
I’ve always been true to you.
Morrissey
di Edoardo Pisani
Questo è un pezzo imperfetto e innamorato. Ho scoperto Morrissey grazie a Arto Saari, che nessuno sa chi sia e che di fatto è uno skater professionista, a suo tempo uno dei migliori al mondo, nel 2003, quando avevo circa quattordici anni, all’uscita di Really Sorry, un video della Flip, che è una marca di tavole da skate. Really Sorry, che segue Sorry (2002) e precede Extremely Sorry (2009), comincia proprio con la videopart di Arto Saari e con una canzone degli Smiths, Handsome Devil. La voce strascicata e maledetta di Morrissey canta: “There is more to life than books, you know, but not much more… There is more to life than books, you know, but not much more… Ooh you handsome devil…” – mentre Arto Saari chiude dei flip, dei grind, dei backside tailslide, dei nollie backside heelflip e così via, fino alla fine della canzone e alla scritta due to unforseen circumstances, Arto’s filming was cut short. Ero un adolescente timido, allora, e andare sullo skate era tutto quanto volessi fare nella vita, fra scalinate e muretti e cadute rovinose e ossa rotte; amavo la mia tavola più delle ragazze, più di qualunque amico, più della famiglia, più dei miei pochi libri, più della salute. Ora skateo solo di tanto in tanto, e con meno foga e più paura di prima, con più dolore ai ginocchi e alle caviglie e ai muscoli, e ormai ho talmente tanti libri da non poter vivere abbastanza a lungo per finire di leggerli, neanche se morissi a novant’anni, e preferisco loro, i libri, allo skateboard. Eppure continuo ad ascoltare Handsome Devil e ogni altra canzone degli Smiths e di Morrissey, proprio come quando avevo quattordici o quindici o sedici anni – con lo stesso incanto.
Le ascoltavo tutte. Avevo comprato ogni cd degli Smiths e di Morrissey su cui potessi mettere le mani, e mi ero fatto un quaderno (che ho ancora) con i testi delle canzoni più belle stampati e tradotti da me stesso, ma male. Grazie a Morrissey ho imparato l’inglese, pasticciandolo in italiano. Grazie a Morrissey ho letto Wilde, Keats, Yeats, Byron, Shelley, Shakespeare, Woolf, Eliot, Auden e insomma qualunque poeta o scrittore inglese che in qualche modo mi potesse avvicinare a lui. L’ho visto quattro volte in concerto, a Roma e a Napoli e a Parigi, e conservo in un cassetto un triangolino di una sua camicia lanciata dal palco dopo There is a light that never goes out, il 14 ottobre del 2014, a Roma. Grazie a Morrissey, fin dal 2003, fin dai miei indocili quattordici anni, fra tavole di skate spaccate e libri e versi letti e amati e imparati a memoria, ho capito cosa significhi essere davvero ribelli e liberi, davvero padroni di se stessi (“Irish blood, English heart, this I’m made of, there is no one on earth I’m afraid of, and I will die with both of my hands untied”), davvero unici. Grazie a Morrissey ho compreso il vero significato della parola compassione e della parola forza, o coraggio, oppure fegato, perché “it’s so easy to laugh, it’s so easy to hate, it takes guts to be gentle and kind”. Grazie a Morrissey ho imparato a essere buono, nel senso più nobile del termine, innanzitutto con me stesso, senza dannare la mia solitudine.
