Un’intervista di Tiziana Lo Porto alla scrittrice indiana esule in Francia, Sumana Sinha, uscita in forma ridotta su «D-Repubblica». La foto è di Gianluca Rondinini.
Indiana di nascita, parigina d’adozione, Sumana Sinha è nata a Calcutta nel 1973 e ha ottenuto la celebrità in Francia lo scorso agosto con un libro audace e bello che a un poema in prosa di Baudelaire prende in prestito il titolo. Assommons les pauvres! (A morte i poveri! nella bella traduzione italiana di Tommaso Gurrieri che il 21 marzo sarà in libreria per Barbès) è il racconto di un’esperienza vissuta in prima persona come interprete presso l’Ofpra (Office français de protection des réfugiés et apatrides), autorità francese incaricata di garantire l’applicazione di convenzioni e accordi internazionali riguardanti la protezione dei rifugiati e degli apolidi. Un ufficio che si trova a Fontenay-sous-Bois, a una decina di chilometri a est della capitale francese, banlieue parigina dove ogni giorno si affollano immigrati di ogni paese e città del mondo, con le loro storie (vere, verosimili o totalmente false) di potenziali rifugiati in cerca di protezione.
Contro di loro la rabbia di una ragazza indiana, partita da Calcutta con in mente un futuro da poeta e il sogno di un paese migliore, e approdata in un tetro universo kafkiano in cui è impossibile schierarsi: né con i poveri, né contro di loro. È in questa impossibilità che Shumona Sinha si è mossa, rigorosa nel mestiere di interprete delle vite degli altri, paziente e taciturna fino al giorno in cui non è riuscita più ad arginare la rabbia e per difendersi ha rotto una bottiglia in testa a un immigrato. Subito dopo ha perso il posto di lavoro, non per avere rotto la bottiglia in testa all’uomo, ma per avere raccontato la sua esperienza in un libro. Questo libro.
L’hanno licenziata subito dopo l’uscita di A morte i poveri?
Subito prima che uscisse. Un giorno sono andata all’Ofpra e i funzionari con cui lavoravo di solito hanno iniziato a farmi domande sul libro. Ero stupita, perché non era ancora uscito, e loro mi hanno risposto che ne avevano letto in rete. Preoccupata, sono andata a parlare con la responsabile del servizio di interpretariato. M’ha chiesto di poter leggere il libro e però ha aggiunto che “comunque è troppo tardi. Il libro esce tra dieci giorni. A questo punto non possiamo più cambiare niente”. Le ho lasciato ugualmente una copia del libro. Quindici giorni dopo le autorità dell’Ofpra mi hanno congedata comunicando la loro decisione all’ufficio per cui lavoravo. La lettera con cui me l’hanno comunicato ha dimostrato che è gente che non ha capito che il mio è un romanzo sull’identità, sull’esilio, non è un reportage su come funziona il loro organismo. Chi se ne frega se la storia accade negli uffici dell’Ofpra, io racconto altro: racconto dell’uomo, del diritto a viaggiare, ad avere una vita migliore, o a non averla.
Cosa l’ha ferita di più del licenziamento?
L’ingiustizia. La stupidità. La grettezza di chi non sa leggere un testo letterario in quanto testo letterario. La cattiva fede. E la faccia tosta di pensare di poter censurare il testo. Nella lettera m’hanno scritto: “Shumona Sinha ci ha messo davanti a un fatto compiuto e dunque a questo punto è impossibile indicarle quali sono i confini da non superare”.
Perché, arrivata in Francia, aveva scelto quello come lavoro?
Per guadagnarmi da vivere. La “ginnastica delle lingue” era quello che potevo fare coi miei studi. Ed è quello che ho fatto.
I poveri che ha trovato in Francia sono diversi da quelli lasciati a Calcutta?
Sì. A Calcutta non si vede gente di tutto il mondo, né tra i poveri né tra i ricchi. E poi qui è diverso il parametro secondo cui sei povero o non lo sei. Sono diversi i criteri di miseria, e i segni esteriori.
L’impossibilità di una società multiculturale che sia autentica è una delle cose che racconta nel suo libro.
Sì, ma è un’impossibilità che riguarda un settore specifico della società. La miseria economica genera miseria intellettuale, che a sua volta scatena intolleranza e violenza. Solo quando si abbatteranno le frontiere economiche, solo quando ogni uomo avrà una vita decedente, si potrà sperare nella curiosità per l’altro. E da lì nell’ammirazione e nell’amore per l’altro. Le autorità dovrebbero ragionare sul fatto che lasciare che la gente arrivi per poi trattarla come bestie non aiuta nessuno. I poveri del Bangladesh o dell’India non diventano ricchi qui, semplicemente creano il grado zero della miseria in Europa, è la delocalizzazione del sottoproletariato.
È una cosa che, dalla sua esperienza di interprete per i rifugiati, anche gli stessi immigrati stanno capendo?
Credo di sì. A parte i privilegiati, con un buon lavoro, o un talento riconosciuto, la maggior parte di questi nuovi cercatori d’oro, o quantomeno quelli che ho conosciuto tra i miei compatrioti o quasi compatrioti, dicono che non s’aspettavano che la Francia fosse così. Che prima di partire gli viene raccontato tutt’un altro paese. Anche se bisogna distinguere la provenienza, e non sto parlando di magrebini e africani. Loro spesso hanno le famiglie in Francia, e comunque hanno una relazione post-coloniale con la Francia. Sono motivati e legittimati a stare qua. Parlo della gente che arriva dall’India.
