Il supplemento Life and Arts del Financial Times è uno delle isole del tesoro della stampa globale, ma sabato ha pubblicato un articolo di commento che riunisce in un solo colpo i quattro difetti capitali della ‘cultura del commento’: impressionismo, riassuntismo, catastrofismo, battutismo.
Quegli stessi errori che suggeriscono a molti di lasciar perdere gli opinionisti e preferire loro i data-journalists. Ma quando il tavolo da gioco si chiama Financial Times, e l’audience è una selezionata classe di lettori globali influenti, in cui a meno di tre gradi di separazione si copre l’intero spettro del potere economico occidentale, un pezzo superficiale come quello che Simon Kuper ha dedicato al cosiddetto ‘declino italiano’ fa pensar male e sospettare peggio. L’abstract del pezzo è: ‘sono stato invitato per un paio di volte in Italia negli ultimi due mesi e vi racconto in tre colonne la differenza tra crisi e declino. Lo faccio senza citare una mezza cifra, o un dato numerico di qualsiasi tipo, intervistando persone che ho per varie ragioni intercettato lungo il cammino (quasi tutti a diversi gradi ‘opinionisti’, osservatori, a loro volta – e di ottima qualità, peraltro), senza ascoltare la testimonianza di nessun protagonista – positivo o negativo – della ‘crisi’. Il modello anglosassone della ‘letter from Rome’, o ‘from Milan’, che in un’epoca di verifiche incrociate e disponibilità di informazioni assoluta forse dovrebbe un po’ essere rivisto.
La tesi di fondo è che l’Italia è due o tre passi dentro il delirio tremendo della disperazione economica e sociale, e in questo commento fatto da un commentatore raccogliendo commenti da altri ‘commentatori’: John Foot, Giuliano da Empoli, Marianna Albini, Tommaso Pellizzari, Gianni Riotta, John Kings della filiale italiana della Hopkins University.
(Attenzione: io stesso mi ritengo un commentatore quando si parla di public affairs, e tutti i nomi citati appartengono a persone che stimo e che a mio parere dovrebbero infuriarsi per essere stati assorbiti in un flusso di idee così poco approfondite su un tema grave).
Le scene si svolgono lungo il passeggio di Reggio Emilia, in una piazza di Bologna, nella sede milanese di Eataly. I nodi del discorso sono una sequenza di cliché ben noti a tutti noi che viviamo full-time o part-time in Italia: la gerontocrazia, la guerriglia anagrafica, la disoccupazione giovanile, la fuga dei cervelli, la vocazione turistica-enogastronomica come ultima spiaggia inevitabile (ma in fondo disprezzata) per il mantenimento dei livelli di benessere e ‘dolce vita’. Il titolo è infatti ‘How Italy lost la Dolce Vita’ – tanto per non risparmiarsene neppure uno, di luogo comune.
Ora. Mi rendo conto che nemmeno in questa infuriata reazione – la mia – c’è un briciolo di computazione, di percentuale, di analisi nel merito: il punto su cui voglio attrarre attenzione è sul metodo. So che il nostro paese è immerso in una specie di terapia intensiva al contrario, oltre che in un mare di melma. Ma è un ecosistema troppo complesso e stratificato e raffinato per subire una condanna con rito abbreviato e dopo tre visite all’ombra delle foglie che ingialliscono, con l’aggravante di una fragranza ‘colonial’ che in un mondo così interconnesso e dipendente suona addirittura ridicola. Ma in qualità di animo curioso, di autore letterario e collaboratore di giornali, di curatore, mi domando perché sia così difficile incontrare le stesse persone che incontro io tutte le settimane: artisti e architetti, imprenditori che guidano aziende di biotecnologie o di design, operatori culturali infaticabili, menti e corpi che si muovono tra qui e l’estero senza lamentarsi, artigiani e intellettuali e dirigenti e architetti e funzionari civilissimi che non ‘sognano le vacanze al mare’, o non passano i giorni a dare la colpa alle generazioni precedenti (che hanno enormi colpe), e molto altro ancora. Quando poi, nel mezzo dell’articolo, per indicare che da noi non c’è più differenza fra destra e sinistra si cita uno speculatore finanziario (anonimo) ‘così di destra da aver sempre appoggiato l’apartheid in Sudafrica’ che alle ultime elezioni europee ha votato ‘per Matteo Renzi’, viene da pensare che questo genere di interventi giornalistici sono forse meno improvvisati di come sembrano, e più chirurgici, e più organizzati.
