Pubblichiamo un estratto dal libro Tutti i colori del rosso (Feltrinelli, 2024) di Gabriele Santoro, con introduzione di Massimiliano Tarantino e postfazione di Giorgia Serughetti. Tutti i colori del rosso è un viaggio nella storia della sinistra europea e mondiale, che riflette e indaga l’attualità politica italiana, internazionale e le sfide poste dal disordine globale nel quale siamo immersi. Pace e guerra, immigrazione, il diritto alla salute, lavoro e precariato, contrasto alla povertà, ambientalismo e giustizia climatica, i diritti civili e le donne in politica: le otto inchieste giornalistiche, accompagnate da ritratti e interviste, che compongono il volume affrontano le questioni centrali del nostro tempo.

Capitolo 3

Dall’interventismo umanitario alla guerra di Blair in Iraq
“Confonderanno la nostra repulsione alla guerra con l’incapacità di agire”

Uno degli otto obiettivi indicati dal presidente statunitense George W. Bush nell’introduzione a La strategia della sicurezza nazionale consisteva nel “prevenire i nemici dal minacciare con le armi di distruzione di massa noi, i nostri alleati e amici”.

Il documento presidenziale del settembre 2002 delineava e prospettava le conseguenze del tramonto

della Guerra fredda per l’America, sancendo “la vittoria della libertà su una visione totalitaria distruttiva”. Il testo definiva “la forza e l’influenza degli Stati Uniti nel mondo senza precedenti e ineguagliata”. Bush usò l’espressione “la grande battaglia è finita”, assumendo la logica “della fine della storia” articolata dal politologo neoconservatore Francis Fukuyama: con il tracollo dell’Unione Sovietica si era concluso lo scontro storico fra visioni alternative della società e il liberalismo economico politico, a immagine e somiglianza dell’America situata dalla parte giusta della storia, era destinato a dominare.

L’iperpotenza nordamericana, che si poneva come la princi-pale regolatrice delle relazioni e istituzioni internazionali nel mondo della globalizzazione, richiedeva innanzitutto il mantenimento del primato militare incontrastato. Questo scenario dispiegava, nell’interpretazione dell’amministrazione Bush, sospinta dai falchi repubblicani come il vicepresidente Dick Cheney e il

segretario alla Difesa Donald Rumsfeld che gestì l’invasione dell’Iraq, un tempo pieno di opportunità e responsabilità per gli Stati Uniti.

Nel documento del 2002 l’impostazione fu esplicita: “Lavoreremo per tradurre questo momento d’influenza in decenni di pace e prosperità. La strategia della sicurezza nazionale si fonderà nitidamente sull’internazionalismo dell’America che riflette l’unione dei nostri valori e gli interessi nazionali”. Questa piattaforma ideologica di politica estera nacque dalle macerie degli attentati terroristici dell’11 settembre, e aprì la strada all’esercizio del diritto all’autodifesa con azioni preventive contro chiunque fosse considerato una possibile minaccia alla sicurezza nazionale.

La dottrina della guerra preventiva è stata accompagnata e sostenuta politicamente dal vasto

programma di esportazione della democrazia e della libertà. L’esercizio della leadership geopolitica e del ruolo imperiale statunitense scavalcarono le istituzioni multilaterali per raggiungere gli scopi del governo di Washington.

La memoria dell’11 settembre non è più separabile dalla successiva “Guerra al terrore”. La storia ha

varcato i confini dell’America. Il mondo si è diviso sempre più dopo i numerosi errori commessi in questa lunga lotta, dall’Afghanistan all’Iraq. Siamo immersi nella realtà creata dall’11 settembre e dalla re-azione all’evento che continua a riscrivere in molti modi la politica internazionale e la nostra vita. 

Le conseguenze della “Guerra al terrore”: dalla “Relazione speciale” USA-Gran Bretagna alla scelta di Blair

Negli ultimi vent’anni la società americana è stata trasformata dalle fobie e dall’angoscia non solo per la minaccia terroristica di matrice islamista. La violenza interna è esplosa, come testimonia l’escalation delle sparatorie di massa dal 2001. Si è diffusa l’idea di non essere più al sicuro in nessun luogo. “L’11 settembre ha cambiato la psicologia dell’America. Avrebbe dovuto cambiare anche la psicologia del mondo. Naturalmente l’Iraq non è la sola componente di questa minaccia, ma è il test del modo in cui la trattiamo seriamente. Di fronte a essa dovremmo essere uniti.”

