sono diventati il nuovo spazio in cui si stabilisce chi è over e chi no. Un personaggio può essere fischiato in TV ma amatissimo su X, oppure viceversa.

Ogni sera, dopo la diretta della Zanzara, sui social si scatena la battaglia. Chi ha detto cosa? Chi è stato umiliato? Qual è stata la provocazione più eccessiva? Cruciani e Parenzo non parlano solo a chi li ascolta in tempo reale, ma anche a chi li rielabora, li commenta, li trasforma in meme o in indignazione collettiva.

E qui arriva il punto più interessante: La Zanzara non è più solo un programma radiofonico, così come il wrestling non è più solo un evento sul ring. Sono fenomeni che vivono in tempo reale e in differita, che si nutrono della partecipazione attiva di chi guarda e ascolta. Il pubblico non è più passivo, ma parte della sceneggiatura. E il risultato è che lo spettacolo, alla fine, non finisce mai.

Zelensky e la Guerra in Ucraina

Se c’è un leader politico che ha saputo usare il wrestling come linguaggio, quello è Donald Trump. Non solo perché ha partecipato a WrestleMania 23 prendendosi il lusso di radere a zero il capo della WWE Vince McMahon in diretta mondiale, ma perché ha interiorizzato alla perfezione la logica del kayfabe.

Trump ha costruito la sua carriera politica come un wrestler costruisce il proprio personaggio: ha scelto un’identità chiara – il miliardario anti-establishment – ha creato rivalità mediatiche con i suoi avversari (da Hillary Clinton a Joe Biden), ha sviluppato slogan ripetitivi e facilmente memorizzabili (Make America Great Again è il suo “Austin 3:16”), e soprattutto ha fatto credere al suo pubblico che il mondo fosse diviso in due: da un lato lui e il popolo, dall’altro i nemici da abbattere.

È una dinamica identica a quella di La Zanzara. Anche lì ci sono ruoli fissi, anche lì ci sono nemici da smascherare e battaglie che si ripetono ogni sera, con nuove varianti e nuovi protagonisti. Anche lì la verità è un concetto malleabile, che può essere piegato alla narrazione.

Ma se Trump è il wrestler che ha dominato la politica americana con l’abilità di un veterano del ring, dall’altra parte c’è un altro leader che il wrestling lo conosce bene: Volodymyr Zelensky.

Zelensky, prima di diventare presidente dell’Ucraina, era un comico. Recitava in una serie TV dove interpretava un professore che, con un colpo di scena incredibile, diventava capo di Stato. Un babyface puro, uno di quei personaggi che il pubblico ama perché incarna il sogno dell’uomo comune che ce la fa.

Poi è arrivata la guerra, e Zelensky si è trasformato. Ha assunto il ruolo del lottatore che non si arrende mai, quello che subisce colpi devastanti ma continua a rialzarsi. Ha scelto con attenzione la sua estetica: niente più completi eleganti, solo t-shirt verdi militari e barba incolta, per dare l’idea di un leader che combatte in prima linea. Ha parlato con un linguaggio emotivo e semplice, costruendo la sua narrazione attorno alla resistenza di un popolo contro un invasore gigantesco. E il pubblico, ancora una volta, ha risposto. Perché la logica del wrestling – e quella della Zanzara – è sempre la stessa: serve una storia chiara, servono personaggi netti, serve un conflitto che possa essere seguito e tifato.

Nel wrestling le rivalità durano mesi, a volte anni. Ci sono storyline che si evolvono nel tempo, personaggi che cambiano allineamento, colpi di scena inaspettati. La guerra in Ucraina, per quanto drammatica e reale, viene raccontata dai media con le stesse dinamiche.

Putin è l’heel perfetto: potente, spietato, imperturbabile. Zelensky è il face che lotta con tutto quello che ha. E il resto del mondo si divide in tifoserie: chi supporta l’uno, chi l’altro, chi cambia idea a seconda di come evolve la narrazione. E in questo scenario, La Zanzara gioca un ruolo fondamentale. Perché è uno dei pochi luoghi dove il conflitto viene discusso in modo teatrale, provocatorio, senza filtri. Dove le opinioni si scontrano come wrestler sul ring, dove la narrazione viene continuamente ribaltata e reinventata. È il wrestling dell’informazione: feroce, eccessivo, eppure incredibilmente efficace.