Io leggo giornalismo di qualità da quando ho 15 anni. È stato il mio talismano per resistere alle teorie cospirative. Sono vaccinato a vita contro qualsiasi tentativo di attrazione per il complotto. Ma a volte, leggendo pezzi come quello di Simon Kuper, mi viene da chiedere: perché? Come? Quando? Quanto ? Quale può essere l’effetto di discorsi del genere, ribattuti e ripetuti stancamente o pigramente per mesi e anni, su chi deve ‘scommettere sul fallimento di un paese?’ Quale può essere, più in pratica, l’effetto su chi vorrebbe o potrebbe investire in quello stesso paese? Cui prodest questa mole devastante di impressionismo, se non a quella (limitata ma significativa) fetta di impressionismo che gioca un ruolo nelle pur ponderatissime decisioni macro-finanziarie? Poi mi riprendo. Magari è solo il dispiacere, una ferita che ferisce e basta (d’altronde non è una relazione biunivoca: gli intellettuali anglosassoni non si danno pena per le descrizioni degli inviati italiani). Poi però mi viene in mente che avrebbe fatto meglio a usarle anche lui, le famose varie ‘w’, e marcare ancora una volta – come fa spesso il Financial Times – la differenza tra cultura dell’informazione e cultura della chiacchiera a fine-pasto. E’ in questa differenza che hanno ancora senso i ‘media’: un terreno preciso, alchemico, nel quale si fanno cose con le parole, e viene separato il grano dal loglio, e lo ‘standard’ dal ‘poor’. E se incontri qualcuno che da un podio accreditato confonde i confini di questo passaggio – per ideologia, superficialità, o interesse annusato nell’aria – ribellarsi è giusto.
Gianluigi Ricuperati è uno scrittore e saggista italiano. Nel 2006 ha pubblicato Fucked Up per Bur RCS e ha curato, insieme a Marco Belpoliti, la prima monografia mai dedicata al disegnatore Saul Steinberg. Nel 2007 Bollati Boringhieri ha pubblicato Viet Now – la memoria è vuota. Ha scritto un testo pubblicato ne Il corpo e il sangue d’Italia. Nel 2009 è uscito La tua vita in 30 comode rate (ed. Laterza).
Attualmente collabora alla Domenica del Sole 24 Ore ed è corrispondente speciale per la rivista Abitare. Da gennaio 2010 dirige Canale 150 – gli italiani di ieri raccontati dai protagonisti di oggi – iniziativa per la celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia sostenuta dal Comitato Italia 150 e da Telecom Italia. Dal 2010 è curatore del Castello di Rivoli – Museo d’Arte contemporanea. Ha scritto di spazi e architettura per Domus, ha collaborato alle pagine culturali de La Stampa e D di Repubblica. Scrive di musica per Rumore e Il Giornale della musica. È stato consulente editoriale per Alet Edizioni. Nel 1999 ha tradotto per la casa editrice Einaudi The Wild Party, testo di Joseph Moncure-March, illustrato da Art Spiegelman (ed. Einaudi Stile Libero, 1999). Nel 2007 e nel 2008 è stato, con Stefano Boeri, co-direttore di Festarch, festival internazionale di Architettura a Cagliari. Durante la prima edizione di Festarch ha svolto un dialogo pubblico su ‘architettura e letteratura’ con l’architetto olandese Rem Koolhaas. Nel 2009 è, con Stefano Boeri e Fabrizio Gallanti, co-direttore artistico di Urbania a Bologna. Collabora con Fondazione CRT e cura una collana di volumi di architettura e narrazione.

