Non c’è sito di giornale che non ospiti in questi giorni qualche video ripreso dal processo che vede coinvolti Johnny Depp e Amber Heard. Non c’è contatto social che non rilanci qualche estratto delle udienze che si susseguono, e che ci dicono le cronache vedono sempre più certa la vittoria almeno mediatica di Depp e la caduta di buona parte delle accuse che Heard aveva mosso contro di lui. 

Inutile qui definire una colpa o meglio addirittura una giustizia che riguardi la loro relazione, ci penserà l’aula del tribunale. Certo è che noi da spettatori di questo processo ovvero di quella che può essere definita a pieno titolo, una non propriamente brillante messa in scena, ci ritroviamo sostanzialmente dalla parte di Johnny Depp. I suoi occhi profondi, vergati anche nei momenti peggiori di dissacrante ironia sono il centro di buona parte delle riprese.

Come risponderà Depp? Che faccia farà per la dichiarazione di tal testimone? Come reagirà alle analisi del perito di turno? Inutile negarlo, ma lo spettacolo è di Johnny Depp quale interprete e autore. E di conseguenza ad uso e consumo del suo pubblico che inevitabilmente lo segue ormai dagli anni Novanta quando Edward mani di forbice di Tim Burton rese sostanzialmente immortale l’attore americano.

Le caramelle gommose portate in aula da Johnny Depp

Depp è forse l’unico della sua generazione che è stato in grado di tenere insieme carriera e dannazione, merito probabilmente anche di un disincanto che viene da frequentazioni rare e preziose. Su tutte l’amicizia con il grande scrittore e reporter Hunter Thompson e l’incontro che lo legò – anche per merito della gran cassa degli uffici stampa hollywoodiani (sempre siano lodati) a Marlon Brando, uno che fu in grado di assurgere all’aggettivo mitico smontando in ogni decennio della sua carriera i motivi della sua stessa mitologia.

Il confronto processuale tra Amber Heard e Jonnhy Depp ci riporta alla memoria – noi perenni spettatori dei fatti altrui – il processo per omicidio intentato al figlio di Brando, Christian, colpevole dell’uccisione del fidanzato e spacciatore della sorellastra Cheyenne Brando, anche lei caduta nella trappola di un cognome – e quindi di un ruolo – troppo grandi da sostenere in vita.

Erano i primi anni Novanta, Brando era un mito, ma al tempo stesso era la sua stessa dissacrazione (e pure dissociazione a dirla tutta). Il processo vide imputato e vittime relegati al ruolo di semplici comparse delle espressioni facciali, del tono di voce e chiaramente delle dichiarazioni stesse di Marlon Brando. Quel processo fu definito la sua ultima grande prova d’attore, là dove la recitazione si mischia carnalmente e inestricabilmente con la vita. Brando fu tutt’altro che freddo, tutto traspariva dal suo volto. Il dolore e i sensi di colpa vergavano anche il suo corpo malandato e obeso. Certamente recitava, controllava le proprie espressioni, ma ognuna di queste erano liberate, sentite e trasmesse. Il suo è stato un saggio in vero stile Actors Studio, ma è stato anche il segno evidente di un imbrigliamento da cui non poteva più liberarsi. Brando non poteva che essere un attore, nonostante il suo sottrarsi anche in uno dei momenti più tragici e intimi della sua esistenza ricompariva dentro di lui l’animale della recitazione a difenderlo e a proteggerlo, ma anche ad esporlo come sempre davanti al proprio pubblico. Lo strazio di un’intimità sconosciuta in pratica solo a se stesso era l’ultima cosa che gli restava e che provò a difendere con tutta la sua forza funebre e decadente, come riveleranno anni dopo la pubblicazione dei nastri di una sorta di audio autobiografia da lui composta attraverso un magnetofono.

