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Pubblichiamo un pezzo uscito su Specchio, che ringraziamo.

Appena apro la porta di casa, già vedo i segni della barbarie. Una rampa di scale e il rumore del condizionatore è il primo sintomo. L’aria calda si avvolge nella chiostrina del palazzo e il motore sgangherato che l’affittacamere ha approntato fuori dall’antica finestra condominiale è acceso giorno e notte, qualunque sia la temperatura esterna. Scendo le scale senza neppure più immaginare una ribellione. So che quest’estate una coppia di americani, mentre fuori si friggeva a cinquanta gradi all’ombra, ha lamentato l’assenza di coperte. “L’aria condizionata è molto bassa” hanno sostenuto. Quanto a me, se avessi potuto, avrei risposto loro di abbassarla ancora e tenere duro fino all’ipotermia, fino alla la morte. Io infatti nutro verso tutti costoro, verso tutti questi turisti prevalentemente anglosassoni, perlopiù americani, un sentimento preciso che si chiama odio. L’ho sviluppato lentamente, senza accorgermene, e alla fine è esploso, quando ho capito quel che era accaduto, ossia la realizzazione di un sogno neo-coloniale a lungo coltivato e col post-covid definitivamente compiuto, il sogno della grande invasione.

Per anni, i più grandi esperti in demagogia hanno parlato di invasione alzando il dito contro una massa di uomini e donne pronta a sfidare i peggiori rischi pur di venire qui a lavorare, gente che non ha mai rappresentato un pericolo invasivo e distruttivo e che invece semmai porterebbe salvezza a un mondo in cui voglia di lavorare saltami addosso, voglia poi di far mestieri usuranti non ne parliamo. Ma vabbe’, lasciamo perdere le cose serie, quelle che purtroppo non si realizzano, visto che viviamo un tempo stanco e viziato, in un paese opulento e senza nerbo. E torniamo alla vera invasione, quella devastante, definitiva, frustrante e mortifera dei neocolonialisti, dominatori, prepotenti turisti anglosassoni assetati di ignoranza, quelli che non sanno se non parlare piuttosto superficialmente la loro stessa lingua, l’inglese, e che per questo io trovo giusto chiamare barbari. Barbaro è chi balbetta la lingua greca, secondo i greci. Barbaro è chi balbetta anche la propria lingua, secondo me. E come i greci odiavano i barbari, io odio questi barbari qui, prepotenti invasori privi di misura, incapaci di rispetto, e vi spiegherò perché.

Esco di casa e la prima cosa che faccio è guardare a destra, ossia la serranda di un garage davanti a cui molto spesso di notte, mai quando io riesca a vederli, i barbari depongono i loro cumuli di monnezza. Certo che Roma per loro è una festa. Da anni priva di sindaci dotati della minima capacità di immaginarla, la città rantola agonizzante, abbandonata a pirotecniche idee tipiche di una demenza senza scampo, una delle quali è il decoro, proprio quel decoro in virtù del quale sono stati eliminati i cassonetti dal centro, assieme ai cestini (roba volgare per una città d’arte come la nostra), consentendo dunque le peggiori infamie degli invasori, qui liberi finalmente di fare come cazzo gli pare. Osservato il cumulo di merda, volto lo sguardo altrove tentando un silenzio interiore impossibile, cammino verso la piazzetta mentre contromano i barbari volano sugli infami monopattini o starnazzano su biciclette elettriche in affitto, mezzi che lasceranno senza la minima cura in qualsiasi spazio possibile, davanti a portoni o automobili, tanto chissenefrega e anzi, se riescono a imparare il vero romanesco, pure sticazzi. A volte grido loro “one way” o “respect”, ma non reagiscono.

Del resto il caos è assordante. Sciami di folle asservite a guide dotate di bandierine si assiepano davanti a rivenditori di Colossei in miniatura e Pinocchietti snodabili, e se l’ora del pranzo si avvicina (ma per loro è quasi sempre ora di pranzo), gli invasori si mettono in fila (adorano le file, file eterne, file impossibili) e aspettano un piatto di pasta, una pizza unta, un supplì secco e io dico loro “why don’t you go queuing at the Vatican Museum instead of eating this shit?” Ridono. Pensano che io sia pazzo. Non capiscono quello di cui sono responsabili. Poiché, infatti, vogliono mangiare cibi così orrendi e accettano di pagare per essi cifre del tutto incongrue, hanno finito per alterare completamente l’offerta culinaria della città, dove le antiche trattorie sono state sostituite da finte taverne con finte tovaglie a quadretti, slabbrati paninifici nauseabondi, produzioni di salse che solo a guardarle diventi obeso. In fondo però non hanno tutti i torti a considerarmi pazzo. Odiando i loro calzoncini corti, le loro infradito, i loro trolley giganteschi e i loro cappellini colorati, non dovrei ironizzare affatto con battute idiote, dovrei dedicarmi invece alla guerriglia.