“So che il nostro paese è immerso in una specie di terapia intensiva al contrario, oltre che in un mare di melma. Ma è un ecosistema troppo complesso e stratificato e raffinato per subire una condanna con rito abbreviato e dopo tre visite all’ombra delle foglie che ingialliscono, con l’aggravante di una fragranza ‘colonial’ che in un mondo così interconnesso e dipendente suona addirittura ridicola.”
In effetti la mafia (nelle sue 4 o 5 declinazioni mainstream) è un ecosistema molto sofisticato e articolato. Per condannarlo serve averla studiata almeno 20 anni. Averci convissuto minimo 40 anni. Averla fiancheggiata inconsapevolmente col silenzio/assenso/finta di niente per 60 anni, magari. E finalmente, a 80 anni, capire che non era il caso. A 100 anni, poi, oramai impavidi in faccia all’aldilà, combatterla a parole.
Yeah, maledetti complottisti.
Pur apprezzando il tono malinconico dell’articolo lo trovo la somma di tutti i possibili fraintendimenti sul sistema finanziario globale. Forse sarebbe meglio partire da alcuni dati di fatto come ad esempio il fatto inconfutabile che siamo ad un passo dal non poter più vendere il nostro debito pubblico. Siamo quasi spazzatura per il mondo globale.
Altro fatto inconfutabile è che nessun paese europeo ha questo sistema finanziario asimmetrico e ingiusto e punitivo e in cui se investo in debito dello Stato, quello fatto da altri e l’unico modo per continuare a finanziare questo disastro, sono tassato al 12% se investo in capitale di rischio, e quindi ad esempio usato per finanziare le idee e i progetti di “artisti e architetti, imprenditori che guidano aziende di biotecnologie o di design, operatori culturali infaticabili, menti e corpi che si muovono tra qui e l’estero senza lamentarsi, artigiani e intellettuali e dirigenti e architetti e funzionari civilissimi ” sono tassato dallo Stato al 28%.
Questo clima, che non è un clima ma un aspetto strutturale che ci pone ai margini del sistema globale e che ci impedisce sempre di più di attirare capitali e fare quello che succede ovunque senza passare per l’intermediazione della politica, non ha certo bisogno di un editoriale che ho letto anche io il cui scopo e sentire il polso ad alcune persone che fanno opinione.
Smettiamola di pensare che qualche altra spallata ci farà andare ancora più giù.
Forse non ci rendiamo conto dove siamo oggi. Siamo in fondo. Dobbiamo smetterla di mentire a noi stessi o peggio sentirci offesi da una presunta “strategia altra” o da un giornalismo delle chiacchiere invece che dei fatti. Qui tutti sanno tutto, soprattutto la classe dirigente di questo disastrato paese. Bisogna essere lucidi in un momento come questo e non appellarci ad una presunta italianità in cui il paese è già di fatto in default e capire perché lo è non perché viene narrato come se lo fosse.
“La gerontocrazia, la guerriglia anagrafica, la disoccupazione giovanile, la fuga dei cervelli, la vocazione turistica-enogastronomico” non sono affatto cliché come si vuol fare credere qui ma elementi portanti di un declino radicato e ventennale.
Questa appiccicosa indulgenza alla volemose bene e questa chiusura a riccio sui modi in cui siamo visti dagli altri, quelli ad esempio che il nostro debito non lo comprano più da anni, rimane per me incomprensibile.
Sulla valutazione del giornalismo oggi chiunque si occupi di finanza sul mercato americano che è l’unico che conta, non si appella certo al financial times. Chiunque operi in questo settore sa che sono molto più influenti e informati alcuni blogger.
Quindi la convinzione decisiva sull’importanza e l’influenza del financial times nelle scelte di allocazione di capitali internazionali è quantomeno ingenua.
Ah, la magia del linguaggio giornalistico! Esservi esposti per decenni, come confessa Ricuperati, causa più danni che il fumo ai polmoni. A me i giornali fanno tanta confusione nella testolina.
Giacomo, da come parla mi pare che lei abbia contezza di come funziona la finanza mondiale, magari mi può aiutare perché io non capisco alcune cose.
Per esempio, perché se l’Italia è in avanzo primario da quasi vent’anni, cioè ogni anno, da vent’anni, spende meno di quanto incassa con le entrate tributarie (e extra-tributarie), il suo debito pubblico aumenta? Cioè, siamo virtuosi, siamo i primi al mondo in questa classifica, eppure siamo spazzatura. Perché?