Avevo quindici e sedici e diciassette e diciotto anni e amavo Morrissey e gli Smiths. Crescevo e cambiavo gusti e letture e smettevo di andare sullo skate (per una malattia) e cominciavo a scrivere sul serio e tuttavia Morrissey restava. Perdevo la verginità e ascoltavo Handsome devil e Girlfriend in a coma, non più pensando a Arto Saari. Perdevo la ragazza con cui avevo perso la verginità, che ogni tanto sento ancora, e Morrissey era sempre lì, pronto a consolarmi: “I lost my faith in womanhood, I lost my faith in womanhood…” Venivo operato e dimesso e rischiavo la follia, delirando con Rimbaud, a Charleville, anni dopo, anni fa, e ascoltavo ancora Morrissey: A Rush And A Push And The Land Is Ours (“I am the ghost of Troubled Joe, hung by his pretty white neck some eighteen months ago…”). Rubavo libri nelle librerie della Mondadori o della Feltrinelli e mi chiedevo se Morrissey sarebbe andato d’accordo con Roberto Bolaño, un grande ladro di libri, uno shoplifter (Shoplifters of the world unite!) – e viceversa: Bolaño sarebbe piaciuto a Morrissey? E a Flaiano (Ennius Flaianus!), che anche amava Oscar Wilde, come lo stesso Morrissey, sarebbero piaciuti i testi degli Smiths (o gli avrebbe preferito Leonard Cohen e Cat Stevens, che usa in Oceano Canada, il magnifico documentario girato/scritto poco prima di morire?)? E Anna Magnani e Pasolini, omaggiati in You have killed me – a loro piacerebbe Morrissey? E Elsa Morante, la grandissima Elsa Morante, che di certo preferirebbe il suo amato Mozart al mio Moz (Moz è uno dei nomi d’arte di Morrissey) – mi perdonerebbe la mia passione/ossessione morrisseyana? E Amelia Rosselli, che mi ha insegnato ad ascoltare la musica classica e a considerare “la sillaba non solo come nesso ortografico ma anche come suono e il periodo non solo come costrutto grammaticale ma anche come sistema” – cosa ne direbbe delle ballate degli Smiths? E delle opinioni più estreme di Morrissey, considerate a torto o a ragione “destrorse”, “fasciste”? (“Bengali, Bengali, shelve your western plans and understand…”)
Ascoltavo Morrissey e gli Smiths e rubavo libri e dischi nei negozi, come la Holly Golightly di Colazione da Tiffany (come la stessa Amelia Rosselli, ho letto in Miss Rosselli, il memoir di Renzo Paris), perché “il furto, quando tutto è andato bene, mette euforia”, scriveva Truman Capote, e Morrissey avrebbe aggiunto: “Shoplifters of the world unite and take over”, ovvero “ladruncoli del mondo intero unitevi e fatevi valere” (o take over the world, cioè conquistate il mondo?). Avevo sedici anni e Morrissey mi aveva insegnato a farmi valere, a conquistare il mio piccolo mondo personale, che poi è il mondo intero per qualunque ragazzo, fra libri e canzoni e versi struggenti e film in bianco e nero e snobismi e amori e tombe (“So I meet you at the cemetry gates…”) e ironie e solitudini incantante. I miei compagni di classe o di quartiere, i pochi con un libro in mano, leggevano perlopiù vomitevoli romanzi sulla criminalità romana, convinti di essere fascisti (e quanti danni hanno fatto alla mia generazione i libracci e i filmacci di Michele Placido e compagnia bella, negli anni dieci, supposti artisti “di sinistra” che ci hanno costretti a crescere fra aspiranti picchiatori e fascistelli improvvisati, istruendoli con libri e film e serie tv violentissime e di bassa qualità); io leggevo Oscar Wilde e Pasolini e Elsa Morante e Dario Bellezza e soprattutto Ennio Flaiano e ascoltavo Morrissey e i Clash e Gainsbourg e De Andrè e Battiato e De Gregori, ed ero (e sono rimasto) snob, proprio come Morrissey (la maggior parte dei miei ex compagni di classe e di quartiere sono rimasti più o meno gli stessi fascistelli di prima, palestrati e incolti, solo più vecchi, senza la grazia dello sweet and tender hooligan di Moz; e quando penso a Michele Placido o a Giancarlo De Cataldo e alla loro nefasta influenza sulla mia generazione mi viene voglia di spaccar loro la faccia con lo skate, perché la violenza pensata, che per me è l’unica violenza possibile, non è estranea a Morrissey, che massacrerebbe sia De Cataldo che Placido che i loro fascistoidi personaggi – ma “Sweetness, sweetness, I was only joking when I said I’d like to smash every tooth in your head…”).
