È il 1979, una gelida giornata di aprile a Edmonton, nel bel mezzo del Canada, nello stato dell’Alberta. Una ragazza infila uno sopra l’altro diversi maglioni ed esce di casa per andare a lavorare in un ristorante / club jazz ricavato all’interno di una ex chiesa sconsacrata. C’è il palco e ci sono i tavoli e i clienti. La ragazza inizia a servire mentre la musica fluisce gentile.
Si dice che la musica riscaldi; magari non proprio tutta la musica: indubbiamente quella di Bill Evans, una delle leggende del jazz sistemate nel cielo delle stelle fisse impossibili da tirare giù, accanto a Miles Davis (con cui incise Kind of Blue) e John Coltrane, Thelonious Monk e Charlie Parker.

Il concerto di quella sera lì al Railtown Jazz Society di Edmonton era di Bill Evans e la ragazza al lavoro tra i tavoli si chiama Laurie Verchomin, studentessa appassionata di musica, teatro e scrittura. A fine serata incontra Bill, al tempo già logorato dai propri fantasmi. Lei è giovanissima e lui le chiede se ha voglia di passare del tempo insieme. Laurie decide di improvvisare un aftershow a casa sua, l’appartamento si riempie di persone. Da quella serata inizia una storia che terrà insieme Laura e Bill fino alla fine, fino a quando il corpo di Bill non sarà esausto. Anni dopo, Verchomin ha raccontato la sua versione in un memoir ricco di vita e trasgressione ma non privo di una certa carica di tenerezza, Il grande amore, uscito per minimum fax con la traduzione di Flavio Erra.

A distanza di tanti anni, qual è la prima immagine che le viene in mente ripensando al primissimo incontro con Bill Evans?

La prima volta che ho visto Bill era seduto al pianoforte in un alone di luce, al centro di una chiesa che era stata recentemente trasformata in un ristorante. Era un venerdì 13 aprile molto nevoso e Bill stava suonando un concerto con il suo trio: oltre a lui, Marc Johnson al basso e Joe LaBarbera alla batteria.

Quando ha incontrato Evans in che modo conosceva la sua musica? Si considerava una fan?

La mia prima esperienza con la musica di Bill è arrivata grazie a Kind Of Blue. L’ho sentito per la prima volta mentre ero al college, studiando teoria del jazz e danza moderna. Mi era stato prestato assieme a The Jimy Hendrix Experience, li ascoltai praticamente insieme mentre ero al mio primo viaggio acido… Dopo averlo incontrato, sono diventata davvero una fan devota alla musica di Bill. Mi ha presentato la maggior parte delle sue opere incise e una serie di altri compositori classici, tra cui Stravinsky, Bartok, Ravel, Debussy, Scriabin e Lili Boulanger. Ma la maggior parte della mia educazione sulla musica di Bill è arrivata dopo la sua morte: la studio da quarant’anni.

Il libro è permeato da sentimenti di dolcezza. Che uomo era Evans, dal suo punto di vista?

Bill era un uomo molto semplice. Aveva un innato senso di bontà, un cuore caldo e una mente aperta. La gente lo amava naturalmente.

Nel tempo ha rielaborato il vostro rapporto, o è rimasto per così dire “cristallizzato” in quegli anni irripetibili, come un sogno lontano?

No, Bill non suona mai come fosse un ritornello lontano. È la melodia di ogni canzone o capitolo della mia vita. La mia comprensione della nostra relazione si è approfondita negli anni e ho scritto il libro dalla prospettiva di una donna completamente sviluppata: continua ad avere una presenza profonda nella mia vita, e ha avuto una grande influenza su tutti e tre i miei figli.

Esisteva una certa differenza di età tra di voi: ha contato qualcosa, ha inciso nella vostra relazione?

No, per niente.

Nel vostro rapporto, Evans ha mai fatto pesare – oltre che la differenza d’età – il suo status di artista affermato?