Anche questa cosa di “comprare” o “vendere” il debito pubblico, mica mi è molto chiara. Io, che sono un animo semplice e sono molto lento a capire, traduco la cosa in termini di “prestiti”, che è una cosa che secondo me capisce anche un bambino. Cioè, lo Stato Italiano non ha abbastanza entrate perché spende troppo, giusto?allora va sul mercato e chiede dei soldi in prestito, riconoscendo un premio (l’interesse) a chi i soldi glieli presta.
Ma chi è che presta soldi allo Stato Italiano?
Diciamo che io voglio investire i miei risparmi, e decido di prestarli a qualcuno, vado al mercato e trovo le seguenti offerte. La Germania mi dà, poniamo caso, l’1% se le presto i miei soldi per un anno, l’Italia mi dà il 2%. Be’ certo, se ci fossero ancora il marco e la lira, non avrei dubbi, mica mi accollo il rischio di una svalutazione dei porci italiani, ma per fortuna c’è l’euro, che è irreversibile, quindi che problema c’è? Quasi quasi li do alla Grecia che mi riconosce un premio del 5%. Hmm, forse adesso è tardi, ma dieci anni fa avrei fatto sicuramente così.
Ma continuano a dire che il problema è il debito – cioè il credito, perché sono due facce della stessa medaglia, giusto? Insomma, il problema non è solo chiederli ‘sti soldi (indebitarsi) ma pure prestarli. E perché la gente, le banche, gli stati continuano a prestare i soldi agli altri? Smettiamo di darli così passa la voglia di chiederli. Mi ricorda un po’ quello che diceva Oscar Wilde a proposito dell’elemosina.
O ancora, “attirare i capitali esteri” in fondo, ma in fondo in fondo, non vuol dire indebitarsi ancora di più? Cioè i capitali vengono qua da noi a fare che? Il grand tour ottocentesco? Vorranno essere premiati, o forse ce li regalano? Perché sarebbe un bene indebitarsi ancora di più con i capitali esteri?
Non capisco, non capisco, qualcuno mi aiuti.
Mikez, forse perche’ il disavanzo primario significa veramente poco in termini di competitivita’ globale. Essenzialmente significa che le tasse sono cosi’ elevate che riescono a sostenere delle spese pubbliche senza controllo; sfortunatamente ci sono anche interessi passivi da pagare. Non solo, le entrate vengono usate per le spese correnti e non per investimenti strutturali. Questo significa “pagare” il passato e non “finanziare” il futuro. Quando abbiamo deciso di mandare milioni di cinquantenni impiegati pubblici in pensione, lo abbiamo fatto promettendo che a pagare sarebbero stati i nostri figli ed i nostri nipoti.
Quando un’intera generazione va a lavorare all’estero, schifata dalla situazione italiana (faccio parte di quella generazione) significa che le pensioni di chi rimane, le dovra’ pagare qualcun altro, cosi’ come le tasse.
Lei non capisce? Speriamo di averla aiutata!
Grazie Sivlia, gentilissima.
I miei dubbi sul debito rimangono, e non ho le competenze per cogliere il legame tra avanzo primario e la competività globale… che starebbe negli investimenti strutturali? cioè gli altri paesi sono in disavanzo ma almeno spendono per fare investimenti strutturali, invece che in pensioni, e questo gli permette di competere nel mondo, giusto? Tipo i tedeschi, presumo.
Niente link attivi oggi, vabbe’.
Questo è l’articolo che volevo linkare:
http://www.spiegel.de/international/germany/low-german-infrastructure-investment-worries-experts-a-990903.html
Mi perdoni Mikez leggo solo oggi la sua risposta e provo a risponderle.
Intanto chiariamo che se vuole investire in Grecia non è tardi come dice lei, anzi, l’ultima emissione ai tassi di cui lei parla, 5% ma in realtà le garantiscono il 4,75%, è di Luglio. Quindi si affretti. Come ha visto nei giorni scorsi i mercati hanno accolto bene e con entusiasmo la cosa. Auguri.