Quanti erano i “duri” o supposti tali nella mia adolescenza! E quanta stupida paura mi facevano, a ripensarci, con la loro violenza! Chissà cosa ne avrebbe detto un altro duro, lui sì splendido e morrisseyano e “duro” veramente, sulla pagina e nella vita, Pier Vittorio Tondelli, che scriveva: “Non avrei mai immaginato tanta assorta tenerezza per quel duro che sono diventato.” È la frase finale di Radio On, un pezzo tratto da Quarantacinque giri per dieci anni, raccolta di testi “musicali” uscita da una costola di Un weekend postmoderno, nel 1987, dunque pochi anni prima che Tondelli morisse di AIDS, e si riferisce proprio a Morrissey. Tondelli, che sarebbe stato un bravo skater (e per me è il miglior complimento possibile che si possa fare a uno scrittore), è a Parigi e si intenerisce ascoltando Viva Hate, il primo disco solista di Moz dopo la scissione degli Smiths, vagando fra i treni e le vie della banlieue. “L’ho risentito ieri notte, in una casa amica” scrive poi, di ritorno in Italia. “Eravamo allungati sul divano al buio, e guardavamo il passaggio veloce delle nuvole dagli ampi finestroni del tetto. Erano bianchissime. Passavano da un pannello all’altro come tante diapositive di un multivision computerizzato. La voce di Morrissey – che non mi sarei mai aspettato in quel loft – era perfetta. Non avrei mai immaginato tanta assorta tenerezza per quel duro che sono diventato.” Viva Hate, viva l’odio, è uno dei migliori dischi di Morrissey (ma sono tutti splendidi), e comprende la leggendaria Everyday Is Like Sunday, fra le più belle poesie in musica che siano mai state scritte e cantate (credo di aver visto oltre trenta versioni live di Everyday Is Like Sunday, su YouTube, tutte indimenticabili – “Trudging slowly over wet sand, back to the bench where your clothes were stolen…”).
Nel corso degli anni la mia Famiglia Morrissey, la mia Famiglia Smiths, un cerchio di amici immaginari che si riunisce intorno a Moz, si è allargata. Comprende Kevin “Spanky” Long, per esempio, un altro skater professionista, che nel video Baker 3 (2005) skatea fra le note e i versi di Glamorous Glue (a proposito: online ci sono anche delle tavole di skate fatte espressamente per i fan di Moz, della Enjoi, e Trasher, la più famosa rivista americana di skateboard, ha intervistato Morrissey nel 2015), oppure Noel Gallagher (che ama gli Smiths e conosce personalmente Morrissey) e Frank e Nancy Sinatra (Nancy è amica di Moz) e naturalmente Johnny Marr e James Dean e Oscar Wilde e Billy Fury e Virginia Woolf (in Shakespeare’s Sister Morrissey riprende un passaggio di Una stanza tutta per sé) e J.K. Rowling (che adora Morrissey, e infatti alcuni personaggi della saga di Harry Potter sembrano dei fantasmi smithsiani, come Mirtilla Malcontenta o Luna Lovegood) e persino l’ex premier britannico David Cameron (un altro fan di Moz!) e Julia Riley (la più grande fan di Morrissey mai esistita, che ha creato il sito/rivista true-to-you, ora chiuso, e che per anni lo ha seguito ovunque, assistendo a oltre cento concerti) e Pasolini e Visconti e Tondelli e Sandie Shaw e Joey Barton (il calciatore-teppista, che compare nel video di I spent the day in bed) e Morricone e Shelagh Delaney e Quentin Tarantino (che è andato più volte ai concerti di Morrissey, ci sono i video online) e le New York Dolls e Timi Yuro e Pete Doherty e Nick Cave e Kirk Douglas e via di seguito, per infiniti nomi e volti e vite, famose e non (“Fame, fame, fatal fame, it can play hideous tricks on the brain”), che in un modo o nell’altro si sono ritrovati in Morrissey, nella sue parole e nella sua voce, nelle sue meravigliose canzoni: questa è la mia famiglia Morrissey.