L’inversione dei ruoli

Nel wrestling, i ruoli di heel e face non sono mai scolpiti nella pietra. Hulk Hogan, icona assoluta del bene negli anni ’80, è diventato il più grande cattivo della sua epoca quando ha fondato l’nWo nel 1996. Stone Cold Steve Austin ha fatto il percorso inverso: da ribelle solitario e antisistema, è stato trasformato dal pubblico nel volto positivo della WWE, nonostante il suo atteggiamento fosse tutto fuorché da eroe classico.

Anche La Zanzara gioca continuamente con l’inversione dei ruoli. Chi è il buono e chi il cattivo? Dipende da chi ascolta. Giuseppe Cruciani si presenta spesso come l’uomo controcorrente, quello che non si piega al pensiero dominante, il lottatore che non ha paura di andare contro il sistema. Per i suoi fan è un babyface, un volto positivo, perché rompe le regole del politicamente corretto. Ma per i suoi detrattori è l’esatto opposto: un heel, un provocatore, un avvelenatore del dibattito pubblico.

David Parenzo, invece, è un heel dichiarato. Il suo ruolo è chiaro: interrompere, moralizzare, fare il padrone delle regole. È lo heel manager che si fa odiare dal pubblico, come Paul Heyman in WWE. Il suo fastidio è la sua forza.

Nel wrestling, quando un lottatore esce dal personaggio e svela qualcosa di troppo sulla realtà dello show, si parla di breaking kayfabe. Succede raramente, e quando succede il pubblico si spacca: c’è chi apprezza la sincerità, e chi si sente tradito dall’illusione infranta.

La Zanzara è maestra nel giocare con questo concetto. Ogni tanto Cruciani finge di rivelare il trucco, accennando al fatto che il programma è puro spettacolo. Ma lo fa con la giusta dose di ambiguità, lasciando sempre il dubbio. Recentemente, con l’aumento delle critiche sul sessismo e sul linguaggio usato in trasmissione, Cruciani ha oscillato tra due posizioni: difendersi come un heel che dice “faccio solo il mio lavoro” e rilanciare come un babyface che combatte “contro la censura”.

Questa ambivalenza è il segreto del successo. La Zanzara è un’eterna Royal Rumble, dove chi viene eliminato può sempre rientrare, dove il pubblico fischia e applaude con la stessa intensità, e dove la verità è solo una variante della narrazione. Come nel wrestling, il trucco sta tutto nell’emozione che si riesce a generare.

Sappiamo che è finto, ma ci piace lo stesso

C’è un motivo per cui il wrestling continua ad avere successo anche nell’epoca della trasparenza assoluta, dei social che smascherano tutto, delle informazioni disponibili in tempo reale: la gente vuole credere alla storia. Sa che è finzione, ma la segue con la stessa passione. Perché? Perché ha bisogno di un luogo dove il caos è organizzato, dove il conflitto è gestibile, dove esistono ruoli chiari. Il wrestling è un mondo in cui, anche se le regole vengono infrante, sappiamo che alla fine ci sarà un vincitore e un perdente.

Lo stesso vale per La Zanzara. Chi la ascolta sa benissimo che è una messinscena, che gli ospiti vengono selezionati per creare scontri spettacolari, che Cruciani e Parenzo interpretano personaggi ben precisi. Eppure, si continua a seguirla. Per indignarsi, per ridere, per prendere posizione.

Nel 2024, in un’epoca di crisi della fiducia nei media, il successo di La Zanzara e del wrestling (anche in Italia la disciplina sta vivendo un periodo di rinascita) ci dice molto su come consumiamo l’informazione. Vogliamo storie, non solo notizie. Vogliamo personaggi, non solo opinioni. E soprattutto, vogliamo un’arena in cui schierarci, dove poter gridare la nostra parte senza la paura di un silenzio assordante. Come nel wrestling, lo spettacolo deve continuare. E continuerà, finché ci sarà qualcuno pronto a salire sul ring.

 

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