Quanto ai sui dubbi su avanzo primario. Intanto immagino che intenda dire saldo primario. Nella contabilità nazionale, il saldo primario (avanzo se positivo, deficit se negativo) equivale alla differenza fra le entrate dello stato e le spese, al netto degli interessi pagati sul debito pubblico.Questo non vuol dire tali interessi non debbano essere pagati.Al contrario. Tanto è vero che la spesa per gli interessi viene classificata fra le uscite correnti del bilancio dello Stato
Ora il saldo primario ha una formula semplicissima che chiunque può capire: SP= T- G.
T sono effettivamente le entrate (tantissime)
G sono le spese al NETTO DEGLI INTERESSI .
Se dunque è vero quello che dice lei che l’Italia è il paese più virtuoso in Europa ( non un bel vedere dal momento che sono tasse) è vero anche che questa montagna di soldi serve a pagare la spesa corrente non a risanare il debito e quindi non ad abbattere gli interessi.
L’Italia potrebbe fare due cose o abbattere il debito o agire sul denominatore cioè fare crescere il PIl ( questa è una semplificazione ma fa capire la cosa)
Ma il debito non si abbatte per niente, cito: ” Nel 2012 abbiamo avuto un avanzo primario del 2,5% del Pil, equivalente a 39,7 miliardi di euro. Siccome la montagna degli interessi è molto più elevata, ecco che abbiamo chiuso il 2012 con un deficit di bilancio complessivo del 3% del Pil (nei limiti europei, evviva), pari a circa 46,9 miliardi. Se sommiamo il deficit finale all’avanzo primario, abbiamo la somma totale degli interessi pagati sul debito, ovvero oltre 86,7 miliardi di euro.Avere un buon avanzo primario, nel caso italiano, serve a pagare gli interessi sul debito, non ad abbattere il debito lordo, che infatti cresce senza sosta. Serve a rassicurare i nostri creditori, non a risolvere una situazione debitoria alla lunga insostenibile”
Il Pil non cresce, cito ” Le curve che misurano l’andamento del Pil, la quota di profitto delle società non finanziarie e l’andamento del risparmio nazionale sono in calo dal 2000. Quest’ultimo è ai suoi minimi da 22 anni, ed è crollato dal 14% del 2000 a poco più dell’8%.Il calo generale si è aggravato dal 2010, quando invece la curva dell’avanzo primario ha iniziato a salire. E malgrado tale risalita, il debito è aumentato”
Il debito sì e con lui gli interessi. Per abbattere il debito devi rifondare la struttura dello Stato.
il Tutto: ” In sintesi, la generazione che ha vissuto gli ultimi 20 anni, ha complessivamente vissuto un periodo depressivo, tra le cui cause c’e’ certamente l’enorme massa di spesa pubblica volta a pagare interessi sul debito, accumulato dalla generazione precedente. Il tutto senza tra l’altro risultati sul fronte del risanamento delle finanze pubbliche, visto che il Debito e’ rimasto elevatissimo, alimentandosi a livello di volume dagli interessi stessi sul debito”
Spero di avere chiarito i suoi dubbi. Per le soluzioni lo scenario è la Grecia visto che il nostro paese ha problemi strutturali che nessuna classe politica ha mai affrontato troppo preoccupata a farsi rieleggere e non perdere consenso.
Prepariamoci, anzi già ci siamo, alla scomparsa della classe media ad asimmetrie generazionali intollerabili ad oligopoli sempre più potenti e corruzione sempre più radicata e fuga dei capitali e dei cervelli. .
Se per vent’anni non abbiamo fatto nulla ce lo meritiamo.
Grazie Giacomo per la risposta (che però ho letto molto in ritardo).
Intanto ringrazio per le dritte sulla Grecia ma siccome voglio molto bene ai fratelli greci i miei soldi non glieli presto, non vorrei mai contribuire, proprio io, a innalzare il loro debito pubblico.
Quanto al resto purtroppo i miei dubbi rimangono.