Ora, perché si è sviluppata questa apparente solidarietà con una figura tendenzialmente altrettanto  autodistruttiva come quella di Johnny Depp? Considerato oltretutto che questa forma autodistruttiva coinvolge inevitabilmente chiunque ruoti attorno a lui e alle sue giornate. È forse per il suo il suo innegabile fascino che nemmeno le squallide e miserevoli storie che ormai circolano sulla sua vita intima sembrano scalfire? Ormai si sa quasi tutto di come Depp ami vivere e di come tenda a passare le sue giornate, almeno quando non è occupato su qualche set cinematografico. E il ritratto che ne esce non è proprio da immaginario hollywoodiano nel senso del Martini dry e dei blazer di Errol Flynn, ma diremmo più vicino ad una periferia metropolitana come agricola in cui modi spicci, alcol di bassa qualità e una buona dose di violenza più o meno repressa sono all’ordine del giorno e della quotidianità dello sbandato di turno o come si diceva un tempo del matto del paese.

Forse si potrebbe a questo punto delineare una possibile quanto inevitabile – anche al tempo dello schwa – solidarietà maschile. Che forse proprio perché vede il maschio messo sotto attacco nel suo ruolo di patriarca si fa sentire ancora più fortemente. Ma anche in questo caso, e anche se nonostante tutto, il patriarcato viva e lotti insieme a noi, sembrano tutti aspetti marginali che non a caso a nulla sono serviti anche con figure meno contraddittorie di Depp, e anche più potenti. Sicuramente questa forma di fiducia, di solidarietà e se vogliamo di affinità va ricercata nel corpo maschile, ma in questo è necessario calarlo in un contesto ben preciso, bisogna tornare agli anni Novanta.

Mentre Marlon Brando grasso e sfatto agitava gli ultimi colpi d’ala in un processo comunque tragico e atroce per gli attori coinvolti e la gravità del crimine discusso, una nuova generazione di artisti, attori e musicisti si stava affacciando sui palchi e lo faceva con una grazia disperata e con una delicata violenza che lasciava attoniti. Erano corpi magri e fragili attraversati da una tensione nervosa mai vista prima in quelli che erano giovani e figli. Un dolore che pareva pronto ad esplodere di rabbia da un momento all’altro, ma che sorprendentemente prese la via opposta, quella dell’implosione.

La rabbia non venne espulsa, ma anzi trattenuta dalla disperazione. Li chiamavano grunge per utilizzare un termine efficace quanto superficiale. Erano bellissimi e un dolore atroce li stava piano piano uccidendo da dentro, uno a uno. Per chi era loro spettatore erano degli eroi, come lo potevano essere solo dei fratelli maggiori. Da Kurt Cobain a River Phoenix per citare forse i più emblematici. Fratelli maggiori, ma anche fratelli già ai margini di ogni discorso, nonostante la bellezza, l’intelligenza e la grazia. E Johnny Depp era uno di loro, o meglio era con loro: nella musica, negli eccessi, nell’eleganza di un desiderio privo di ambizione e di desideri. Erano in cerca forse solo di salvezza, di una possibile via di fuga.

Così, più si viene a sapere della vita di Johnny Depp e più lo si riconosce esattamente come uno di quei fratelli. Che siano gli aspetti più squallidi o disdicevoli ad essere noti non conta, perché proprio quel lato della sua vita lo rende vivo e credibile davanti ai nostri occhi. È la verità più che la disperazione della sua vita a colpire. La fragilità del suo equilibrio che è in parte nostra e che in parte sappiamo anche riconoscere appartenere a chi – quando noi eravamo piccoli – già faceva giochi da grandi. Che si stavano facendo un gran male lo abbiamo capito quasi subito e quasi tutti, che siano stati loro a farcelo capire lo intuiamo ogni giorno che passa, e questo processo lo rende ancora più evidente. Il viso invecchiato e gonfio di Depp non sembra che restituirci il medesimo avvertimento: a sbagliare c’è sempre tempo.

È come tornare a quei giorni in cui si sperava che avremmo potuto salvare nostro fratello, quello più bello e più intelligente di noi. Lo stesso che non sembrava mai funzionare, quello che sembrava rotto dentro senza motivo alcuno. A quel tempo si stava in uno scampolo di giovinezza, in un tempo depressivo che chiudeva il Novecento con la pesantezza di una porta stagna.

