di Emilio Mazza*
Tu Liberiamo tu? Perché non Trielina, che scorre all’inizio e alla fine, oppure Biglie, che escono fuori a metà, o Mascherine e fazzoletti, che è la trovata del libro?
Lui “Lasciatemi fuggire, / essere libero […] Non c’è spazio, non c’è spazio, dite, / Ma non mi terrete dentro / Anche se la vostra gabbia è forte”, è Dylan Thomas che parla. Liberiamo tu. Perché è una frase incompiuta e che, per questo, forse dice qualcosa di più; anche se, come Petrolio di Pasolini, è un romanzo “che non comincia”. Trielina sembrava appropriato, dal momento che si tratta di un quasi-Petrolio (meno petrolio e più quasi): “la recita era, da parte di tutti, perfetta”. E poi anche l’io è solo un quasi: un “tu” che non riesce a essere tutti. Liberiamo tu, perché “io è un altro”, secondo il maledetto Rimbaud, oppure un “cumulo di percezioni”, secondo lo scettico Hume. Avrebbe potuto intitolarsi Maschere e bergamaschere, come un Verlaine lombardo-veneto, o Cicatrici e Sudore, se non fossero titoli che lasciano il segno. Un amico enigmista, filosofo anagrammatico, ha proposto Umbratile io. Mi sembra appropriato.
Tu Non è un trucco un po’ vecchio, quello di trapassare continuamente dal Novecento al Duemila, da una spesa a un esproprio, alternando le scene?
Lui Io sono uno un po’ vecchio. Ho letto Manhattan Transfer (1925) di Dos Passos, i Fiori blu (1965) di Queneau e Il nome, il naso (1972) del nostro Calvino. E non sono un calvinista, anche se Calvino ha tradotto Queneau. La mia è una Collezione di rabbia, per quanto incompleta e non travolgente. Eisenstein, parlando di cinema e letteratura, di Griffith (che a Dos Passos piaceva) e Oliver Twist, vedeva una “progressione di scene parallele intervallate tra loro”. Forse c’è più televisione che cinema, più cinema che letteratura.
Tu Queneau viene evocato almeno una volta nel testo, alludendo a una sua poesia, ma chi legge non è detto che sia anche enigmista.
Lui Ci sono cose che riesco a dire soltanto così. Altrimenti chi legge mi verrebbe a cercare, quando mi immagino come un lettore.
Tu Che cos’è esattamente Liberiamo tu? “autofictiografia” oppure “biofictio”? Sguazzi nel bio schizzando la fictio?
Lui Ci aveva provato Doubrovsky con fils, nel Settantasette: davanti Roman, sul retro autofiction: “Autobiografia? No. Fiction, di avvenimenti e di fatti strettamente reali; se si vuole, autofiction, aver affidato il linguaggio di una avventura all’avventura del linguaggio. Incontri, fils di parole, allitterazioni, assonanze, dissonanze, scrittura prima o secondo letteratura, concreta, come si dice in musica. O ancora, autofiction, pazientemente onanista che spera di far condividere ora il proprio piacere”. Subito qualcuno ha fatto notare: Doubrovsky, che inventò la parola, non ha praticato la cosa.
Tu Hai fatto bene a parlare di Doubrovsky, che oggi nessuno ricorda, perché sei come lui: sconosciuto. Quando parli di Gadda o Bianciardi, di Faulkner o Beckett, di Fenoglio o di Mari, ti fai del male da solo.
Lui Da solo, lo so. Ma da solo con loro. Non sono un autore. Ho i miei problemi che non sono meno di quelli degli altri, ma non sono nemmeno gli stessi. A parte Hume, che leggo e rileggo dall’Ottantanove, e che è il solo filosofo che io conosca (con tutta l’ambiguità della frase), i libri che leggo sono quelli che so che si possono aprire in qualunque momento, una pagina a caso, e provare comunque piacere. Anche se il mio non è uno di questi. Non è facile scrivere quando non c’è tempo per leggere. Siamo tutti troppo impegnati a cercare di pubblicare per farlo sapere anche a noi.
Tu Quindi, non è storia, non è memoria né diario, non è autobiografia ma nemmeno autofiction. Dici che non importa se quello che scrivi è vero oppure se è falso, però descrivi un piccolo mondo più o meno borghese e perfino mediocre. Ma non si tratta di sociologia. Vuoi fare il furbo? Vorresti che fosse letteratura, ma non sai nemmeno a chi ti rivolgi.
Lui E chi ha mai parlato di letteratura? È Mazzatura. Va nell’indifferenziato comune. Se vuoi è una lunga ballata da cantautore degli anni Settanta a Milano, tra Camerini, Finardi e Manfredi, con un tocco del primo Rino Gaetano. Sono solo parolette (è una citazione da cui sono stato tentato, e non ho resistito). Ci ho messo anni per spiegare ai colleghi, americani e inglesi, che non ero un filosofo alla loro maniera ma un “wordinary self”, un parolaiordinario, e uno “yet man”; e loro non capivano mai, poi finalmente, quando hanno capito, non hanno capito. In generale, spesso per ragioni di suono, è un libro avverbioso, pieno di “eppure”.
Tu Continui a fare il furbetto, ma sei senza quartiere.
Lui No, sono serio. Suono ritmo e precisione. La parola è quella che conta. Lo dicono tutti che “è scritto bene”.
Tu E poi si fermano lì. È il resto che manca. Torniamo a Levi: “Per scrivere, bisogna avere qualche cosa da scrivere”. Il rumore non è suono, e la parola non è romanzo.
Lui Non è poi così vero. E non c’era bisogno di Levi per scriverlo. Comunque hai ragione, sono le parole che mi interessano. Quella di Elliot, per esempio, che, passando dalla Commedia, si rivolge a Pound chiamandolo il Il miglior fabbro. Parole sonanti, non sempre comuni ma possibilmente precise. Dieci anni fa, Annette Baier, filosofa e studiosa di Hume, più brava e importante di me (di sicuro non sono importante), ha letto un mio pezzo italiano e dopo ha scritto: “sei un vero wordsmith (lei stessa una bella parola), un fabbro, un forgiaparole. Ho colto il suono, il ritmo e abbastanza del senso”. Ecco. Quello era un complimento, per me, anche se fatto da chi non conosceva la lingua, ma sapeva come blandire.
Tu Dalla modestia alla vanità. Una mescolanza piuttosto nociva di presunzione e umiltà. Ma se credi davvero alle cose che dici, e che scrivi, avresti fatto meglio a tenerle per te. Potevi rivedere, rifare, tagliare. Soprattutto, potevi aspettare. Non dico i nove anni di Orazio, ma qualcosa di più.
Lui In Italia, lo osservava Montesquieu quasi trecento anni fa, “è inutile fare buoni libri, basta farne”. Quando di qualcuno si dice che “ha pubblicato”, nei suoi riguardi si ha un rispetto infinito, ma “è indifferente se quello che ha pubblicato è buono o cattivo”. Almeno, sotto questo punto di vista, l’Italia è nazione e io sono un bravo italiano.
Tu Però chi legge, se non si annoia, quanto meno fatica. Non è un libro per tutti.
Io No. Non è un libro per tutti, è un libro per tu.
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*Emilio Mazza (1962) insegna filosofia all’Università IULM di Milano. Studia Hume e il Settecento, su Hume ha pubblicato diversi studi in raccolte internazionali. Ha tradotto e curato i Dialoghi sulla religione naturale (il Melangolo, 1996) e il Discorso sul metodo (Einaudi, 2014). Liberiamo tu è il suo primo romanzo.
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