No, perché Bill non era davvero famoso, non era una celebrità. Era il ragazzo della porta accanto ed era anche un fantastico artista jazz. Ovviamente la gente lo riconosceva ai concerti, ma era una persona estremamente riservata, e così preferiva stare da solo dopo i concerti e alla fine scappavamo sempre via dopo ogni esibizione.

Musica, sesso, scrittura: era questa la base della vostra relazione?

La musica e il sesso erano importanti, e scrivevo praticamente tutti i giorni, ma la base della nostra relazione erano l’accettazione reciproca e un amore incondizionato. Abbiamo trovato un’affinità radicale nei nostri sistemi di credenze e un innato senso di fiducia, che ha creato un legame eterno.

Com’era la New York di quegli anni, com’era la vostra New York di quegli anni?

Pensare alla New York di quel tempo significa tornare a qualcosa di molto intimo. La mia immagine preferita che ho di Bill ci vede insieme camminare per il Greenwich Village tenendoci per mano. Fu un periodo incredibilmente romantico.

Scrive nel libro: «Mentre lui è intento in questa attività, io rimango da sola, a scrivere e fumare nella stanza accanto. Ogni volta che si chiude lì dentro mi viene l’angoscia, chiedendomi cosa fare se dovesse non uscirne. È come la roulette russa», riferendosi alla dipendenza di Evans dalla cocaina. Cosa aveva portato Evans a questo processo autodistruttivo?

Era la versione jazz classica dell’archetipo del tragico eroe jazz con quel fatale limite. Viveva la sua sofferenza in pubblico come fosse un catarsi per il dolore di tutti. Perché era così? Penso che sia stato scelto, o forse che si sia offerto volontario per incarnare questo ruolo. Tutti gli esseri umani contengono il potere di creazione e distruzione, a volte le scelte sono completamente inconsce.

Rispetto a questa cosa, i suoi sentimenti erano più di impotenza o di rassegnazione?

Volevo essere come Bill. Fortunatamente non ero eccessiva quanto lui, e non avevo bisogno di percorrere quella strada per molto tempo. Ovviamente mi sentivo impotente, ma non mi rassegnavo mai. Ho sempre avuto la speranza di poterlo guarire. E anche se è morto, sento che la guarigione è avvenuta e continua a essere trasmessa attraverso il mio libro.

Quali erano i rapporti tra Bill e i suoi colleghi, penso su tutti a Miles Davis? Aveva amicizie nel giro o prevalevano rivalità e scontri?

Bill e Miles sono rimasti amici. Non c’era concorrenza tra di loro. Altri pianisti erano in soggezione nei suoi riguardi, ma è rimasto sempre molto autentico, generoso e con i piedi per terra. I suoi veri amici erano ragazzi normali che aveva incontrato all’inizio della sua vita, e lui è rimasto molto fedele a loro.

Qual è il ricordo più vivido che ha delle esibizioni di Evans durante i tour tra Stati Uniti ed Europa?

Ricordo le sue esibizioni al Ronnie Scott’s di Londra. In quei giorni stava salutando molti dei suoi amici più cari perché era ben consapevole della sua morte definitiva. Ogni concerto che ha suonato durante quel tour aveva con sé un senso di fine, una nota di eternità.

È ancora emozionante per lei ascoltare la musica di Bill Evans? E se dovesse suggerire a un lettore magari giovane che non avesse mai ascoltato Evans, quali dischi o brani proporrebbe?

Ascolto la musica di Bill ogni giorno, ancora oggi. E sto imparando a suonare alcuni dei suoi brani assieme ai miei figli. Se dovesse suggerire alcuni dischi di Bill partirei dai miei preferiti. Tra gli altri direi subito Sunday at the Village Vanguard, The Paris Concerts, Affinity, Bill Evans Solo, Conversation with Myself.

 

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Autore

gavroche1983@yahoo.it

Liborio Conca è nato in provincia di Bari nell'agosto del 1983. Vive a Roma. Collabora con diverse riviste; ha curato per anni la rubrica Re: Books per Il Mucchio Selvaggio. Nel 2018 è uscito il suo primo libro, Rock Lit. Redattore di minima&moralia.

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