Sa, più che all’economia io sarei interessato alla politica delle idee, cioè alla propaganda, di cui peraltro sono il prototipo della cavia perfetta: laureato in materie umanistiche, lettore forte di quotidiani (fino a dieci anni fa) e di libri – pile e pile e pile di libri. In realtà un segreto che pochi sanno è che il soggetto perfetto per la propaganda non è l’ignorante, che non legge, ma proprio la persona colta, o acculturata che dir si voglia, che in quanto pseudo-intelligente si beve la qualunque in materie ostiche, o che almeno prevedono una preparazione minima per essere capite. Per esempio se non si conoscono le regole del fuorigioco è difficile capire le raffinate esegesi della Gazzetta dello Sport. Tipo me, insomma. Che infatti ho votato Prodi non una ma due volte, che dio mi abbia in gloria.
Ora, siccome uno degli articoli di fede del Dogma, nella nostra opinione pubblica, è che l’enorme debito pubblico italiano sia dovuto all’enorme spesa pubblica, causata dalla classe politica! dalla corruzione! dall’evasione! e chi più ne ha più ne metta, è stato con vero sconcerto scoprire che, to’, il saldo primario negli ultimi venti anni sia virtuoso, addirittura il migliore d’europa.
Cioè che da vent’anni la spesa primaria corrente non contribuisce all’aumento del debito.
Lei Giacomo è un passo avanti, e mi dice: la spesa resta elefantiaca (e io chiedo: rispetto a cosa?), le tasse sono troppo alte e comunque il saldo, pur positivo, non è sufficiente a pagare gli interessi sul debito.
Ma io sto parlando a livello del messaggio recepito da una persona comune senza particolari conoscenze economiche (mediamente istruita), e non da una che sia in grado di distinguere tra spesa pubblica totale, quella corrente (esclusi gli investimenti) e quella corrente primaria (esclusi anche gli interessi).
Il problema non è mica la realtà dei fatti, e dei dati; il problema è quello che viene strillato in prima pagina: “politica corrotta -> spesa abnorme -> debito pubblico alto.” Questo è il dogma. Questi sono i nessi pseudo-logici. Secondo me almeno qualche dubbio sul secondo nesso potrebbe anche venire, o perlomeno, se si devono iniziare a fare dei distinguo, rimettendo nella catena causale del ragionamento gli interessi sul debito, è ben più difficile che lo slogan abbia effetto sulle nostre deboli menti.
Poi magari, dopo il dubbio, a qualcuno gli viene lo sfizio di andarsi a controllare i dati, i numeri. Perché la domanda è quella di prima, la spesa pubblica italiana è troppo alta rispetto a che cosa? Magari si può fare un confronto con gli altri paesi europei. E ovviamente bisogna considerare la spesa pubblica rispetto al PIL, giusto? E cosa si scopre?
Che sia per quanto riguarda la spesa primaria che quella totale (compresi gli interessi!), negli ultimi quindici anni l’Italia è nella media dell’eurozona. Davanti a noi (cioè spendono di più) ci sono sempre Francia, Finlandia, Austria e Belgio, in quella primaria spendono di più pure Germania e Olanda. E agli ultimi posti chi ci sta, sia nella spesa primaria che in quella totale? La Spagna e l’Irlanda. To’, quelle che sono saltate per prime con la crisi del 2007.
Ergo, ne discendono altre due serie di domande:
1. C’è una relazione tra debito pubblico (alto/basso) e l’insorgere della crisi che sta devastando l’Italia e l’Europa negli ultimi sette anni?
2. Perché paghiamo tanti interessi? Risposta: perché abbiamo un debito pubblico alto. Nuova domanda: perché abbiamo un debito pubblico alto?
Punto 1.
Qui abbiamo il secondo articolo di fede del Dogma (dogma nel senso specifico di una “verità indimostrata e assunta come indimostrabile proprio perché evidente”): il debito pubblico italiano è alto (in rapporto al pil) quindi siamo in crisi. La soluzione alla crisi è abbassare il debito pubblico, quindi tagliare la spesa pubblica, con il ragionamento di cui sopra.
