Questo pezzo è uscito su Tuttolibri de La Stampa, che ringraziamo

di Francesca Serafini

C’è un verso semplice e bellissimo cantato da Ornella Vanoni (e scritto con Gabbani e Pacifico) che da giorni staziona in pianta stabile nella mia testa: “Io sono tutto l’amore che ho dato”. Un frattale perfetto della contraddizione che tormenta ogni artista. Quella che c’è sempre tra un gesto per forza di cose imputabile di un qualche narcisismo – con il pronome io a sintesi olofrastica di infinite domande: perché cantare, senza l’ambizione di essere ascoltati? perché scrivere, se non si pensa che qualcuno possa essere interessato a leggere? – e la generosità (il desiderio di condivisione) – l’amore che ho dato ­– necessaria per trovare di volta in volta il coraggio di esibirsi: che poi in definitiva potrebbe esporre in realtà soprattutto alle critiche.

Tre madri nasce da qui. Dai demoni che ho combattuto per convincermi a lasciarlo andare: per non decidere io, appunto, che stava bene lì dove a lungo l’avevo lasciato al sicuro. Il posto in cui tutte le cose che ho vissuto, tutte quelle che ho letto (da Ginzburg a Landolfi, da Hemingway a Nabokov), ascoltato (da De André a Vasco, da Moon River ai Radiohead), visto (da A piedi nudi nel parco a Varda); tutte quelle che ho incontrato in esperienze di studio o di svago (dall’iscrizione nella basilica di San Clemente a Candy Crush) si sono date appuntamento per stanarmi e spingermi a dare voce ai personaggi che mi chiedevano di essere raccontati. Lo so, una frase a rischio di retorica (tanto per dare un’idea del logorio che comporta in me la scelta di ogni singolo enunciato). Ma questo solo perché non vi siete mai fatti un giro nella mia testa: un terreno fertilissimo per le ossessioni. Solo che, quando arriva il verso di un brano musicale, tutt’al più condiziona la storpiatura inevitabile se canto io (e anche la suggestione con cui aprire un articolo, magari); ma se arriva un personaggio, quello non mi dà tregua. Si piazza lì, come una tenia, e non c’è modo di liberarsene.

Tutto quello che ho capito della scrittura ­– che sia di un romanzo o della sceneggiatura di un film – è che richiede alla sua autrice (o al suo autore: ma, almeno qui, stabiliamo che anche il femminile può avere un valore universale) di sottoscrivere un patto di vampirizzazione: e questo accordo va inteso in due direzioni, che la prevede prima parte attiva e poi passiva. Da un lato, infatti, si nutre di tutto quello che la realtà sottopone al suo sguardo: in una sfolgorante varietà di situazioni, volti, voci, gesti, caratteri, ambientazioni, toni. Dall’altro lato, tutto questo, insieme alle gioie e ai dolori sperimentati in prima persona, deve rendersi disponibile all’assalto dei personaggi che si aggrappano da tutte le parti. Se hanno bisogno di un dolore, glielo devi dare, quale sia il prezzo che ti costa sollecitare il tuo, accettando oltretutto il modo in cui decidono di trasformarlo per le loro esigenze, se vuoi che arrivi a destinazione con una certa verità.

Lisa Mancini, che di Tre madri è la protagonista, è arrivata così. Un difetto mio, i guizzi di una lontana zia che non c’è più, il tatuaggio visto al polso di un collaboratore del direttore sportivo Walter Sabatini durante un pranzo in Romagna, certi slanci insieme goffi e geniali dei miei fratelli (uno anagrafico e uno extra-anagrafico, come da sempre ci definiamo con Giordano Meacci), il rigore di mio marito, una passione di mia madre, la curiosità di mio padre; o magari certi cambi di marcia repentini che mi stupiscono sempre nel carattere di Dori Ghezzi. Il nome invece lo deve a una bisnonna appassionata di libri che non sapeva leggere e che ascoltava dalle parole di suo marito, che sapeva leggere benissimo ma era costretto a concentrarsi su quelli che decideva lei.

Una volta trovata Lisa, il cantiere era aperto. Insieme alla vertigine delle possibilità sterminate in cui potevo scegliere di muoverla. E, da ossessione a ossessione, mi è stato subito chiaro che l’avrei voluta nello stesso contesto in cui sono ambientate alcune serie televisive inglesi che ho amato tantissimo, come River, Unforgotten, Happy Valley o The missing; tutte quelle in cui il genere indaga in senso antropologico più che poliziesco la comunità in cui la trama si muove, per guardare agli esseri umani per quello che sono, nel bene e nel male: tutti, più o meno occasionalmente, capaci di miserie e splendori. Arrivando così a un racconto corale, di là dal peso che avrei attribuito a Lisa: al cui passato è dedicata anche una piccola linea narrativa (una specie di romanzo di formazione dentro a quello principale – incentrato sulla ricerca di un adolescente scomparso – a cui fornisce via via chiavi d’interpretazione).

A quel punto, potevo concentrarmi su ciò che mi sta più a cuore. La struttura congeniale per imporre alla storia il ritmo che cercavo (variando i registri, dal tragico al comico, come mi ha insegnato a fare Claudio Caligari; e una successione continua di azioni, dialoghi, descrizioni e riflessioni, specie alle soglie di ogni capitolo); e il lavoro sulla lingua. La cura maniacale nella scelta delle parole, e la sintassi: da sempre, per me, l’aspetto più emozionante. Il modo in cui il pensiero si dispiega in lingua e con cui proviamo a comunicare quello che ci preme dentro, nel tentativo disperato di sentirci meno soli: almeno quando scriviamo o leggiamo. Tante autrici e tanti autori ci sono riusciti con me: valeva la pena tentare lo scambio dall’altra parte della pagina anche solo per gratitudine.

C’è poi Montezenta. Il paese che ho “inventato dal vero” (come direbbe Attilio Bertolucci), prendendo spunto da Santarcangelo, e da Mutonia: il villaggio romagnolo della Mutoid Waste Company in cui artisti di diversa provenienza geografica danno una seconda vita agli scarti della società industriale trasformandoli in opere d’arte. Non c’era altro posto per dare a Lisa (la commissaria Mancini) – che approda in questo piccolo centro, avvolta di mistero, arrivando dall’Interpol – una seconda possibilità. Nessuno che ne potesse rappresentare meglio la metafora compiuta. E qui, però, vi farei un torto a dirvi perché.

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