Era in corso l’ultimo ballo per dei vecchi che si stavano portando via per sempre l’eleganza e la joie de vivre. Non eravamo invitati a quel party, ma tutti sapevamo che sarebbe stata anche per noi l’ultima festa. Sarebbe stata per noi ancora giovani, già l’ultima volta in cui avremmo potuto partecipare senza bisogni e necessità, senza piaceri da chiedere o clemenze da supplicare. Saremmo stati in disparte osservando come i nostri fratelli se la potevano giocare, loro che erano grandi, questa ultima chance. Ci sarebbero sembrati bravi, forti e soprattutto felici. Avremmo capito cosa è una vera festa e poi anche cosa può costare una vera festa. Il loro corpo divenne così il nostro filtro sulle cose e sulla vita.

E ora questo tedioso e pure noioso divorzio tra Depp e Heard sembra sigillare quel 18 novembre del 1993 quando i Nirvana si esibirono per l’MTV Unplugged. Tornano negli occhi i golfini infeltriti di Kurt, gli occhi tristi che ridono privi di speranza sostenuti soltanto dalla stupidità e dalla disperazione di essere miracolosamente per sempre giovani e giovane.

Depp oggi ha quasi sessant’anni e la fatica del suo stare al mondo si mischia con la fatica di un corpo appesantito da chili che lo rendono solo la triste parodia di quel cocaine style che lui stesso rappresentò al tempo della relazione con Kate Moss. E non è certo contro Amber Heard e la sua disperazione che si parteggia per lui, anzi per l’opposto motivo. Innamorati perenni di splendide donne come Amber Heard che regolarmente nella migliore delle ipotesi si mandano ai matti, assistiamo speranzosi che quel vecchio ubriacone, squilibrato e uomo sciocco di Johnny Depp possa resistere anche questa volta a se stesso, per provare per l’ennesima volta a fare meno male agli altri e nel caso anche a se stesso. 

Obbligato all’eccesso, anche del ridicolo, guardiamo a questo nostro fratello maggiore che in qualche modo, aprendoci la strada, ci ha offerto la possibilità di qualche grammo di sensatezza in più. Guardiamo alla sua tristezza come chiave possibile della nostra felicità.

Siamo fratelli cannibali che bruciano la sua arte sporcata e illuminata dalla vita in cambio di un po’ di pace in più per noi. E alla fine inermi sul divano, non è altro che la nostra vittima che ancora resiste che stiamo osservando. E forse le cose stanno proprio così, non c’è nessuna vera affinità a motivare i nostri sentimenti Siamo semplicemente il suo pubblico e che come tale decide sempre per ultimo. E a lei, ad Amber Heard di cui non ricordiamo già più nulla, non lasciamo che l’ennesima parte da comparsa. Il tutto per tenere a bada i nostri spettri, ombre di uomini invecchiati rapidamente per abuso di paure trangugiate tutte insieme, giusto appena dopo uno sparo micidiale.

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2 commenti

  1. un’analisi perfetta d questi anni. chi ha vissuto abbondantemente nel 900 riconoscerà il Marlon Brando già triste e fuori posto di “Ultimo Tango” , che ha già in sè l’angoscia degli ultimi anni , i brutti film , trascinare il passato inutilmente, le beghe familiari da teatro greco, e poi il J.Depp piacevole pirata duro vederlo così , truccato e gonfio e probabilmente rincoglionito dal denaro e dalla fama. che ne è dello splendido pirata caraibico? O del ragazzo con la mamma obesa il cui peso sfonda il pavimento e delle tre macchine minacciose all’orizzonte?
    sembra che i nostri eroi finiscano le loro giornate nell’inferno.
    mi ha messo tristezza questo articolo , ha mosso dei sentimenti per cui penso proprio che sia molto buono.

  2. Questo personaggetto da palude metropolitana – e sono gentile – non merita nemmeno il più volgare degli insulti.
    Purtroppo, ha un seguito di massa perché la gente è fondamentalmente ignorante, mafiosa e priva di etica.

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giacomo.giossi@gmail.com

Giacomo Giossi è responsabile editoriale di cheFare. Scrive per quotidiani e riviste.

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