Peccato che proprio Monti Mario, il cavaliere azzurro lontano dalla politica corrotta e spendacciona arrivato per ridurre il debito al galoppo del suo ronzino Wincklemann, abbia attuato delle politiche che quel debito lo hanno fatto impennare. Nuova domanda: Monti Mario è stupido e non sapeva quel che faceva? Secondo me manco per niente. E quindi che scopo avevano le sue politiche economiche?
Be’ l’ha ammesso lui candidamente in un’intervista alla CNN. A distruggere la domanda interna. Quindi fatalmente a ridurre il Pil e quindi a far aumentare ancora il rapporto tra debito e Pil (che di quel rapporto è il denominatore).
Quindi di che stamo a parla’? Sono le stesse politiche di Monti (come quelle attuate poco prima in Grecia) a dimostrare che il problema non è il debito pubblico ma quello PRIVATO, e che la crisi non è stata generata da un dissesto delle finanze pubbliche europee ma, più banalmente, da uno squilibrio delle bilance dei pagamenti intraeuropei.
Se mi è permessa un’immagine: l’Italia è un paese obeso (alto debito pubblico) a cui viene anche diagnosticato un tumore (la crisi del 2007). Siccome, secondo la teoria del ronzino Winkelmann, è l’obesità la causa del tumore, l’Italia deve dimagrire. Certo, un modo per dimagrire sarebbe mangiare di meno (ridurre la spesa) e aumentare l’attività fisica (far crescere il PIl), ma c’è un modo più veloce per perdere peso: amputare una gamba. Che è esattamente quello che hanno fatto le politiche di Monti Mario. L’attività fisica del paziente obeso non è che sia migliorata, non potendo più camminare, ma non c’è dubbio che dal tumore stiamo guarendo. O no?
Punto 2.
Qui abbiamo il terzo articolo di fede del Dogma: il debito pubblico italiano è aumentato negli anni ’80 a causa della spesa abnorme dovuta a Craxi! al Caf! alla DC! alla corruzione! all’evasione! abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità! Una volta esploso il debito, e be’, i tassi di interesse sono diventati letali.
Cioè siamo sempre al nesso “spesa pubblica uguale debito pubblico” da cui eravamo partiti, ma retrodatato nel tempo. Ma visto che ormai siamo dubbiosi, andiamo a ricontrollare i dati.
E, surprise!, cosa si scopre? Che dagli anni ’80 in poi la spesa primaria è rimasta pressoché costante in rapporto al Pil (dal 32% al 36% in venti anni) mentre è aumentata quella per interessi (che è raddoppiata, dal 5% all’11% a metà anni ’90). Così, a naso, forse il nesso di casualità sarebbe da invertire: sono gli interessi alti che hanno fatto lievitare il debito pubblico e non la spesa dei politici corrotti. E perché improvvisamente sono aumentati gli interessi negli anni ’80? Siamo diventati più corrotti, più evasori?
No, è cambiata la politica monetaria.
Cito da un articolo del 1985 (http://www.criticamente.com/economia/economia_politica/Graziani_Augusto_-_Cambiare_tutto_per_non_cambiare_niente.htm) di Augusto Graziani, l’economista recentemente scomparso.
“Dopo il ‘79, viceversa, con l’adesione al sistema monetario europeo, il rapporto di cambio con il marco doveva essere tenuto tendenzialmente stabile e quindi la politica valutaria si è mossa entro vincoli molto diversi. […]
La sopravvalutazione della lira nei mercati europei si fa sentire e i risultati si vedono nella bilancia commerciale, che è passiva. Le esportazioni sono costantemente al di sotto delle importazioni, c’è un disavanzo nella bilancia commerciale. Ma le autorità sanno benissimo che questo disavanzo è la conseguenza inevitabile della loro politica monetaria e quindi hanno, con grandissima flessibilità, effettuato un altro capovolgimento di politica monetaria, pienamente coerente con quello che ho detto prima. Hanno, cioè, deciso, ormai da diversi anni, di accettare il disavanzo nella bilancia commerciale ed hanno provveduto a compensarlo — non correggerlo, compensarlo — con un avanzo corrispondente nei movimenti di capitali. Questa è una vera rivoluzione nella politica delle autorità monetarie, perché tutti noi ricordiamo i discorsi che faceva il governatore Carli una decina di anni fa, quando nelle sue dichiarazioni (diciamo pure antisindacali, antisalariali) invocava la politica dei redditi.
