Pubblichiamo, ringraziando editore e autore, la postfazione di Franco Moretti al libro La Repubblica mondiale delle lettere di Pascale Casanova, uscito per nottetempo a cura e traduzione di Cecilia Benaglia.

di Franco Moretti

Ogni tanto, ma di rado, esce un libro che cambia il modo in cui una disciplina lavora. Trent’anni fa, quello di “letteratura mondiale” era un concetto da museo, scomparso dal dibattito critico; oggi ne è al centro, e il merito è del libro che avete tra le mani. Libro francese-francese, La République mondiale des Lettres, impensabile senza la Parigi di metà Ottocento, e sorretto da modelli storico-sociologici anch’essi francesi: incline, come scrive Casanova nella prefazione retrospettiva del 2008, “proprio per la mia identità francese, a intromettermi nelle faccende che riguardano l’universale letterario”, in una sorta di “tendenza ‘letterario-centrica’ caratteristica della tradizione letteraria della Francia” (pp. 34-35). Sarà; ma il suo impicciarsi degli affari del mondo le ha trovato lettori un po’ ovunque – dal Brasile al Giappone, dall’Egitto alla Corea alla Romania. Solo l’università francese ha fatto finta di niente, evitando fino alla fine di aprirle le porte. È stata, diciamolo, una vergogna.

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Scrivere “una storia della letteratura mondiale, o meglio, della Repubblica mondiale delle lettere” (109)[1]; progetto ambizioso, che risale metà a Braudel e metà a Bourdieu. Da Braudel, che compare fin dalle prime pagine del libro, viene l’idea di un mondo unificato ma diseguale, dove un centro ristretto subordina ai propri valori una vastissima periferia. Questo centro, per parte sua (e qui entra in scena Bourdieu), non è né la Gran Bretagna né gli Stati Uniti – le potenze economico-politiche egemoni degli ultimi due secoli – bensì la Francia, perché è qui che si è imposta per la prima volta l’idea dell’autonomia della letteratura. Il modello francese diventa dunque egemone su scala internazionale “non in quanto francese ma in quanto autonomo, vale a dire puramente letterario, ovvero universale” (176).

Letteratura autonoma – “‘pura’, vale a dire liberata (in modo relativo, ovviamente) dalle due grandi forme di dipendenza, quella commerciale e quella nazionale” (32). Letteratura non per tutti, e anzi spesso sprezzante verso il grande pubblico, come è caratteristico del settore autonomo del campo letterario nel suo contrapporsi ai prodotti commerciali. Fin qui, Bour-dieu. Ma a questo punto Casanova compie un passo avanti decisivo rispetto al modello delle Regole dell’arte: questa letteratura “difficile”, abitualmente associata allo studio minuzioso delle piccole dimensioni (un testo, una scena, anche un singolo verso), diventa qui il fondamento stesso dell’analisi su larga scala. L’autonomia è “uno dei principi che regolano lo spazio letterario mondiale”, si legge nel paragrafo “Le vie della libertà”; e una pagina dopo, più di netto: “la legge dell’universale letterario: l’autonomia” (176-178).

Questo universale letterario, Casanova lo descrive a chiare lettere come “la struttura dei vincoli e delle gerarchie vigenti nell’universo letterario […] la violenza invisibile […] i rapporti di forza specifici […] le battaglie […] la cesura fra il mondo letterario legittimo e le sue banlieues” (104). La metafora-guida, specie nella prima parte del libro, è inconfondibile: “economia spirituale” (Valéry), “oro spirituale” (Larbaud), “mercati verbali” (Chlebnikov), “assegno bancario” (Pound), “banche centrali” (Ramuz), “agenti di cambio”, “prezzo dell’universale”, “appropriazione dell’eredità”, “accumulazione di risorse letterarie” (48, 61, 65, 60, 72, 67, 275, 414, 434). È il lato profondamente realistico del libro, che vede nell’esistenza dei rapporti di forza il punto di partenza di ogni ragionamento. Poiché però i rapporti di forza sono fondati sull’autonomia estetica, il modello di Bourdieu finisce col prevalere decisamente su quello di Braudel[2]. A voler seguire quest’ultimo, infatti, il motore dello spazio letterario mondiale non potrebbe che trovarsi negli scambi e nel mercato: esportazioni, resistenze, compromessi, bolle, crisi… (Nella storia del romanzo, per esempio, che alla fin fine è stato il vero collante della Weltliteratur[3], la natura di merce ha quasi sempre prevalso su quella in senso proprio estetica.) In una visione braudeliana della storia letteraria, insomma, è dall’eteronomia che emerge lo spazio letterario mondiale, mentre il contributo dell’autonomia si restringe per converso a un che di circoscritto, tardivo, e probabilmente assai meno duraturo di quel che siamo soliti pensare[4].

