Pubblichiamo un estratto dal libro Il cielo, l’acqua e il gatto. Il cinema secondo natura di Franco Piavoli, uscito per Artdigiland, ringraziando editore e autore.
di Filippo Schillaci
Siamo a Pozzolengo, nell’antica, fascinosa dimora posta fra il lago di Garda, le colline moreniche e il Mincio in cui Franco Piavoli è nato il 21 giugno 1933 e in cui ha trascorso la sua vita insieme alla compagna Neria e al figlio Mario. È da qui che comincia il nostro viaggio nel suo cinema, da una comune esplorazione dei pensieri da cui nasce, prima di immergerci nelle immagini e nei suoni.
Affrontiamo quella che è stata la tua prima opera di ampio respiro, Il pianeta azzurro. Ma non senza aver prima ricordato i tuoi cortometraggi degli anni ’60, Emigranti ed Evasi: un Piavoli documentarista molto diverso dal Piavoli del Pianeta azzurro. Diverso come tematiche innanzitutto.
Sì, diverso come tematiche. Ma non moltissimo per il resto secondo me, perché in fondo anche i cortometraggi erano affidati soprattutto alle immagini. Erano un’esplorazione dell’uomo tutta puntata su un tema particolare, che in Evasi era l’istinto della violenza, dell’odio, che è una componente umana. Il pianeta azzurro aveva invece un’ambizione di esplorazione più vasta. Tra i miei lavori è quello che amo di più perché mi pare il più riuscito, quello che esprime di più il mio sentimento, il mio pensiero.
Prima di andare avanti apriamo una piccola parentesi perché so che tu tieni molto a ricordare il contributo di Silvano Agosti alla realizzazione di questo film.
Sì, il sostegno di Silvano fu fondamentale affinché Il pianeta azzurro potesse nascere. Non solo si prodigò in una lunga opera di convinzione affinché io mi decidessi a realizzarlo, ma mi diede anche i mezzi materiali – la cinepresa Arriflex, la moviola, la pellicola – e mi seguì in tutte le fasi della lavorazione, dandomi anche i suoi consigli al tavolo di montaggio e soprattutto lasciandomi fin dall’inizio totalmente libero di fare ciò che volevo. Poi si diede anche molto da fare per la diffusione del film: fu lui che lo mandò a Venezia e si impegnò affinché venisse proiettato. Dedicò tre anni al Pianeta azzurro.
Nel finale vero e proprio ci poni di fronte a un mondo senza più l’uomo. Alludo alle inquadrature delle case abbandonate, quei paesaggi nebbiosi, quelle rovine del mondo umano in cui prefiguri la fine dell’uomo.
Prefiguro la fine dell’uomo, sì; attraverso i relitti degli strumenti agricoli che si arrugginiscono, la casa deserta e poi quel richiamo senza risposta, una voce di donna che ripetutamente chiama Jean, un nome di uomo, un richiamo sempre più dolente, sempre più addolorato; e poi tutto è sommerso dalla nebbia, dal ghiaccio invernale e dalla calaverna8che pende dai rami secchi degli alberi. Prefiguro dunque la morte dell’uomo, tuttavia non ho una visione dell’assoluto e quindi, anche coerentemente col fatto che Il pianeta azzurro è tutto impostato sulla forma circolare, ciclica, non escludo che dopo aver distrutto parte della natura, parte di sé, l’uomo possa rinascere attraverso altre figure. Ed ecco dunque le ultime inquadrature che si affidano di nuovo all’acqua che riprende a scorrere nel fiume, una prosecuzione del movimento e quindi anche della vita in generale.
Non sappiamo se essa rinasce o no, ma c’è questa prospettiva, almeno in base all’esperienza che abbiamo della vita umana: sappiamo che l’uomo muore ma poi continua attraverso i figli, attraverso i discendenti, attraverso gli altri. Che poi sia la stessa figura o no, non si può dire perché tutto cambia. L’uomo è anch’egli un’espressione della natura, un figlio della natura che è madre ma anche matrigna. In questo senso ho una visione un po’ leopardiana del mondo, mi avvicino molto alla visione filosofica e poetica di Leopardi. Per carità, sono ben lontano dalla sua statura, però lo sento molto vicino. Essendo l’uomo figlio della natura anche lui in certi momenti esprime la sua “matrignità”, la sua cattiveria, il suo istinto violento, il suo odio e quindi può recare dei danni incredibili.
Anche questo fa parte della componente “matrigna” dell’uomo in quanto parte della natura. A questo proposito, il nome di Leopardi compare fra i ringraziamenti alle persone che hanno «collaborato» al Pianeta azzurro, insieme a quello di Josquin Desprez, autore della musica che si sente alla fine, e di Charles Darwin.
Darwin per l’analisi molto bella e profonda che ha fatto dell’evoluzione della Terra, dei suoi abitanti. Perché è stato un bravissimo analista di questo fenomeno dell’evoluzione. Ho letto L’origine delle specie, che è bellissimo. E fra le varie specie di animali si è evoluta una specie particolare, quella umana, il cui nome è molto significativo per me perché, richiamandomi a quel poco di studi classici che ho fatto – con i quali mi piace sempre giocare un po’ – homo viene da humus. È la terra bagnata. L’uomo nasce dalla terra, è terra, è parte della terra. E quindi è parte della natura, e quindi i danni che l’uomo fa alla Terra è la stessa natura che li reca a se stessa. Noi li chiamiamo danni perché li vediamo da una prospettiva umanistica e quindi temiamo che possano portare all’estinzione della nostra specie, ma dal punto di vista della Terra da cui noi nasciamo, discendiamo, la preoccupazione credo che sia diversa. Oggi non possiamo più pensare che tutto sia puntato sulla Terra e che essa sia il centro dell’universo, innanzitutto perché non sappiamo neanche se c’è un centro. Pur essendo riusciti a raggiungere grandi distanze e osservare persino pianeti lontanissimi da noi, non sappiamo quali sono i confini dell’universo, non li conosciamo proprio. Forse l’evoluzione scientifica ci darà qualche altra illuminazione, ma per adesso non lo sappiamo. Sappiamo però quanto sia ormai anacronistica qualsiasi concezione antropocentrica e come sia dunque necessario prescinderne.