Carli diceva: non illudiamoci sul fatto che un disavanzo nella bilancia commerciale possa forse essere compensato da un avanzo nei movimenti di capitali, perché questa è una linea di politica economica che noi, Banca d’Italia, non intendiamo seguire. Noi non riteniamo che la bilancia dei pagamenti debba compensarsi, pareggiarsi nel suo complesso, perché fare affidamento sulle importazioni di capitali è una mossa rischiosa, è sempre segno di un’economia malata, significa vivere a spese di altri Paesi, significa consumare a credito di altri. Per noi, autorità monetarie, la politica economica sana è quella di un pareggio nella bilancia commerciale. Noi dobbiamo pagare le merci che importiamo dall’estero con altre merci vendute, non dobbiamo consumare a credito.
Oggi, la politica della Banca d’Italia è radicalmente cambiata. Oggi, le autorità monetarie assumono come una conseguenza inevitabile il disavanzo nella bilancia commerciale e fanno una politica di tassi d’interesse elevati, proprio per attirare capitali dall’estero e per impedire fughe di capitali — le due cose convergono sullo stesso obiettivo — che compensano il disavanzo nei movimenti di merci.
L’Italia è diventata rapidamente uno dei Paesi più indebitati del mondo, certamente uno dei più indebitati dei Paesi industrializzati. Se questa sia una politica saggia o no. lo vedremo evidentemente negli anni futuri. Quello che, però, si può dire è che se l’Italia è riuscita in questa politica, diciamo pure ardita, di governare un disavanzo nei movimenti di merci e pilotare al tempo stesso un avanzo equivalente nei movimenti di capitali, questa operazione non può riuscire soltanto giocando di speculazione sui tassi d’interesse. Si può realizzare evidentemente solo nell’ambito di un consenso internazionale Tutti noi ricordiamo quando, una decina d’anni fa, le grandi banche internazionali avevano convenuto che l’Italia non fosse più un Paese degno di fiducia: esisteva un rischio Italia, non si facevano più prestiti all’Italia. Oggi il clima, diciamo pure il clima politico internazionale che circonda l’economia italiana, è totalmente cambiato. Con questa ondata di indebolimento del sindacato, di craxismo, di reaganismo (chiamiamolo come vogliamo), l’Italia è diventata un Paese per bene. È diventata un paese al quale si possono confidare i propri capitali finanziari e, quindi, è vero che, da un lato, le imprese italiane pubbliche e private vengono incoraggiate a cercare prestiti su mercati esteri; è vero che le banche italiane vengono incoraggiate ad indebitarsi verso le banche straniere; però è anche vero che tutte queste richieste di credito trovano all’estero dei finanziatori pronti e generosi. È altrettanto vero che i grandi istituti bancari del mondo occidentale sono lietissimi di aprire crediti al mondo finanziario italiano.
Quindi questa manovra non solo si muove entro una sua coerenza interna, ma si muove in un ambito di consenso internazionale, del quale le importazioni di capitali sono la prova più tangibile, al di là di tutte le manovre tecniche sui tassi d’interesse. Tuttavia, le manovre sui tassi d’interesse ci sono: l’Italia ha tassi di interesse elevatissimi.”
Concludo il pippotto.
Giacomo, io non mi rassegno proprio a niente: la scomparsa della classe media, la corruzione, la fuga dei capitali e dei cervelli non cadono dal cielo come fulmini lanciati da Giove pluvio (i Mercati! de ‘sta ceppa) per punirci delle nostre colpe, né sono causati dal fatto che “non abbiamo fatto nulla e ce lo meritiamo”.
Abbiamo fatto, abbiamo fatto: abbiamo fatto scelte politiche (economiche) deliberate, mentendo ai cittadini rispetto ai metodi e alle finalità (vedasi Monti, che peraltro di mentire agli elettori al fin del loro bene è anche un teorizzatore seriale) e sbagliate – almeno per la maggioranza della popolazione.