Ma Morrissey è anche un pensiero, oltre che un cantante. Chi ama davvero Moz non dovrebbe mangiare animali, tanto per cominciare. La canzone Meat is murder, dall’omonimo album, è una ballata/orazione contro l’uccisione e la sofferenza degli animali nel mondo intero, da sempre una delle lotte di Morrissey, che non mangia carne dall’età di undici anni e che nei propri concerti mostra spesso delle immagini dei mattatoi, cantando Meat is murder. “Essere vegetariani è un gesto politico” ha detto nel 2005, a True-to-you, cioè a Julia Riley, che sarà una delle persone a cui dedicherà la sua autobiografia, “e quindi non può non influenzare la nostra vita. Diventando vegetariani si rifiuta uno stile di vita dominante. I vegetariani sono spesso antipatici perché provocano molte persone a fare ciò che non vorrebbero mai fare: pensare. […] In generale, io non riesco a sedermi a qualsiasi tavolo dove venga servita della carne, a meno che, ovviamente, non si tratti di carne umana.” Ai suoi concerti romani, prima di lasciarci accedere alla platea, degli addetti alla sicurezza frugavano negli zaini, per essere certi che non ci fosse carne di alcun tipo, panini al salame o al prosciutto o cotolette – vietati da Morrissey alle sue esibizioni. (Le armi invece erano probabilmente bene accette, perché “Hector was the first of the gang with a gun in his hand, and the first to do time, the first of the gang to die…”).
Morrissey unisce la purezza alla perversione, tanto nella sua musica quanto nella sua vita, che la sua musica narra. La sua “vita”, che non è soltanto la sua Autobiography (pubblicata in Inghilterra nella prestigiosa collana letteraria della Penguin Classics e non ancora tradotta in italiano, con grande vergogna per la nostra editoria, che a quanto pare preferisce stampare i libri di Elton John o di Jovanotti o di Pupo o di Justin Bieber), è un continuo ribellarsi alle ipocrisie del mondo musicale e culturale e politico e giornalistico, fra opinioni giudicate “scandalose” e grandi gesti estetici/artistici, come quando, rispondendo alle accuse di razzismo della rivista NME, che già accusava (stupidamente) Handsome Devil di essere una canzone “pedofila”, durante un concerto ha sventolato la bandiera del Regno Unito, la Union Flag, quasi fosse il mitico David di The National Front Disco, che grida: “England for the English!… England for the English!…”
L’Inghilterra agli inglesi e Morrissey ai morrisseyani. Quanto mi sono care le sue interviste, le sue opinioni, giuste o sbagliate che siano, tanto più se “sbagliate”, se considerate troppo estreme o fasciste o razziste o sprezzanti, perché io lo difenderò sempre, qualunque cosa dica o abbia detto o dirà. E Morrissey dice: “Una legge non scritta afferma che non si dovrebbe mai ammettere di aver avuto un’infanzia infelice. Bisogna far finta di essersi divertiti un mondo. Io mai. Non voglio elemosinare solidarietà, ma facevo fatica ad avere qualunque minima amicizia.” E dice: “Avevo una camera piccolissima, e in certi periodi, tra i diciotto e i diciannove anni, non uscivo letteralmente per tre o quattro settimane. Restavo lì dentro giorno dopo giorno, il sole era cocente e io avevo le tende chiuse. Me ne stavo seduto da solo, quasi al buio, con la macchina da scrivere, circondato da tantissima carta.” E dice: “Mi sono immerso nella musica in tenerissima età, e sono rimasto lì.” E dice: “Devo stare da solo. Non riesco proprio a sopportare la compagnia degli altri per troppo tempo.” E: “Sono sempre stato attratto da persone con i miei stessi problemi. Non è d’aiuto quando la maggior parte di loro sono morte.” Oppure: “Se George Michael avesse vissuto la mia vita per cinque minuti, si sarebbe strangolato con il primo pezzo di corda a portata di mano.” E ancora, sul sesso: “Mi rifiuto di riconoscere i termini etero, bi e omosessuale. Tutti hanno esattamente gli stessi bisogni sessuali. Le persone sono semplicemente sessuali, il prefisso è irrilevante. I prefissi precludono troppo.” E: “Non sono completamente contrario alla violenza. In certi casi estremi, può essere necessaria. Direi che la violenza in nome della campagna per il disarmo nucleare è assolutamente necessaria, perché ogni tipo di comunicazione