Pubblichiamo, ringraziando la casa editrice Tamu, un estratto dalla nuova edizione di “Perdi la madre” di Saidiya Hartman con la traduzione di Valeria Gennari. Con l’occasione diffondiamo una notizia importante riguardante la casa editrice che da aprile 2026 cambia il suo nome e diventa “Tangerin”, come il mandarancio.
Un nome che segna l’evoluzione del progetto editoriale nato a Napoli nel 2020, in continuità con il percorso originario ma aperto a nuove direzioni e sviluppi. Il mandarancio: metafora di viaggi e genealogie nascoste
La scelta del nome non è casuale. Il mandarancio è un frutto percepito oggi come tipicamente mediterraneo, ma che in realtà ha radici asiatiche e una storia diasporica fatta di migrazioni, incroci e trasformazioni culturali. Come altri agrumi è approdato sulle nostre coste attraverso le rotte dei mercanti arabi, genovesi, portoghesi e inglesi. Da lì ha poi continuato il suo viaggio verso il Nord America partendo dal porto di Tangeri – città da cui deriva il termine inglese tangerine, usato oltreoceano per designare il mandarancio. Un frutto ibrido, quindi, nato da viaggi e mescolanze, che smonta identità fisse e rivela genealogie dimenticate: una metafora che sentiamo affine alla nostra casa editrice, che fin dagli inizi si occupa di narrazioni che attraversano confini e mettono in discussione categorie consolidate.
Il catalogo di Tangerin continuerà a ospitare libri che parlano di sud, classe, migrazioni, ecologie radicali, antirazzismo, decolonialità, linguaggi queer e pratiche femministe. In un presente segnato da rigurgiti identitari e confini chiusi, Tangerin ci permette di rimettere in circolo la nostra traiettoria, raccontarla come qualcosa che si muove, che muta, che si contamina. Il punto di vista privilegiato resterà quello radicato nel Sud Italia e nel Mediterraneo. Ma si aprirà anche a nuove traiettorie con la nascita della rivista R/est,un viaggio polifonico e partecipato nell’area balcanica, tra storia, attualità e cultura, che racconta voci locali, sfida stereotipi e intreccia reportage, narrazioni e immagini.
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Come molti bambini neri, io e mio fratello avevamo imparato una serie di lezioni contraddittorie sul nostro paese e sul nostro posto all’interno di esso. L’immagine del mondo che mia madre ritraeva era un mondo di infinite possibilità e di assoluti limiti. La sua visione dell’America era un amalgama di sogni e incubi: cieli spaziosi, onde ambrate e neri che pendevano dagli alberi. Ho ereditato questa visione. La mia percezione dell’essere nera era data da una qualche rudimentale nozione di noi e loro, che veniva chiarita ogni volta che mia madre parlava del governatore Wallace, dei Consigli dei Cittadini Bianchi, della sua vita in Alabama, o quando assistevo all’ansia che le riempiva il corpo mentre guardava il telegiornale della sera in attesa di una notizia o di una qualche nuova terribile cosa che era accaduta ai neri, o di qualche crimine di cui eravamo stati accusati. Mia madre era cresciuta in un contesto in cui la violenza dei bianchi era qualcosa che davi per scontato e facevi del tuo meglio per evitare. Ci aveva insegnato la lezione che sua madre aveva insegnato a lei: «Fa’ attenzione. Il mondo dei bianchi non vede che pelle nera». Le storie di mia madre erano diventate le mie. Presto avrei avuto le mie, di storie, con i miei nomi. Nessuna delle lezioni impartite da mia madre aveva a che fare con la politica radicale, almeno non ufficialmente. Era un’integrazionista e una persona combattiva; assieme a mia nonna aveva partecipato al boicottaggio degli autobus a Montgomery. Eppure la mappa del potere razziale in America che mi aveva consegnato poteva benissimo essere stata presa da un manuale del Black Power. Solo in questo caso, forse, io e mia madre vedevamo il mondo allo stesso modo. Anch’io lo vedevo governato dalla linea del colore. Era un mondo in cui la nerezza veniva spesso tradotta in «nessun essere umano coinvolto». Anche io vivo nell’epoca della schiavitù, e con questo voglio dire che vivo nel futuro che essa ha creato. Questo futuro è la crisi della cittadinanza ancora in atto. Le domande poste per la prima volta nel 1773 sulla disparità tra «il sublime ideale di libertà» e la «realtà vissuta della nerezza» sono incredibilmente attuali oggi. I loro echi potevano essere uditi nella supplica, ancora in attesa di una risposta, lanciata da un tetto del nono distretto di New Orleans: «Aiuto. L’acqua sta salendo. Vi prego». Sei persone sono intrappolate sul tetto e due di loro stanno sventolando bandiere americane, sperando contro ogni probabilità che le stelle e strisce possano rendere visibile la loro situazione, tenerle a galla, e dimostrare in maniera inequivocabile: «Siamo cittadini anche noi». Ma l’ansia e il dubbio che alimentavano questa affermazione furono rese evidenti dalla didascalia della foto: «Naufragati». La storia non si dispiega in modo che un’epoca sia legata e preluda a quella successiva in un’ininterrotta catena di causalità. Essa è «senza provvidenza né causa finale», scrive Foucault. «Ci sono solo ‘le mani d’acciaio della necessità che scuotono il bossolo dei casi’». Per cui il punto non è l’impossibilità di sfuggire alla morsa del passato, o che la storia sia un susseguirsi di ininterrotte sconfitte, o che la virulenza e la tenacia del razzismo siano inesorabili. Piuttosto, che le infide condizioni del presente stabiliscono il legame tra la nostra epoca e un’epoca precedente nella quale la libertà era sempre lontana dall’essere realizzata. Il passato non è né inerte né dato. Le storie che raccontiamo su ciò che è accaduto allora, le corrispondenze che scorgiamo tra l’oggi e le epoche passate e la posta in gioco etica e politica di queste storie ricadono sul presente. Se la schiavitù è percepita come vicina piuttosto che distante e la libertà sembra sempre più inafferrabile, questo ha a che fare con i nostri tempi bui. Se il fantasma della schiavitù ancora perseguita il nostro presente è perché siamo ancora alla ricerca di un’uscita dalla prigione.
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