La guerriglia contro gli invasori, del resto, io la sogno spesso. Una volta ho immaginato che uno di quei bidoni fuori dai ristoranti potesse esplodere nel momento in cui la mano di uno svedese vi ha gettato dentro ridendo, anziché il vetro, la bottiglietta di plastica. “In Svezia fate così? La plastica anziché il vetro?” gli ho urlato. La sua compagna ha chiesto scusa. Lui era attonito. Anche qui ci sarebbero le regole per cui da loro si rischia il carcere? No, qui da noi niente regole e niente pene. E allora guerriglia. La guerriglia io la sogno soprattutto quando esco in motorino. Perché se il motorino è l’unico mezzo per percorrere le vie del centro di Roma senza rischiare l’ictus da traffico, da quando la città è in mano agli invasori tutto è cambiato. Incapaci di occupare solo un segmento dei vicoli privi di marciapiede, incapaci di immaginare una porzione di strada da dedicare al pedone, essi occupano ogni sampietrino e inveiscono contro il romano motorinante. È allora che sogno di accelerare e ucciderli. Uno qua e uno là, come in un videogame. Ma non sono l’attore di un videogame e allora resisto, mi trattengo, grido insulti nella loro lingua balbettante.

Poi mi chiudo in me stesso, cerco la pace interiore e sogno montagne solitarie, spiagge deserte, spazi infiniti privi di elementi umani colonialisti, finché non esco dal centro e torno fra le braccia dell’amorevole casino romano. Il dramma è che il centro si è allargato incredibilmente a Roma. E ovunque, ma proprio ovunque, è tutto un susseguirsi di case vacanze, airbnb, bb, o quel che è, stanzacce approntate alla meglio, stanze su strada più squallide dei poveri ma autentici “bassi” di un’altra epoca, anfratti dove è possibile consegnare bagagli a ore, ostelli con camerate dove è legge vomitare di notte. La notte, sì, con tutto quel che accade poi di notte, perché la notte arriva ogni giorno fin dalla sera, e dalla sera in poi, il centro di Roma diventa definitivamente una terra di nessuno, anzi no, una terra di qualcuno in effetti: la terra loro, la terra dei barbari che hanno invaso e depredato la città – roba da rischiare il definitivo colpo apoplettico.

Vorrei che sapeste come era una volta. Parlo di poco più di venticinque anni fa, quando venni a vivere nella via da dove non mi sono mai allontanato. La notte, o meglio fin dall’imbrunire, nel vicolo non volava una mosca. Chi si fermava a chiacchierare lo faceva sottovoce e chi invece si consentiva di esagerare incorreva inevitabilmente nella condanna. Che era di due generi. O le uova marce. O una scarica di piscio. Non scherzo. Alcune vecchie romane, molto simpatiche e attive, mettevano da parte, oltre alle uova scadute, le proprie urine per punire chi disturbava la quiete pubblica. Dio mio come le rimpiango. Ma ne avrebbero abbastanza, di uova e di urine, per i barbari di oggi?

Quel che si di sera affolla il mio rione come qualsiasi altra via del centro da due anni a questa parte è inquietante. Sciatti, incapaci di verbo che non sia un delirio cantante urlante, gli invasori amano due cose: happy hour e shot di superalcolici. E questo gli offrono i furbi romani. Bevande mefitiche e alcol simile a quello che sterminò i nativi americani a “basso” prezzo. Sicché dopo aver mangiato pizze ricoperte di ketchup e hamburger fetidi e patate fritte congelate, gli invasori riempiono i vicoli cantando e gridando e ridendo, ridendo non si sa bene per cosa, mentre l’alcol a due euro gli corrode l’esofago e li esalta. Il mio amico Marco, sceneggiatore pacifico, tenta spesso di scendere in strada e farli ragionare. Dice che ogni volta – scandinavi, inglesi, americani – si mostrano sorpresi davanti alla grande scoperta, ossia che all’interno dei palazzi ormai deturpati dalle loro stanze da pernottamento subumano, esistono famiglie viventi e dormienti. Mi pare assai interessante questo stupore. Con cui io non mi confronterò mai perché, protetto da finestre che non affacciano sulla via, sono semmai vittima soltanto di condizionatori accesi e di festicciole sgangherate e di voci stridule a volte di accento canadese, gallico, israeliano, voci ridenti di nulla con cui cerco di venire a patti interiormente in un’indefessa ricerca zen.

Però quel che patiamo tutti quanti noi, abitanti di vicoli o strade del centro e di quel che era intorno al centro e che ormai è anch’esso preso d’assalto e invaso, estirpato, distrutto, è una strana sensazione di solitudine e fine di un mondo molto amato, cui io reagisco con l’odio e i miei amici con una disperazione messa a tacere, qualcosa che presto o tardi come tutte le forme di rabbia repressa farà di loro dei veri omicidi seriali. Un altro mio amico molto pacifico, molto rassegnato al grottesco dell’esistenza, uno scrittore che io stimo molto, una volta mi ha fatto la domanda definitiva.