Il pianeta azzurro all’inizio è come un crescendo che parte dall’immobilità assoluta nelle immagini iniziali del ghiaccio e giunge a un massimo di dinamismo nello scorrere veloce dell’acqua. E il primo movimento ben percepibile è quello di alcuni piccoli ondeggiamenti dell’acqua che si vedono in un angolo dell’immagine, in basso a sinistra. Mi ha fatto pensare a quelle pitture giapponesi in cui tutte le cose importanti stanno alla periferia dell’immagine, come a volerne negare la centralità. Ciò che è importante accade di lato, in un angolo.
Qui confesso che non pensavo alla pittura giapponese anche se mi piace questo modo di pensare dei pittori giapponesi. Ma sì, il primo movimento è in un angolo, un movimento appena accennato. E poi ci sono delle bolle che si sciolgono sotto la superficie ancora ghiacciata. Le bolle sono un segno di vita, perché la vita è anche nel ghiaccio. E poi le porto in primo piano quando faccio sentire l’acqua che si muove come se avesse una vita sua. Sempre più dinamicamente.
Avevo trascritto una cosa che ha detto Silvano Agosti su di te quando hanno trasmesso in televisione Il pianeta azzurro. «Apprezzo Piavoli come fosse me, parte di me, anche con la sua soavità. La soavità di Franco viene dal suo incontro con la natura perché Franco è uno che ha un’intimità assoluta con essa. Con gli alberi, le erbe, come si evince da Il pianeta azzurro, film che in Olanda, addirittura, usano come antidepressivo».
Ricordo che Silvano me lo aveva detto, sì. Ed effettivamente se ci si abbandona alle immagini, Il pianeta azzurro è un fluire molto lento e molto accogliente.
Invece una dimensione completamente diversa sembra essere quella in cui si viene introdotti all’inizio del Pianeta azzurro quando, durante i titoli di testa, su schermo nero si sente una musica elettronica, un frammento da Continuo di Bruno Maderna. È qualcosa di alieno rispetto a tutto il resto della componente sonora del film, che invece è quasi interamente costituita da suoni naturali. Come mai questa introduzione con dei suoni così diversi?
Forse appunto per dire che intorno a noi ruotano mondi infiniti e sconosciuti e prima di noi, prima che la Terra nascesse c’era un caos anche di carattere fonico che non possiamo decifrare. Ho voluto metterlo come preludio alla visitazione di questo cosmo in cui ci muoviamo.
Ho notato che molto spesso i suoni diegetici sono fuori campo, cioè vengono emessi da qualcuno o qualcosa che non sta nell’inquadratura.
Sì, è vero. Anzi, a volte possono essere anche suoni impropri nel contesto in cui sono inseriti. Questo perché il loro scopo è generare delle sensazioni funzionali al discorso complessivo. A volte ho usato anche dei piccoli interventi sonori creati con un pezzo di legno sul metallo, ma l’esempio che più frequentemente mi viene da citare è quell’urlo che udiamo quando c’è la libellula irretita nella ragnatela.
Lì si sente una voce violenta, stridula, quasi disperata che non è certo quella della libellula, ma è la voce di un pavone. A uno zoologo che avrebbe avuto da ridire sulla pertinenza di quel suono avrei potuto dire, come giustificazione, che proveniva da lì vicino. Ma la verità è che esprime, almeno per il nostro modo di percepire questi suoni lancinanti, l’idea del dolore, della disperazione. Ovvero, nell’uso che ne ho fatto io, essi sono funzionali ad esprimere lo stato di disperazione della libellula imprigionata senza più salvezza, che sta per essere uccisa dal ragno. Faccio insomma un uso funzionale dei suoni, anche a costo di far venir meno la coerenza scientifica.
All’inizio hai tenuto a sottolineare l’importanza dei suoni nel tuo cinema. Fra essi, nel Pianeta azzurro, appare anche la voce umana, non come strumento di narrazione ma anch’essa come suono.
È vero; anche la parola umana, sebbene raramente usata nel Pianeta azzurro, ha una funzione espressiva fondamentale per la sua valenza fonica. Ti faccio solo alcuni esempi: dopo il suono dell’acqua che scorre sempre più velocemente e dopo i suoni degli animali si sentono alcune parole tronche dei giovani sdraiati nel prato e soprattutto i gemiti d’amore della ragazza. Dopo i pesanti rumori meccanici delle macchine agricole si sente il conversare incomprensibile ma familiare degli uomini e delle donne nella cascina. Nelle sequenze notturne, dopo il russare dei dormienti si sente a lungo il pianto sconsolato della ragazza nel letto. E poi il vociare allegro dei bambini nel risveglio mattutino. E infine le urla violente dei contadini che litigano per la spartizione della terra. Ma tutto senza ricorrere ad un linguaggio letterario e narrativo. Uso i suoni e le voci come in un concerto polifonico. Il pianeta azzurro è un “concerto audiovisivo” o un “film videosinfonico” senza musica strumentale. Un’eccezione, e una sperimentazione unica nel campo del lungometraggio.
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