
Ducunt volentem fata, nolentem trahunt[1].
Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, 107, 11
But soft, what light through yonder window breaks?
[…] She speaks, yet she says nothing[2].
W. Shakespeare, Romeo and Juliet, II, 2
In una grande e moderna città del Nord Italia si fronteggiano due candidati per l’elezione a sindaco, Matteo Migliore e Michele Ametrano, con due apparentemente opposte visioni della società e della linea politica necessaria per governare. A poche settimane dalle elezioni, Migliore fa convocare un suo vecchio compagno di liceo, il narratore del romanzo, e lo integra nello staff di collaboratori che vede già la presenza di altri compagni; si forma così nuovamente il gruppo di amici della classe quinta D del Liceo Pasolini. Nel susseguirsi delle vicende legate alla campagna elettorale e alle elezioni, in una città che si fa simbolo della degenerazione civile e politica della nostra società, si risolvono anche alcune questioni personali rimaste sospese per anni.
Nel Gorgia Platone affronta di petto la questione dell’arte oratoria, allora in piena espansione, e le sue ripercussioni sul governo della cosa pubblica, cioè sulla politeia. Si confrontano due interlocutori principali, Socrate e Callicle; per il primo la politica deve migliorare eticamente il cittadino, mentre per il secondo il vero politico è astuto e sa usare il potere per ottenere sempre la propria soddisfazione. Per far questo, dunque, acconsente Socrate, in un regime democratico, com’era Atene, il politico inteso da Callicle deve uniformarsi quanto più possibile al popolo per ottenere in cambio la sua disponibilità ad essere condotto. Nell’unione di popolo (demos) e di azione atta a condurre (aghein, trascinare) risiede la radice della parola demagogia. La demagogia è il ponte che rende possibile (Platone dice inevitabile) il passaggio dalla democrazia alla tirannide, a causa dell’inganno inemendabile insito nel discorso politico e al suo effetto persuasivo sulle persone che sono, in una democrazia, la base politica e decisionale.
Se ci trasferiamo da Atene ai nostri giorni, se muoviamo dalla allora esistente democrazia diretta (riservata a pochi, in ogni caso) alla nostra democrazia rappresentativa, le cose cambiano?
Il romanzo di Davide Grittani, Il gregge, da poco uscito per Alter Ego Edizioni e candidato al premio Strega 2024, dà una risposta narrativa attraverso la costruzione di una storia elettorale contemporanea che viene condotta attraverso strumenti tradizionali, come proclami e slogan di facile consumo, manifesti concionanti, comizi di piazza, alleanze surreali; e strumenti contemporanei leciti o meno, come l’utilizzo dei social network o l’hackeraggio informatico, sfruttando un sistema che si è fatto sempre più espositivo e virtuale.
…tutti postano qualcosa, le verità si moltiplicano come in quel miracolo che assicurava da mangiare a chi non ne aveva, solo che devono essere cambiate le esigenze se l’unica pesca in grado di saziarci è la vanità.
Se la focalizzazione del romanzo è, giusta la scelta del narratore, su Matteo Migliore, l’impressione è che si tratti non già di una faccia della medaglia, ma di una versione dello stesso copione tra le tante possibili, e che la scelta dell’una o dell’altra – che sia per le necessità narrative o per il voto reale che si potrebbe essere chiamati a esercitare – dipenda solo dal momento, dall’estemporaneità di un atto, dalla migliore (sic) visibilità e, dunque, condivisibilità:
La seduzione di questo guitto sovrappeso è così misteriosa, inspiegabile, oltre ogni interpretazione razionale, che potrebbe essere giustificata solo dagli algoritmi della precarietà. Quando le variabili umane appaiono ostili si finisce per credere a tutto, permettendo alla mediocrità di occupare il posto della democrazia.
E non è diverso quello che accade nello schieramento opposto, nel gruppo di Ametrano:
I suoi uomini si stanno concentrando sulla platea degli indecisi, forzando il tappo dell’astensionismo grazie alle capacità mimetiche del candidato e dando vita a surreali alleanze che stanno consentendo ad animali preistorici di tornare a bordo dell’arca. […] Si è messo a praticare medicazioni, suture etiche con cui emendare il passato di chi era stato dimenticato da tutti e adesso mostra riconoscenza per questa insperata rinascita. […] per provare a convincere l’elettorato che i suoi accomodamenti sono indispensabili, deve scavare più a fondo di Migliore. Deve arrivare alla brutalità del bene.
