
I segnalati di Giordano Tedoldi è per chi scrive un romanzo per fortuna impossibile da recensire, difficile addirittura da condividere con dei lettori attraverso le pagine di un quotidiano o una rivista o un blog. È un romanzo di cui mi piacerebbe parlare invece a voce e non in pubblico, in un’atmosfera di giusta intimità, con interlocutori predisposti a non capire nulla di quanto andrei raccontando ma felici (sia io che loro) per la strana atmosfera che il racconto andrebbe comunque a creare, viste ovviamente le premesse, visto cioè l’allineamento di pianeti o particelle sempre più determinante per creare con i nostri simili un temporaneo legame di reale intimità, di reale pericolo, che vada oltre un’intimità e un pericolo consueti, cioè oltre lo spiazzamento codificato da ciò che funziona (esclusa dunque l’arte) nei film, nei libri, nella musica di buono o anche a volte ottimo livello. Se I segnalati non funziona (e questo non lo so, me lo sono domandato, ho smesso di domandarmelo) e allo stesso tempo non possiede un briciolo di paraletterario (nemmeno il paraletterario che stringe i bulloni di certi grandi libri fino a che questi diventano sapientemente una somma che fa a meno delle parti), contiene di conseguenza il resto, cioè quello che oggi per me conta. Quello a cui posso affezionarmi.
In Io odio John Updike, la raccolta di racconti del suo esordio, Tedoldi aveva avuto il merito di farci entrare in un mondo davvero suo, difficile da ritrovare altrove. I segnalati è un’opera più vasta e più bella. L’ho realizzato con lentezza. Forse bisognerebbe dire che è la storia di un amore disperato tra una coppia (entrambi giovani, ma non toccati dal pop, dunque ancora belli) in cui lei è guidata dal senso di colpa e lui dalla musica classica. Entrambi sono certamente guidati dai demoni meridiani. Una Roma assolata e notturna al tempo stesso è un’altra protagonista del libro. Ci sono interni di Piazza Argentina o dei Parioli che potrebbero essere lynchani se non fosse che sarebbero molto prima e molto meglio landolfiani. Tommaso Landolfi. Ingmar Bergman. L’estate con Monika. Georg Trakl. Gozzano. Thomas Mann. Alcuni clavicembali ben temperati. Dino Campana. Savinio. Von Karajan che sfreccia tra i cipressi sulla sua Mercedes blindata color antracite. L’Europa dopo il diluvio.
Voglio dire che in questo libro non c’è proprio niente di sociologico, niente di giornalistico (neanche i temi, nemmeno quegli argomenti sociologici e giornalistici che pure fanno grandi certi libri che credo sia giusto amare: tipo il flagello del politically correct che dà la stura a La macchia umana), soprattutto, ecco, a fare da filtro con l’interiorità dell’autore, con la sua immaginazione (non la fantasia! l’immaginazione) non c’è l’agenda anche solo emotiva dettata dai giornali, dalla politica, da quella nebbia grigiastra che persino nelle nostre vite private impedisce spesso di esplorare paesaggi infinitamente più interessanti, terre che pure ci appartengono, sono sempre lì, a portata di mano. Il risultato è entrare, attraverso I segnalati, in un mondo che ci appartiene (come la loggia nera era un posto in cui eravamo stati prima di Twin Peaks) ma che non troveremmo altrove. Non è detto sia uno spazio che tutti vogliano o debbano attraversare per trecento pagine.
Sui social network, ai potenziali lettori che gli chiedono del suo romanzo, Tedoldi risponde mettendoli in guardia. Un attimo. Aspettate. Non comprate il mio libro fino a quando non siete sicuri che vi interessa davvero.
Non credo ci sia troppa vanità o della pur sana sprezzatura, in queste uscite. O forse ci sono (una strana vanità di tipo difensivo) ma non mi sembrano preponderanti. Credo sia preponderante un certo scrupolo. Il non voler far perdere tempo a lettori (pure forti, pure amanti di libri che lo stesso Tedoldi magari ama) che con I segnalati non dovessero entrare in sintonia. A propria volta, il non voler perdere tempo a soffrire al pensiero che il proprio libro sia nelle mani sbagliate. Questo mio pezzo vuole fare una cosa simile. Non è una recensione. Non è neanche un invito alla lettura. È una piccola segnalazione. Uno scrittore italiano ha scritto un libro per certi versi unico. Se vi capita, sfogliatene qualche pagina in libreria. Vedete che vi sembra. Vedete se vi interessa, se vi piace, se vi scatta qualcosa. A me è scattata. Molte pagine del romanzo mi sono rimaste dentro e ora agiscono a lento rilascio. Vedete insomma se siete interessati a un certo tipo di esperienza conoscitiva (non è neanche una questione di stima eventuale verso il lettore che dovesse amare il libro, non a tutti regalerei dello psylocibe cubensis, indipendentemente dalla considerazione che nutro per il donatario).
