Nel classicismo di Pablo Picasso e delle sue maschere kifwebe non vi sono, né possono esserci ripensamenti. Picasso agisce, supera se stesso in ogni tratto, sa sempre dove vuole arrivare, non ha difficoltà a trasformare un sogno in volto o un volto in sogno, in morte, persino in incubo se necessario, come accade in Guernica. In Picasso certezza e verità finiscono per collimare: è la certezza di sé, la metamorfosi, la negazione, la tensione verso quell’unico segno che si può dare. Il desiderio di un tratto che sa esattamente cosa vuole, l’inutilità del disegno preparatorio, la suggestione delle stesse emozioni. Accade così che la sua pittura esiste già graffiata in un segno che nasce colore, una scelta raffinata, sorprendente e solo apparentemente casuale; Picasso esiste nella sua pittura ed è per questo un evento.
La scomposizione della realtà del cubismo di Braque in Picasso diventa essenziale perché parla di essenza. Così accade facilmente che un bambino davanti ad un quadro di Picasso provi autentici sentimenti perché percepisce l’unica narrazione possibile, si accorge dell’unico segno, del proprio segno, e dunque della realtà. Ma perché accade questo?
Quando Picasso affermava che da Altamira in poi è tutta decadenza, non voleva ciceronianamente affermare che tutto è già stato scritto ma che, al contrario, tutto andrebbe riscritto, e andrebbe riscritto a partire proprio dall’essenza perduta delle cose, quella di Lascaux, quella del non abbiamo scoperto niente.
Così se Picasso si trova a dipingere i tori di Lascaux, allo stesso modo di un uomo paleolitico attraverso segni millenari, e se ancora oggi è possibile riconoscere lo stesso soggetto, toro o uro che sia, ciò accade per quella cavallinità platonica che la società contemporanea ha ormai dimenticato. Ovvero per l’idea essenziale che nasconde l’oggetto.
Senza cavallinità non sarebbe possibile per Marc e Kandinsky arrivare a Der Blaue Reiter perché, non me ne voglia Antistene, non si può vedere un cavallo e, ancor meno trattandosi di un’esperienza artistica, immaginare un cavallo senza tener presente l’idea di cavallinità; e questo il bambino lo sa bene. Parlo di immaginazione perché sia Picasso che Kandinsky dipingevano per immaginazione e trasformavano l’immaterico in colore e dunque in spirito. Ai bambini capita di fare un ragionamento simile.
Essi infatti non guardano la persona ma entrano nel profondo, vedono l’essenza delle cose. Distinguono tra bello e brutto con una facilità straordinaria, molto spesso (sempre?) egoistica – è vero – eppure in questo reale. I bambini raccontano per immagini, utilizzano la narrazione mitica, vedono la fiaba proprio come un’opera d’arte totalmente comprensibile. È per questo che nel bambino è forse il mito l’unico evento. Le storie che sentono non hanno bisogno di saperle lontane, né hanno bisogno di spiegazioni, perché i bambini sanno già tutto ciò che c’è da sapere. Le esperienze, mediate dall’inconscio, rimangono tali fin quando non si è maturi per comprenderle, ma da subito sono intuite.
Dunque si capisce ora quella frase attribuita a Picasso per cui ci vuole una vita per reimparare a disegnare come un bambino, e questo è certamente uno dei più grandi meriti di Picasso. Rispetto a ciò che si è detto viene allora immediato un altro ragionamento:
Se ciò che si dà nell’infanzia è l’essenza delle cose, ciò che si dà all’adulto è invece, al contrario, la spiegazione del mito, la destrutturazione della metafora, il cavallo, l’oggetto.
Nell’adulto vi è forse una tendenza, una paura, che spinge a trovare una maschera, una persona all’essenza delle cose. Il bambino vede l’essenza, l’adulto la persona. In questo modo, ciò che è irrappresentabile finisce nell’adulto per essere inventato, per essere rappresentato. L’idea di Dio, l’irrappresentabile per eccellenza, l’unica essenza(?) che i bambini non potrebbero neppure pensare si cristallizza e si radica profondamente nella testa dell’uomo già adulto. Ma non è che un’essenza artificiosa, costruita, fittizia. Perché all’uomo non è data l’essenza ma l’oblio, la morte, il dimenticarsi.
Così, come con la spiegazione di un mito o del riconoscimento del tempo – per cui al bambino si finisce per sostituire nelle favole: vissero per sempre felici e contenti con vissero a lungo felici e contenti – nell’uomo si dà forma a ciò che non ha né forma né esistenza. Ecco la creazione di Dio ed ecco, paradossalmente, e in quanto negazione di immagine e affermazione di una qualche essenza, l’iconoclastia. Comunque assai lontana dall’essenza dei bambini.
Questo perché Dio è un problema solo dell’adulto, solo nell’adulto, in quanto è disabituato a vedere l’essenza delle cose. Ricapitolando, abbiamo detto che si tenta di dare un volto all’essenza, di dare l’essenza a una persona che in quanto maschera è necessaria per la sopravvivenza nel mondo dell’oggetto, nel mondo del reale. Dunque, si costruisce ex nihilo un’essenza. Perché mentre il bambino dall’oggetto arriva all’essenza, nell’adulto l’essenza esiste di per sé dall’oggetto. Ed è quella che erroneamente viene detta Idea di Dio. Ma quell’Idea di Dio, dell’idea in sé, della cavallinità, dell’essenza infantile, non ha più niente. Non c’è evento in Dio, ma solo l’evento di Dio.
Sarà forse che Dio è legato ad un processo di perdita della memoria, di perdita dell’essenza delle cose; sarà che troppo spesso abbiamo imparato ad andare alle cose stesse, dimenticandoci che alcune cose già si sapevano; ma provate a chiedere di Dio ad un bambino e vedete cosa vi dice. Se non vi si identificherà, vorrà dire che non esiste.
Perché l’essenza è proprio nell’identificazione, la stessa che ha il cacciatore di Chauvet che vede la sua realtà dipinta su una grotta come verità e certezza di sé. I bambini hanno altro da fare che dare tante parole alle stesse emozioni. In fondo, la loro realtà esiste fin quando vi si riconoscono e non hanno bisogno di cercare il centesimo nome di Dio. Perché il Dio dei bambini, la vera essenza, è legata soltanto ad un’autentica esperienza artistica. Potremmo dire allora che forse Picasso è l’unico Dio dei bambini: nell’immanenza, nell’essenza, infine nella vita.
Mario Soldaini è nato a Roma nel 2000. Ha studiato presso il Liceo Classico Ennio Quirino Visconti. È stato membro della giuria giovani del David di Donatello e Leoncino d’oro al Festival del Cinema di Venezia. Organizza concerti e mostre d’arte. Da sempre appassionato di letteratura italiana, collabora con diverse testate. Studia Filosofia presso la Sapienza di Roma e Global History (GHL) presso la Princeton University.

Bellissimo