Su questo, Casanova è un poco all’antica. Un giorno, al sentirmi parlare di come Sue e Verne avessero catturato l’immaginazione europea, sbottò in uno sdegnato Mais ce n’est pas de la littérature! Scherzava, d’accordo… però ci credeva. E se è impossibile non apprezzare questa sua intransigenza, così incompatibile con le tante edulcorazioni correnti, è anche vero che Sue e Verne (e compagnia) sono letteratura, e che il libro di Casanova liquida con troppa disinvoltura il loro ruolo nella dinamica storica[5]. Lasciarli fuori del quadro rende infatti la Repubblica delle lettere una terra benedetta da continue rivolte e rivoluzioni – da Rubén Darío agli irlandesi, all’ondata faulkneriana in America Latina, fino al sottotitolo del libro su Beckett (Anatomia di una rivoluzione letteraria).

È l’indomabile, ammirevole combattività di Casanova, ai cui occhi “la sola vera storia della letteratura è quella delle rivolte specifiche, dei colpi di mano”[6] (319). Ma se nel campo della letteratura autonoma le cose stanno spesso in questi termini, nel sistema letterario nel suo insieme, dominato com’è dall’industria culturale occidentale, i rapporti di forza hanno invece tutt’altra solidità. Qui, la sua generosità internazionalista – come quando, nell’ultima pagina del libro, si augura che esso diventi “una sorta di arma critica” per chi è lontano dal centro del sistema – le ha fatto velo alla realtà delle cose.

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La prima citazione della République è tratta da La figura nel tappeto di Henry James; le ultime, dal Tempo ritrovato di Proust. Nel corpo del libro, però, di letteratura non ce n’è molta. A James fanno seguito i saggi di Larbaud e Valéry, Bourdieu, ancora Valéry, l’abc della lettura di Pound, le lettere di Goethe, un manifesto di Chlebnikov, i saggi di Ramuz, il libro su Parigi di Victor Hugo, i saggi di Glaser… Nella seconda parte del libro entrano in scena autori lituani, albanesi, antillani, rumeni, somali, belgi, messicani; e di nuovo interviste, lettere, discorsi, diari, conversazioni, ricordi. Di Dante si citano il Convivio e il De vulgari eloquentia, ma non la Commedia; Federico ii di Prussia compare più spesso di Mallarmé e Rimbaud; Larbaud, che lanciò Joyce in Francia, più di Balzac Baudelaire Flaubert Rimbaud Rilke Pound Dostoevskij Tolstoj Dickens ed Eliot (George e T.S.) messi assieme. Di Joyce, che condensa forse meglio di ogni altro i temi centrali del libro – autonomia, esilio, rivolta, “letterature minori” – vengono citati diversi articoli giovanili; dal Ritratto, una manciata di parole, e una mezza frase dall’Ulisse.

Strano? Sì e no. Più un’area di ricerca è vasta, scrisse Auerbach nel saggio sulla Weltliteratur del 1952, più nettamente va demarcato il fenomeno – il “punto d’appoggio” – che permette di unificare la gran massa dei materiali[7]. Su questo, la scelta di Casanova è priva di ombre: il suo Ansatzpunkt sono quelle che un tempo si chiamavano le “poetiche” – prefazioni, progetti, manifesti, conferenze – più che i testi letterari veri e propri[8]. è un’ipotesi netta e perseguita con coerenza, e gliene va reso merito; ma non la trovo convincente. Con la scomparsa delle opere scompare infatti la stessa letteratura, riassorbita per intero all’interno delle poetiche, ossia della consapevolezza che gli scrittori hanno del loro lavoro. Ma sono davvero così coscienti di quello che fanno, gli scrittori[9] – o non aveva forse ragione Panofsky nel sostenere che, “quando di un artista si sono conservati enunciati riflessi sulla propria arte […] essi costituiscono […] nella loro totalità un fenomeno parallelo alle sue creazioni artistiche […] ma non una spiegazione di queste ultime”[10]?

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Ma insomma, questo che vuole, si starà forse chiedendo chi legge: prima dice che Casanova ha cambiato il modo in cui la comparatistica lavora (o dovrebbe lavorare) – e poi infila un’obiezione dopo l’altra. Dove sta la verità?

La verità è che le critiche bisogna sapersele meritare. Nessuna delle mie obiezioni sarebbe immaginabile se Casanova non avesse scritto un grande libro, che riesce a istituire, per la prima volta, un rapporto intellegibile tra le tante letterature moderne in tutta la loro enorme varietà. Invece di sottacerne le differenze – come si ama fare a sinistra, quasi che le ingiustizie scomparissero se non se ne parla – Casanova articola il sistema delle diseguaglianze culturali sulla base di presupposti chiari e plausibili, offrendo così un quadro che è al tempo stesso vastissimo e perfettamente comprensibile. Parla solo degli ultimi due secoli, d’accordo, e di poetiche invece che di forme, e trascura la gran massa delle merci letterarie. Tutto vero. C’è qualcuno che ha saputo far meglio? Questo è il punto. Una teoria non cade perché non collima alla perfezione con le nostre osservazioni empiriche. Cade se c’è una teoria migliore; e questa ancora non c’è.

Per il momento, dunque, chi vuol ragionare di letteratura mondiale è da questo libro che deve partire. Vi troverà una tesi forte, materiali ricchissimi, e formulazioni che fanno venire il sorriso alle labbra; sentirà una voce diretta, scanzonata e coraggiosa, che è scomparsa troppo troppo presto. Ce ne fossero, di persone così.