Il libro è pubblicato da Fazi, costa 16 euro e qui di seguito c’è l’incipit.
Prima che il caos regnasse tra Fulvia e me fu molto bello. Mi illudevo che lei e io incarnassimo la congiunzione di destini, quella formula della felicità di cui avevo letto in una raccolta di saggi di psicoanalisi in un capitolo che sviscerava la nozione fumosa e inafferrabile di amore tra un uomo e una donna. Arrivare all’amore dalla natura, passando per un libro, per poi tornare alla natura, mi sembrava il corso divino della maturità erotica e sentimentale. Giunsi invece alla Pazzia, l’esatto opposto della natura (qualunque cosa sia, questa idea ancora più fumosa e inafferrabile dell’amore) e da quella visione tornai segnato a vita. Dopo lunghi anni di una frequentazione superficiale e sporadica, mescolati a disordinati e numerosi gruppi amicali, non so nemmeno perché cominciammo a vederci da soli, passeggiare, andare a bere insieme bicchieri di vino bianco. E scoprimmo di essere affini, cominciammo a sognarci e cominciammo a confessarci di sognarci. Ci abbracciammo, ci abbracciammo forte, fortissimo, ci baciammo sulla guancia, sulla bocca, con la lingua, finimmo a letto una prima volta e qualcuno si svegliò prima dell’altro e rimase a guardargli la schiena con gli occhi iniettati e il vapore in testa fino all’alba. C’erano delicate, minute cose ripugnanti e incontrollabili che mi piacevano di lei, ad esempio la voracità ferina con cui consumava una prima colazione salata particolarmente le uova all’occhio di bue con tre fette di prosciutto crudo, pietanza che mangiava spesso, come scoprii quando ebbi l’abitudine di dormire da lei, lasciandone io credo deliberatamente cadere resti del bianco fritto dalla bocca mentre mi parlava, una scena disgustosa che in ogni altra donna mi avrebbe spinto a lasciarla e impartire la damnatio memoriae digitalis eliminando tutti i contatti ma che nel suo caso era non più schifoso di vedere un bambino pasticciare col cibo.
Nicola Lagioia (Bari 1973), ha pubblicato i romanzi Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) (vincitore Premio lo Straniero), Occidente per principianti (vincitore premio Scanno, finalista premio Napoli), Riportando tutto a casa (vincitore premio Viareggio-Rčpaci, vincitore premio Vittorini, vincitore premio Volponi, vincitore premio SIAE-Sindacato scrittori) e La ferocia (vincitore del Premio Mondello e del Premio Strega 2015). È una delle voci di Pagina 3, la rassegna stampa culturale di Radio3. Nel 2016 è stato nominato direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino.
Bertolucci?
Ingmar
Strano articolo, a suo modo molto bello (aggettivo che nel pezzo mi pare un po’ una sentenza circa i due giovani ancora “non toccati dal pop”). Lo direi sincero nelle valutazioni positive e nelle ammissioni di distanza.
Poi però ammetto che l’incipit mi abbia un po’ deluso. Mi domando spesso se un giorno saremo in grado di non riprodurre frasi rattrappite e sfiatate come “Prima che il caos regnasse” o “segnato a vita”, costringere un lettore a vedere due innamorati che hanno “gli occhi iniettati” e “il vapore in testa” non mi piace, lo trovo sciatto almeno quanto la “voracità – inevitabilmente – ferina” di lei che mangia una “pietanza”, boh… una pietanza mangia…
Ma non mi fermerò, ringrazio Nicola del consiglio che raccolgo e cercherò di leggere questo strano “libro unico”. Anche se probabilmente viste le premesse il suo autore mi sconsiglierebbe di farlo. Vedrò se dargli o meno ragione…
L’INCIPIT,HA DELUSO ANCHE ME
…a me invece questo incipit sembra bello. Non so. Eppure capisco cosa dice Simone. Ma è strano, è come se fosse rozzo e raffinatissimo al tempo stesso. Un po’ secondo quello che diceva il pezzo. Interessante.
cit.