Poiché egli vive in un palazzo che è sempre parso al riparo dall’invasione, assai fuori dal reale centro di questa città sfinita, e che invece è stato riempito da stanze ricovero e flussi di barbari deliranti ubriachezza notte e giorno, una volta, dopo aver dovuto respingere l’attacco di tre ebbre strillanti inglesi che tentavano di smanettare nella sua serratura avendo sbagliato piano, e dopo aver fatto lo slalom fra vomito e monopattini, esausto, senza parole, senza speranza, ha deciso di inviarmi un messaggio pieno di sconforto e disperazione e in cui tuttavia tentava ancora di mostrarsi filosofo. Mi ha scritto così, fra l’altro: “Fino a poco tempo la trasformazione della città in un parco per turisti sembrava un problema confinato a Venezia. Ora non è più così. Ci sono luoghi ormai economicamente inavvicinabili. Per non parlare di quel che succede in termini di tessuto urbano e culturale. È davvero questo che vogliamo? E se è questo – se vogliamo trasformare il mondo in un parco turistico – dov’è che dobbiamo vivere quando non siamo in vacanza?”

 

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5 commenti

  1. Mi meravigliano i toni e i contenuti di una pesrona molto dotta come Nucci: non gli fanno per nulla onore. Non ci sono invenzioni in quel che dice ma esagerazioni esasperate con qualche connotazione razzista, di uno che ha perso il senno appresso all’invivibilità e il degrado del centro di Roma. L’invettiva, anche giustificata, non porta soluzioni.

  2. Come capisco questa cosa,noi vivevamo a Venezia poi siamo scappati perché è diventato impossibile vivere lì ,è un grande lunapark per turisti e io e Moo marito eravamo stanchi di fare le comparse ,per lui che a Venezia ci è nato è stata dura e lo è ancora.

  3. Nucci ha ragione: come sta emergendo dall’inchiesta, il cumulo di rifiuti nel cortile dell’ospedale di Tivoli, da cui è partito l’incendio, ce l’avevano messo gli anglosassoni.
    E inutile sottolineare che col sistema del piscio tenuto da parte – in appositi bidoni immagino – Roma funzionava benissimo. Magari si spegnevano anche i roghi sul nascere.

  4. In un intricato balletto di parole, l’articolo di Nucci trasuda un’ironia che ricorda le epoche in cui Roma si distraeva con nemici esterni, immaginari o esagerati. Questa volta, i turisti anglosassoni diventano i moderni bersagli, i Vandali del XXI secolo, in una narrazione che sfiora il teatro dell’assurdo. Sotto questa maschera di sarcasmo, i veri problemi di Roma rimangono in ombra, come gladiatori in attesa nella penombra del Colosseo, mentre l’attenzione è catturata dai giochi circensi e dalle invocazioni contro un “nemico esterno”. In questo gioco di prestigio retorico, il vero dramma di Roma viene messo in secondo piano, perso in un mare di allusioni e ironie, un eco di un passato che ancora sussurra tra le antiche vie della città.

  5. Lei ha perfettamente ragione: la nostra città è diventata un palcoscenico per turisti, una sorta di Disneyland del Colosseo. È come se i barbari fossero tornati, solo che stavolta invece di spade brandiscono selfie stick e mappe.

    Ma, con tutto il rispetto, non le sembra di esser diventato un po’ il Don Chisciotte di Trastevere? Lottando contro i mulini a vento dei condizionatori e i draghi dei monopattini elettrici. Freud avrebbe forse detto che c’è un po’ di invidia in questo suo odio per i “barbari”: magari nel profondo, lei sogna di unirsi a loro, di scambiare la sua armatura da custode per un paio di comode infradito e una macchina fotografica.

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Autore

matteonucci@minimaetmoralia.it

Matteo Nucci è nato a Roma nel 1970. Ha pubblicato con Ponte alle Grazie i romanzi Sono comuni le cose degli amici (2009, finalista al Premio Strega), Il toro non sbaglia mai (2011), È giusto obbedire alla notte (2017, finalista al Premio Strega), e il saggio narrativo L'abisso di Eros (2018). Con Einaudi ha pubblicato traduzione e commento del Simposio di Platone (2009) e i saggi narrativi Le lacrime degli eroi (2013), Achille e Odisseo (2020), Il grido di Pan (2023). Per HarperCollins sono usciti il romanzo Sono difficili le cose belle (2022) e il saggio narrativo Sognava i leoni. L'eroismo fragile di Ernest Hemingway (2024). I suoi racconti sono apparsi in riviste, antologie e ebook (come Mai, Ponte alle Grazie 2014), mentre i reportage di viaggio e le cronache letterarie escono su La Stampa e L'Espresso. Cura un sito di cultura taurina: www.uominietori.it

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