tramite metodi pacifici viene derisa e trattata con violenza assoluta da parte del governo. Credo che ormai sia tempo di combattere il fuoco con il fuoco e attaccare con forza. Non penso che questo sia terrorismo, si tratta piuttosto di autodifesa.” E, sul vegetarismo: “Restiamo violentemente turbati quando gli animali mangiano gli uomini, è orribile, è terrificante. Ma allora perché non dovremmo provare orrore quando gli uomini mangiano gli animali?” E infine: “Tutto ciò che c’è da vivere si aggira sui marciapiedi, da qualche parte. L’ho sempre creduto e lo credo tuttora” – frase che riporta all’incipit della sua autobiografia: “Mi childhood is streets upon streets upon streets upon streets…”
Morrissey è un anarchico, un ragazzo di strada. La sua musica mette l’odiata Margaret Thatcher sulla ghigliottina, mozzandole la testa (Margaret On The Guillotine), e si cala i pantaloni davanti al mondo intero (Nowhere Fast: “I’d like to drop my trousers to the world…”), oppure sputa su Oliver Cromwell (Irish Blood, English Heart) e prende a colpi d’ascia i reali inglesi, la monarchia (The Queen Is Dead, Low In High School). Morrissey vuole che i suoi seguaci siano liberi e solitari, come canta in I Wish You Lonely, fra le sue più belle canzoni degli ultimi anni: “I wish you lonely, like the last tracked humpback whale, chased by gunships from Bergen, but never giving in, never giving in!” I morrisseyani non devono arrendersi, come le ultime balene inseguite dalle navi da caccia norvegesi: devono o combattere o fuggire, ma con la grazia degli ultimi, degli esclusi, dei paria, degli animali in estinzione, delle balene che moriranno, comunque rivoltandosi. Lui, Morrissey, ci sarà sempre, per noi, impugnando una torcia nell’angolo delle nostre stanze buie (Rubber Ring: “I’m holding the torch in the corner of your room, can you hear me?”), delle nostre inquiete depressioni, e cantando nei nostri cuori e nei nostri ricordi, accompagnando le nostre vite. Avevamo quindici anni e lo ascoltavamo. Ne abbiamo trenta, l’età che James Dean, amato dal giovane Moz, non ha raggiunto mai, e lo ascoltiamo. Avremo cinquant’anni e ascolteremo ancora gli Smiths e Morrissey, la sua voce dolce e inafferrabile, la sua rabbia e la sua malinconia, che sono anche le nostre. Morrissey sorride. Le sue canzoni non sono cambiate, e resistono al tempo, alle mode. Chiudiamo gli occhi, sdraiati nelle nostre stanze, e lo vediamo muoversi con eleganza sopra il palcoscenico, cioè sul soffitto, tutt’intorno al letto, come quando era ragazzo, dimenandosi e commuovendosi. E le sue canzoni ci dicono: “I’ve always been true to you, in my own strange way, I’ve always been true to you, in my own sick way, I’ll always stay true to you…” Sono le ultime parole di Speedway, uno dei suoi testamenti artistici, un canto d’amore per il suo pubblico, per noi. La canzone è finita. La musica si interrompe e cominciano gli applausi, le urla del nostro concerto immaginario. E allora, finalmente, possiamo riaprire gli occhi. La stanza, come la nostra solitudine, come il mondo intero, è immersa nell’oscurità. È notte fonda. L’eco dei versi di Morrissey (Sing me to sleep, sing me to sleep…) si confonde con il silenzio, con questo buio che forse mai finirà. Dopodiché, cullati dalle note di Asleep, ancora pensando alle parole di Speedway (“I’ve always been true to you, in my own sick way, I’ll always stay true to you”), ci giriamo su un fianco e ci addormentiamo. There is a better world, canta piano Morrissey, scomparendo insieme a noi, there is another world, well there must be, well there must be…
Edoardo Pisani, nato a Gorizia nel 1988.
Arto Saari su minima&moralia!
Il grande Arto Saari (!), con Handsome Devil: https://www.youtube.com/watch?v=e-QRGpEwxUE&t=32s (“Oh, there’s more to life than books, you know, but not much more, not much more…”)
E io a 14/15 anni, con Land of The Free dei Pennywise: https://www.youtube.com/watch?v=02IBhBQLAkc&t=2s (“Non avrei mai immaginato tanta assorta tenerezza per quel duro che sono diventato”, scriveva Tondelli…)
Bell’articolo. Ho scoperto Morrissey nel 1987, ora ho cinquant’anni e ascolto la sua musica quotidianamente da quel dì. Viva hate!
Grazie – e viva Moz!