Quella che si dipana progressivamente davanti agli occhi del lettore è una storia dai tratti apparentemente grotteschi, se non fosse che, come raccontano le note a fine romanzo e lo stesso autore in una intervista alla Rai[3], la materia narrativa se ne viene proprio da un fatto di cronaca, capace di spostare un po’ più in là i confini del credibile, sia nel mondo delle res gestae, sia in quello della historia rerum gestarum.
Una simile svolta narrativa è di indubbia efficacia, e permette a Grittani di raccontare una politica promossa e creata da una classe di persone/personaggi che funzionano come maschere romanzesche, verso le quali è più probabile che accada un movimento di identificazione che non di fidelizzazione o di reale adesione programmatica, al modo in cui il lettore si rapporta all’eroe del romanzo che sta leggendo, buono o cattivo che sia, santo o dannato, vittima o carnefice. Questi politici, che l’autore costruisce come un condensato di qualità e convinzioni e linguaggio di vari attori reali della nostra arena democratica e rappresentativa, sono i personaggi di una narrazione collettiva, i quali vengono investiti di una carica che prescinde dal programma, ma che dipende dall’accadere di un riconoscimento tra simili.
Al centro del romanzo sembra dunque esserci l’enigma che caratterizza ogni consenso e che la deriva politica iper contemporanea rende ancora più oscuro e intricato, perché più intricati sono i gangli che definiscono il sistema del comunicare e i suoi strumenti.
Il luogo preferito di incontro dello staff mal assortito, composto dai vecchi compagni, è l’Ikea, che permette loro di allestire un ufficio improvvisato in uno dei locali casalinghi ricreati per i compratori. L’effetto degli amici intenti a discutere mentre gli utenti vorrebbero testare le poltrone o vedere le targhette con la descrizione e il prezzo ha un effetto straniante e comico, ma soprattutto ha una forte valenza simbolica, che richiama una rase presente in apertura del romanzo:
I fatti dicono che siamo la libertà che vorremmo, ma diventiamo gli spazi che occupiamo.
Così, l’Ikea si fa luogo d’elezione di una società sempre più incline ad abitare spazi identici, perché riempiti con oggetti e mobili che vengono dallo stesso grande magazzino e rispondono alle stesse estetiche e necessità economiche; insieme, è anche luogo in cui le parole perdono di rilevanza, perché puro significante (svedese) e non dice alcunché, vuote come vuote sono oramai le parole della politica.
Il libro di Grittani allude a uno dei pochi cambiamenti reali tra Prima e Seconda Repubblica – cambiamento che non ha per altro a che vedere esclusivamente con la politica, i suoi attori, le Istituzioni; ma piuttosto con un cambiamento che investe la società nel suo insieme: la rivoluzione informatica e comunicativa. Un processo che si avvia con, e in certo senso contribuisce a creare, il berlusconismo, che via via progredisce e si evolve fino alle più contemporanee storture e che, in sostanza, mostra come la democrazia rappresentativa si fondi su una base elettorale che è passata dall’essere partecipativa all’essere costituita prima da spettatori, poi da utenti, infine da follower. In questa ultima configurazione, i voti sono un pacchetto oggetto di accumulazione e transazione; e se pure è vero che si conoscono compravendite di voti in cambio di posti di lavoro, è altrettanto vero che quelle erano ancora oggetto di scambio fra individui, oggetto di contrattazione, mentre ora sembra scomparso o ininfluente il referente umano della locuzione uno vale uno.
Il romanzo si muove su un crinale sottile, che separa una tensione molto forte e riconducibile a una ferocia grottesca (nei termini accennati sopra), da un diffuso sentimento nostalgico, diretto verso un tempo che non è più, né mai può tornare: la giovinezza, intesa sia in senso personale/esistenziale, sia come simbolo delle illusioni e delle promesse. Sono, queste due istanze, inevitabilmente legate e non è così peregrino pensare che la prima, così fisica e agonistica, così volutamente animalesca e corporea, venga quasi a esistere come residuo della seconda; la politica, in fondo, aperta alla sguardo pubblico e rappresentativa per definizione degli umori del popolo, mette in mostra una disillusione che è comune a ciascuno di noi e che rappresenta uno dei temi forse più ricorrenti della nostra narrativa: il continuo tradimento adulto di quello che un tempo siamo stati: le volontà che abbiamo pronunciato, gli impegni che eravamo convinti di prendere, i futuri che sapevamo immaginare.