Come lei. Che però in Europa c’è rimasta.
Sì, ma nel mio caso ho la pretesa di credere che a legittimarmi sia il mio amore per la lingua francese. Ho studiato lingua e letteratura francese, oggi scrivo in francese, traduco poeti francesi in bengalese e viceversa. A darmi il diritto di vivere in Francia è la mia vocazione letteraria che nel suo piccolo contribuisce al patrimonio culturale francese. È arrogante pensarlo, lo so, ma l’arroganza è un difetto tipico degli intellettuali.
Da quando è in Francia, quali sono le discriminazioni peggiori a cui le è capitato di assistere?
Direi che la peggiore è quella sociale. Si possono anche tollerare quelle intellettuali, spirituali, di genere o di razza, ma quando una persona viene umiliata, sminuita, privata di ogni diritto, di ogni felicità, di sogni e speranze, solo perché non ha un soldo per campare, ecco questo sì che è orribile.
Nel suo libro è costante la ricerca di giustizia, da parte sua, da parte di chi le sta intorno. Lei crede nella giustizia?
Sì che ci credo. Il comunismo, pur nella sua assurdità, è stato il più grande sogno dell’umanità. I sistemi totalitari mi fanno paura, ma resto comunque incantata dall’idea di migliorare la condizione umana, dall’altruismo, dalla possibilità di dedicare la propria vita al bene degli altri. Ho nostalgia dell’epoca in cui i capi di stato avevano come missione quella di migliorare le condizioni di un popolo o di un paese, in cui si consacravano al bene degli altri.
Di cos’altro ha nostalgia?
Del cibo di casa. Del sapore della cucina di mia madre, e di alcuni dolci. Delle strade e dei vicoli di Calcutta. Dei chioschi del tè a buon mercato dove passavo il tempo a chiacchierare con gli amici. Dei festival dei film internazionali di Nandan, la cinémàteque di Calcutta. Della pioggia calda sotto cui potevi camminare. A differenza di Parigi.
Il suo incubo peggiore?
Non riuscire più a scrivere. Non riuscire più a creare. Se un giorno smettessi di scrivere, dovrei trovare un altro mezzo per creare.
Perché a un certo punto ha smesso di scrivere in bengalese e a cominciato a scrivere in francese?
Mi piace pensare che la storia di un uomo coincida con la storia della lingua in cui parla e scrive. Col francese sto cercando di reinventarmi. È il mio modo di romanzare le cose. Questo è il secondo romanzo che scrivo in francese. Il primo, Fenêtre sur l’abîme, l’avevo iniziato in bengali ma a metà dell’opera mi sono accorta che pensavo in francese e inconsciamente traducevo dal francese al bengali. Così ho deciso di scriverlo direttamente in francese. Da lì in avanti ho continuato a scrivere in francese, anche se adesso è una scelta consapevole: il francese è la mia lingua della libertà. Quello che non potrei mai dire in bengali, lo dico in francese.
La cosa influisce in qualche modo anche sui suoi sentimenti?
Sì, certo, da quando penso e scrivo in francese non sono più la stessa persona. Ma la mia parte indiana non è affatto sepolta. È come nel laboratorio di un alchimista: la mia parte indiana e la mia parte francese si fondono e non ho del tutto il controllo. Scrivo in francese, ma non mi considero ancora del tutto una scrittrice francese. C’è una meravigliosa frase di Mallarmé che dice: “Non si scrive con i sentimenti ma con le parole”. Si riferiva alla poesia, ma credo sia valido per la scrittura in generale.
Scrive ancora poesie?
Sfortunatamente pochissime. Ma continuo a leggerle. Leggo pochissimi romanzi contemporanei, ma le poesie, quelle non ho mai smesso di leggerle. Basta una poesia di Edmond Jabès per illuminarmi la giornata.
È nata a Bolzano e ha vissuto ad Algeri e Palermo. Abita tra Roma e New York, dove traduce e scrive di libri, cinema e fumetti per La Repubblica, Il venerdì e D. Ha tradotto, tra gli altri, Charles Bukowski, Tom Wolfe, Jacques Derrida, A.M. Homes, Douglas Coupland, James Franco, Lillian Roxon e Lena Dunham, e ha tradotto e curato la nuova edizione italiana di Jim entra nel campo di basket di Jim Carroll (minimum fax, 2012). Insieme a Daniele Marotta è autrice del graphic novel Superzelda. La vita disegnata di Zelda Fitzgerald (minimum fax, 2011), pubblicato anche in Spagna, Sudamerica, Stati Uniti, Canada e Francia.

ho letto il libro, è un grande libro che affronta con coraggio temi difficili, lo consiglierei caldamente se non fosse per la traduzione, tutt’altro che bella: in molti passaggi c’è una straordinaria confusione di generi con pronomi maschili attribuiti a soggetti femminili come nei temi degli studenti asini, lasciano perpessi anche gli inserimenti di termini aulici nel contesto di un linguaggio che tende al parlato corrente, vorrei proprio confrontarlo con l’originale.