Alla vigilia dell’intervento militare in Iraq, nel cruciale dibattito alla Camera dei Comuni del 18 marzo 2003, il premier britannico Tony Blair, insediatosi nel 1997 a Downing Street dopo il ventennio di potere conservatore segnato da Margaret Thatcher, concretizzò con queste parole la personale vicinanza all’America e alle posizioni di Bush.

Nella Relazione speciale con gli Stati Uniti Blair, proponendosi come ponte tra le due sponde dell’Atlantico e immaginando una forma di guida dello schieramento europeo, prefigurava

con la politica estera rinnovata del New Labour una nuova centralità della Gran Bretagna nel mondo.

Blair, che entrò nel Partito Laburista nel 1975 e fu eletto deputato per la prima volta nel 1983, si era presentato come un politico giovane riformatore e modernizzatore. Nel 2002 Margaret Thatcher a chi le domandava quale fosse stato il suo maggior successo rispose: “Tony Blair e il New Labour. Abbiamo costretto i nostri oppositori a cambiare il modo di pensare”.

La Terza via del New Labour, che mirava a trovare un’alternativa moderata al neoliberismo di destra e allo smarrimento del socialismo tradizionale, cavalcò la congiuntura economica mondiale favorevole durante una stagione di crescita che non intaccò tuttavia le profonde diseguaglianze nel paese. Al tramonto di Thatcher e della lunga stagione conservatrice, il quarantenne Blair si trovò di fronte a un bivio: era in grado di sostenere una rottura radicale o era possibile provare ad attenuare semplicemente gli effetti del governo della “Lady di ferro”?

Il Primo ministro, rieletto nel 2001 e nel 2005, non tornò indietro rispetto alle liberalizzazioni e alle politiche di libero mercato di Thatcher, puntando però a rilanciare l’intervento pubblico sullo stato sociale dalla sanità alla scuola.

 La Terza via e la politica estera di Blair

Nella primavera del 1999 Blair giunse all’apice della propria influenza politica interna e internazionale. Due anni prima aveva trascinato il partito alla più larga vittoria elettorale della storia, conquistando alle elezioni politiche del 1997 un’amplissima maggioranza parlamentare. Il centrismo di Blair non aveva soltanto riposizionato il Labour, ma aveva formulato una proposta politica nuova che nell’immaginario collettivo costituiva una ricetta innovativa per fermare il declino dei laburisti in corso dalla fine degli anni Settanta.

Forte del consenso interno, Blair coltivò dunque l’ambizione di rilanciare la Relazione speciale con gli Stati Uniti e di porsi come l’interlocutore principale che guidava l’Europa nello scenario globale. La sua politica estera si fondò sulla dottrina dell’interventismo umanitario che celebrava la possibilità di promuovere ed esportare democrazia e diritti umani, difendendo gli interessi e il modello delle democrazie occidentali.

Il 22 aprile 1999 Blair espose per la prima volta all’Economic Club of Chicago le linee guida fondamentali che hanno caratterizzato la politica estera britannica nella sua epoca e successivamente determinato la sua stessa carriera: “In Europa accadono cose indicibili, mentre stasera dialoghiamo qui a Chicago. Sono riapparsi crimini terribili che non avremmo mai pensato di rivedere: la pulizia etnica, gli stupri sistematici e i massacri di massa. Voglio parlarvi degli eventi in Kosovo, mettendoli in un contesto politico, economico, e di sicurezza più ampio, perché il caso non può essere considerato in modo isolato. Nessuno in Occidente, che abbia visto cosa succede in Kosovo, può dubitare della legittimità dell’azione militare della Nato”. (continua…)

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Autore

gabrielesantoro@minimaetmoralia.it

Gabriele Santoro è giornalista professionista dal 2010. Ha lavorato per Adnkronos, gli esteri di Rainews24 e Tv2000. Dal 2009 collabora con Il Messaggero. Scrive per il venerdì di Repubblica, Minima&moralia, Il Tascabile – Treccani e l’Osservatorio Balcani – Caucaso. È autore del saggio inchiesta «La scoperta di Cosa nostra. La svolta di Valachi, i Kennedy e il primo pool antimafia» (Chiarelettere, 2020), della guida narrativa «111 luoghi di Roma che devi proprio scoprire» (Emons, 2022) e di «Tutti i colori del rosso» (Feltrinelli, 2024)

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