
Storicamente, il mio interesse per i premi e i premiati dei grandi e piccoli festival è piuttosto basso. Mi emozionanano e appassionano i film, assai di meno i riconoscimenti che possono o non possono ricevere.
C’è da dire, però, che raramente nel corso degli ultimi anni è accaduto che una giuria abbia espresso le sue valutazioni con tale somiglianza di vedute con il giudizio critico generale come per quest’edizione del Festival di Cannes. E la cosa mi ha colpito. Alla premiazione della 66ma edizione del Festival non ho assistito in smoking seduto accanto ad un potente produttore americano nella Salle Lumière, né ne seguivo l’andamento in maglia a righe e espadrillas sorseggiando pastis assieme ad una modella nippo-islandese in un café sulla Croisette.
In maniera ben più neorealista e molto meno glamour, l’ho vista in streaming preparando la cena per me e la mia famiglia, a Roma, un occhio al monitor e un altro alla cottura della pasta. E, man mano che i riconoscimenti venivano assegnati, commentavo più o meno sarcasticamente o entusiasticamente gli annunci del Presidente di Giuria Steven Spielberg.
Se sul momento sono rimasto colpito e felice dalla vittoria del film che stava un palmo sopra a tutti, La vie d’Adéle di Abdellatif Kechiche, e dal “secondo posto” dei Coen con Inside Llewyn Davis, a posteriori continuavano a ronzarmi in testa parole come vincitori, sconfitti. E rivincite, come quella dello stesso regista tunisino, premiato finalmente dopo che anni fa Ang Lee gli scippò col pessimo Lussuria un Leone d’oro che il suo Cous Cous avrebbe meritato a mani basse.
Mi ronzavano in testa non perché improvvisamente mi sentissi coinvolto o interessato più del solito dalle decisioni di una giuria, ma perché di vittoria, sconfitta e (tentativi di) rivincite parlano, in un modo o nell’altro, praticamente tutti i film del concorso cannense di quest’anno. A partire proprio dal vincitore, emozionante e vibrante spaccato delle vittorie e delle sconfitte che si susseguono nelle storie d’amore e nella vita.
Però attenzione: i film del Concorso di Cannes 2013 non si sono limitati a fotografare la situazione di crisi intimamente politica, e quindi esistenziale degli anni che stiamo vivendo. I film del Concorso di Cannes 2013, fotografando questa crisi, hanno tentato di mettere in scena le possibili strategie di riscatto, di ipotizzare modalità di reazione, teorie di ripresa. E, praticamente tutti, hanno escluso la fuga e hanno proposto la piena presa di consapevolezza di una sconfitta, che è collettiva e singolare assieme, come punto di partenza per una resilienza che nasca dal recupero del sentimento, del bello e dell’Amore dentro ognuno di noi.
Forse, tra i titoli più significativi del Festival di quest’anno, solo A Touch of Sin di Jia Zhangke si limitava al ritratto di una società dilaniata del conflitto tra neocapitalismo e tradizioni culturali millenarie e non solo comuniste, lasciando lo spettatore con un agghiacciante senso di impasse irrisolvibile.
Perché persino il Grande Sconfitto del film dei Coen, Llewyn Davis, ha dalla sua un’ironica accettazione della circolarità dell’esistenza e soprattutto la consapevolezza che la sua debacle è dovuta sì alla Storia ma anche alla sua stessa, costante inazione. Così, Llewyn avrà forse la possibilità di effettuare prima il percorso del Bruce Dern nel sopravvalutato Nebraska, quello di un uomo al termine dell’esistenza che si ostina a voler toccare con mano una sconfitta tutta simbolica, perché solo da lì potrà ricominciare grazie ad un percorso nel quale ritrova gli altri e (quindi) sé stesso.
Ecco allora che perfino Alexander Payne accenna quel che Soderbergh, Sorrentino e Jarmusch nella maniera più chiara e evidente, ma a modo loro, con sfumature più lievi, anche Farhadi, Gray, Miike, Kore-Eda, sostengono. Ovvero che se la crisi è pervasiva, il mondo fa schifo, l’amore delude, le brutture delle cose e delle persone sono ovunque, arrendersi non serve. La passività non è più un’opzione, l’abbandono o la fuga meno che mai. Alla crisi, dicono i film di Cannes 2013, si fa fronte stando nell’occhio del ciclone, liberandosi dalle incrostazioni del brutto (questo Jep Gambardella lo dice a chiare lettere) e ritrovando la bellezza, il sentimento, la passione e l’amore.
Per quanto delusa e straziata dalla fine di una storia travolgente, l’Adéle di Kechiche non smette di credere all’amore, e cammina comunque verso qualcosa, verso il futuro. E, al termine di una vita, i protagonisti di Behind the Candelabra mettono da parte l’apparenza, gli agghindi e le recriminazioni per ritrovarsi nella bellezza di un amore che è stato. E i magnifici vampiri di Only Lovers Left Alive (un titolo che dice già tutto), pur disgustati e assediati dall’orrore della mediocrità e della trascuratezza che li circonda, alla vita si aggrappano (letteralmente) con i denti.
Sono personaggi, quelli visti sugli schermi del Palais des Festival, che per quanto messi male, delusi, depressi, riempiti di mazzate emotive, rifiutano di arrendersi. Che, come i genitori del commovente Like Father, Like Son (che andrebbe mostrato a tutti i paladini della “famiglia” che affollano il Parlamento italiano), sono disposti ad ammettere gli errori (le sconfitte) di una vita e di rimettersi in gioco per l’ennesima volta. Che, come il protagonista di Le passé, capiscono che fare un passo indietro (di lato) è l’unico modo per iniziare un nuovo cammino quando ci si ritrova in un vicolo cieco, dato che ostinarsi non serve, la vita va avanti e noi non possiamo stare fermi. Che sono disposti a rinunciare a tutto, come il poliziotto di Shield of Straw, per mantenere la direzione di una bussola morale indispensabile oggi più che mai, per non perdersi nella corruzione fisica e morale, per avere una speranza per il domani.
Ecco. Io da Cannes sono tornato ancora più convinto di una cosa. Che le sconfitte e le vittorie sono spesso momentanee, e che accada quel che accada bisogna continuare a camminare, come Adéle, verso quella vita cui Tom Hiddleston e Tilda Swinton si rifiutano di rinunciare languidamente.
Perché solo chi ama, vive. E chi vive ama, come dice Kechiche in un film che è purissima vita. E amando (qualcosa, qualcuno, il bello, la vita) si possono cambiare le cose, si può recuperare una speranza che ancora esiste, pur nascosta da strati di volgarità, abbandono, corruzione, trascuratezza, brutture. Alla lunga, tornare a vincere si può. E se non si potrà, almeno si sarà provato. A Kechiche è andata bene, no?
Federico Gironi è nato nel 1974 a Roma, dove vive. Laureatosi in Scienze della Comunicazione nel 1999 con una tesi sul cinema di Hong Kong degli anni Ottanta e Novanta, lavora dal 2001 anni come critico e giornalista cinematografico per il canale tv Coming Soon Television prima e per il sito internet comingsoon.it . Scrive o ha scritto su riviste come Cineforum, Duellanti, Panoramiques, Nocturno. Selezionatore per le sezioni Concorso e fuori concorso del Torino Film Festival, ha pubblicato saggi in volumi sul nuovo cinema indipendente americano, M. Night Shyamalan e il cinema USA dopo l’11/9. Guarda tantissimi film, ascolta molta musica, legge molti libri, scrive per gli altri e per sé. Ha anche adattato i dialoghi del musical Priscilla.