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[1] La differenza tra “letteratura mondiale” e “Repubblica mondiale delle lettere” è essenziale al ragionamento di Casanova: nel primo caso, opere di ogni dove confluiscono in un’unica letteratura tendenzialmente aperta ed egualitaria; nel secondo, emergono invece i rapporti di forza che esistono su scala internazionale, e le diseguaglianze che ne conseguono.

[2] Il concetto di modello è fondamentale per Casanova, che lo evoca a più riprese – un “modello generatore che permetta, a partire da una serie limitata di possibilità […], di rigenerare la serie infinita delle soluzioni possibili”, un “modello in scala ridotta per comprendere la quasi totalità dei problemi” – e gli affida il compito di rendere esplicite “le leggi non scritte dell’universo letterario” (322, 327, 567n.). Sul piano epistemologico, la peculiarità del libro consiste così nella reciproca illuminazione di astratto e concreto grazie a una lunga serie di dettagli rivelatori: “la lucidità tipica di tutti i nuovi arrivati” (a proposito di Goethe, 100), Parigi come “meridiano di Greenwich della letteratura” (179 e passim), Bruxelles, o della “seconda chance” (250), gli scrittori “di seconda generazione” come i rivoluzionari per eccellenza, la scrittura di Faulkner come “macchina per accelerare il tempo” (577), e molti altri ancora.

[3] Il termine stesso di Weltliteratur, come è noto, venne coniato da Goethe in seguito alla lettura di The Fortunate Union, una (mediocre) traduzione inglese di un (mediocre) romanzo cinese che partecipò dell’intensissimo import-export romanzesco intorno al 1800.

[4] Non è questione cui si possa rendere giustizia in una nota, ma l’idea che l’autonomia estetica sia uno sviluppo storico irreversibile ha perso negli ultimi decenni molta della sua forza. La riconciliazione di sperimentalismo e mercato verificatasi nel postmoderno, lo sbandieramento (a sinistra) di una concezione censorio-virtuosa della cultura, e il ritorno (a destra) di una mentalità nazionalista-autoritaria, fanno ritenere che il modello di Bourdieu abbia ormai i giorni contati.

[5] Benché il capitolo La fabbrica dell’universale menzioni un “terzo polo essenziale per comprendere la struttura del campo mondiale: il polo economico” (281), e quello sull’Internazionalismo letterario parli delle “leggi del mercato internazionale che, trasformando le condizioni di produzione, modificano la forma stessa dei testi” (315), alla questione vengono dedicate sì e no una decina delle cinquecento pagine del libro.

[6] Su questo, si veda l’introduzione di Claire Ducournau, Tristan Leperlier e Gisèle Sapiro al numero speciale di contextes, 28, 2020, e il ricordo di Dominique Eddé (“Pascale Casanova, le courage de la colère et de l’acceptation”), in L’Orient Littéraire, 10, 2018.

[7] “Come si può risolvere il problema della sintesi? Una vita è troppo breve per crearne anche solo le condizioni preliminari. Il lavoro di gruppi organizzati, utilissimo per altri scopi, in questo caso non è una soluzione. La sintesi storica a cui pensiamo […] è un prodotto dell’intuizione personale, e quindi può essere fornita soltanto dal singolo”. Erich Auerbach, “Filologia della Weltliteratur”, in Id., Letteratura mondiale e metodo, a cura di G. Mazzoni, nottetempo, Milano 2022, p. 65. Si legga anche la bella introduzione di Mazzoni, “Il paradosso di Auerbach”, specie pp. 26 sgg.

[8] Di qui il paradosso di un grande libro di storia letteraria in cui l’interpretazione è pressoché assente. A differenza delle opere letterarie, infatti – e soprattutto di quelle “autonome” -– le poetiche si possono di norma prendere più o meno alla lettera.

[9] Si pensi a Joyce: negli anni Venti, quando apparve il cosiddetto “schema Linati”, egli avallò l’idea che l’Ulisse fosse stato programmato fin dall’inizio nei suoi minimi dettagli – laddove Michael Groden ha dimostrato al di là di ogni dubbio che il libro prese forma in modo altamente casuale e brancolante.

[10] Erwin Panofsky, “Il concetto del Kunstwollen” (1920), in Id., La prospettiva “come forma simbolica” e altri scritti, a cura di G.D. Neri, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 156-157. Dell’ipertrofia della consapevolezza nella République mondiale des Lettres parlai di persona con Casanova quando discutemmo il suo libro a Stanford, nel 2006. Capisco quel che dici, rispose, ma secondo me alla periferia del sistema letterario bisogna battersi contro così tanti vincoli materiali e simbolici, che gli scrittori sono costretti a divenire consapevoli. Questo fulminante intreccio di storia sociale e intellettuale, che rovescia come un colpo di judo un’obiezione in un punto di forza, dà un’idea dell’intelligenza – e dell’ironia – di Casanova, e della serietà con cui si misurava con le critiche che le venivano mosse.

 

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