“””…a me invece questo incipit sembra bello. Non so.” –
… “non so”??
è un intercalare d’uso comune, colloquiale, credo si capisca. Come quando uno dice: “non so, mi sembra un totale cretino…” o “non so, a me sembra una brava persona, un brav’uomo…”
Non significa che il soggetto parlante non lo sa davvero, ma che esprime un’opinione dando comunque credito e rispettando quella altrui e opposta. Sarebbe bella la reciproca, non so.
Giordano Tedoldi è il contrario dello scrittore italiano contemporaneo. Il suo libro è totalmente libero da qualsiasi moda, tendenza, predominanza. Fuori dal mondo per essere più che mai nel mondo. Solo il fatto che un libro del genere sia stato pubblicato è un successo della letteratura, un piccolo miracolo.
Il libro di Tedoldi è particolarissimo e molto interessante. Bello. E sono d’accordo anche con il plauso per chi l’ha pubblicato. Vera letteratura. Come potevano farla Zweig, Hamsun e perfino F. Jeaggy.
“Giordano Tedoldi è il contrario dello scrittore italiano contemporaneo. Il suo libro è totalmente libero da qualsiasi moda, tendenza, predominanza. Fuori dal mondo per essere più che mai nel mondo. Solo il fatto che un libro del genere sia stato pubblicato è un successo della letteratura, un piccolo miracolo” (Benedetta Ventrella)
Ci ho pensato un bel po’, ma non sono riuscito a trovare nessuna frase mia che rappresentasse meglio di questa il mio pensiero. Capisco comunque la reticenza di Lagioia nel parlarne – è un libro anomalo, che richiede un grande impegno, un grande sforzo “morale”… Si entra in un sogno, o in un incubo, e se ne esce trecento pagine dopo. Non c’è nulla di catartico, in tutto questo. E’ un mondo a parte, metafisico (alla De Chirico), per certi versi morboso, che non è obbligatorio attraversare – che non è giusto invitare ad attraversare – perché “fa male”.
ps l’incipit: è poco rappresentativo del romanzo, quasi un piccolo specchietto per allodole ingenue…
In realtà (tenendo conto di come sono fatte oggi le recensioni standard, verso le quali la diffidenza del lettore scatta ormai pavlovianamente) è difficile immaginare un invito alla lettura più efficace di questo pezzo…
E’ un libro che può intossicare. E quindi capisco bene le parole di Nicola Lagioia. Il suo profondo rispetto e riserbo. Anche perché “I segnalati” è davvero un oggetto strano. Quasi unico. Non c’è niente di consolatorio. Niente di facile, semplice, eppure… Eppure la voce narrante è in grado di esercitare un potere enorme sul lettore. Da subito. Fin dall’incipit, che non può essere scorporato da ciò che viene dopo, perché davvero in questo libro ogni passaggio è incomprensibile senza tenere conto della tessitura che lentamente si disegna. Anche se poi mancherà alla fine qualcosa. Come sempre deve mancare in ogni opera d’arte, credo. Noi entriamo in un mondo che prima di questo libro non esisteva, e vediamo una Roma come raramente ci è dato di vedere. Qualcosa in questo libro ricorda “La grande bellezza”. Vi si avverte lo stesso sentimento di una caduta ineluttabile. Di uno smarrimento. Di una dissipazione. Ed è strano, molto strano come Tedoldi descriva le case, gli appartamenti, nei quali più volte il protagonista ritorna, e che ogni volta sono differenti. E poi la musica. La musica che invade in ogni momento la mente del protagonista e gli spazi. Il romanzo è una partitura? Forse. Accade al lettore quanto accade ai protagonisti, che spesso vivono quella che “in gergo musicale si chiama un ripresa, il ritorno di un tema già ascoltato in precedenza”. Ma, forse, con qualche sottile differenza. E’ un libro che richiede al lettore un sacrificio. E’ come un male che non può estinguersi, ma passare dall’uno all’altro. A un certo punto, a pagina 251, leggiamo: “Lo scambio è avvenuto. Un male è passato da un fratello all’altro, tragica ironia della nostra arte mistica, non possiamo annientare un destino, ma solo trasferirlo, scambiarne il nascondiglio.”