E il grande Arto Saari, con Handsome Devil: https://m.youtube.com/watch?v=e-QRGpEwxUE (“Oh, there’s more to life than books, you know, but not much more, not much more…”).
E io a 14/15 anni: https://www.youtube.com/watch?v=02IBhBQLAkc&t=2s (“Non avrei mai immaginato tanta assorta tenerezza per quel duro che sono diventato”, scriveva Tondelli…).
Ma a Roma nel 2014 non l’ha mica fatta There is a Light That Never Goes Out,in nessuna delle due serate…
Grazie Pete. Sicuro? Io me la ricordavo; però forse, nel furore della scrittura (e del ricordo) ricordavo male – ero a entrambe le serate eppure a pensarci non ho la certezza/certezza/certezza dei pezzi cantati; al momento, in questa stanca mezzanotte, sono solo sicuro della camicia tagliuzzata e di alcuni brani, specialmente di Trouble Loves Me, che fu splendida: Then at midnight / I can’t get you out of my head / a disenchanted taste / still running ‘round… E in ogni caso, da Cemetry Gates: “There’s always someone, somewhere / with a big nose, who knows / and who trips you up and laughs
/ when you fall…” Grazie ancora! E grazie anche a Giacomo (sullo skate: https://www.youtube.com/watch?v=02IBhBQLAkc&t=65s – “Non avrei mai immaginato tanta assorta tenerezza per quel duro che sono diventato”, scriveva Tondelli) e a Jaap (W Hate e w Moz!).
Beh, io potrei citare “Frankly Mr. Shankly” poichè “I didn’t realize that you wrote poetry, I didn’t realize that you wrote such bloody awful poetry”. Ma non sarebbe la verità: il tuo pezzo è fantastico, detto da chi ha scoperto gli Smiths negli stessi anni in cui li hai scoperti tu, seppur con qualche anno in più sul groppone.
Sul mio commento precedente, nulla mi avrebbe fatto più felice della certezza di aver ascoltato almeno una volta nella vita QUELLA canzone cantata da Morrissey (in quattro concerti pure io finora, più uno annullato), ho potuto ascoltarla dal vivo solo dal suo fu sodale, parimenti stimato, Marr. Di quella doppietta romana del 2014, ricorderò con amore soprattutto proprio Trouble Loves Me, Speedway e Asleep. Ciò che non potrò mai scordare, però, è l’altra dimensione dove Morrissey mi spedì durante I know it ‘s over due anni prima alla Cavea, un momento in cui non vi era più nulla e nessuno tutto intorno, in cui ho avvertito non un brivido ma una gelata intera in una serata caldissima, avevo il groppo in gola e tanta gratitudine. Per lui, per gli Smiths, per la loro musica. Per sempre.
Grazie ancora, Pete; in realtà il pezzo a tratti è un tour de force “autobiografico” (Sing Your Life: Oh, make no mistake my friend / all of this will end / so sing it now, sing your life, / all the things you love, sing your life…”). Alla Cavea non c’ero, ero per l’appunto a Parigi, ma è bello leggere del tuo concerto “magico” e di I Know It’s Over, pezzo che adoro; è bello conoscere altri morrisseyani, online e nella vita “reale”, ai concerti. Anche quest’anno Morrissey ha purtroppo annullato/rimandato (ma non per colpa sua) il concerto parigino, a cui sarei voluto andare. Comunque speriamo che perdoni l’Italia e torni presto a cantare e a stare da noi, dopo il fattaccio di Via del Corso (And now I am walking through Rome / and there is no room to move / but the heart feels free / the heart feels free…).
A proposito di Speedway e video di skate, per concludere: https://www.youtube.com/watch?v=5ZdsdeY5N40
Grazie Giacomo! Che connubio, Heath Kirchart (io lo adoro in This Is Skateboarding, con Shinda Shima) e la strepitosa Speedway di Morrissey!
Grazie, bello e appassionato articolo. Ho un po’ di anni più di te, e ho avuto la fortuna di assistere al concerto degli Smiths a Roma nel 1985. Restò l’unico che nella loro carriera tennero in Italia.
Ricordo un’atmosfera intensa, pubblico caldissimo e Moz che cantava, ballava con lunghi mazzi di fiori nella tasca posteriore dei suoi jeans.
E ancora oggi il bootleg di quella serata mi commuove.