Abbiamo accolto come una liberazione la corruzione su cui si fonda qualsiasi emancipazione. Siamo stati così uniti da passare alla storia del nostro liceo per il romanticismo di cui, nonostante tutto, eravamo apostoli. Oggi siamo solo la copia ingiallita di un’intolleranza che si rigenera, rinvigorisce, ciclicamente ritorna. Altro che lurido branco, alle orecchie portiamo le etichette dell’ignoranza, come un gregge qualsiasi.
Per tornare al Gorgia e cercare così di rispondere alla domanda da cui abbiamo preso le mosse, è certo ancora possibile parlare di demagogia, a patto che se ne veda la dinamica eminentemente contemporanea: il politico moderno, prodotto eminente della mediocrità diffusa, non ha alcun bisogno di farsi simile al popolo che vuole governare (trascinare); egli, chiunque sia, ne è già sempre il suo vaso d’elezione.
Intervista a Davide Grittani
Al fondo del tuo romanzo c’è una storia di amicizia, un vero topos letterario e cinematografico, che investe temi eterni che tutti noi (ri)consociamo, come la nostalgia, il rammarico, l’età passata e felice, il legame forte che si crea in gioventù e così via. Leggendo il romanzo, ho avuto l’impressione che questa traccia servisse per alludere, in contrasto puro con l’ambiente della politica, a un certo impasto identitario che ciascuno di noi ha e che deriva da una lealtà di fondo a ciò che siamo stati. Qualcosa di antico, profondo e, si spera, indissolubile. È così?
In realtà a me serviva materia idonea a raccontare il tragitto biologico da branco a gregge, da gruppo di amici a congrega di fanatici senza scrupoli. Nessun’altra epica restituisce meglio delle campagne elettorali la dissoluzione delle promesse di partenza nel fallimento dell’arrivo, nessun’altra trasformazione come il delirio di onnipotenza (causato dal potere) sa raccontare meglio la delusione di chi si accorge che ciò in cui si è creduto è assai distante dalla realtà. Il gruppo di amici che si ritrova è certamente un topos, ma resta la formula più idonea a rappresentare il passaggio della corruzione sulla nostra pelle, sulle nostre vite.
C’è una frase all’inizio del romanzo che mi è piaciuta e che riporto:
I fatti dicono che siamo la libertà che vorremmo, ma diventiamo gli spazi che occupiamo.
Nel romanzo, infatti, una parte importante è assunta, da un lato, dal contesto abitativo che coinvolge il protagonista e le persone che lo circondano; e, dall’altro, la difficile situazione lavorativa, diffusa in un modo che pare ubiquitario. È allora la malapolitica un esito inevitabile di una società in cui la libertà è un desiderio frustrato dalla carenza e dalla precarietà lavorativa e in cui le persone si impoveriscono e si livellano perché vivono spazi sempre più identici e sempre meno capaci di esprimere il proprio sé?
In questo caso volevo introdurre nella narrazione un po’ di quel qualunquismo che ha fatto delle nostre vicende umane la sottocultura che è diventata, quello strato immateriale in cui tutto è malaffare, tutto è raccomandazione, tutto è aggiustabile. In realtà è una delle scorciatoie per nasconderci dietro ai nostri fallimenti, una delle quinte teatrali per dissimulare la nostra mediocrità. Il punto è che gli Italiani hanno capito che colpa di tutti vuol dire anche colpa di nessuno, e che questo perenne indulto etico riguarda tutti a tutti i livelli. La condizione economico-sociale dei personaggi non è esente da questa autoassoluzione, come se il successo che non è mai arrivato (per quasi tutti i personaggi del romanzo, eccetto il candidato) giustificasse quel qualunquismo che ci impedisce di guardare in faccia ai nostri disastri: ovvero, noi stessi.
Mi pare che, senza grossa fatica, si potrebbe legare alcuni personaggi del tuo romanzo a personaggi pubblici reali, che hanno contribuito a creare – e taluni contribuiscono ancora a mantenere – i nostri stato e clima politici. Ho anche l’impressione, tuttavia, che il senso non stia nel proporre un, pur inevitabile, gioco identificatorio, quanto nella tua volontà di mostrare che c’è in questa classe politica una sua finzionalità intrinseca, che, cadute le grandi narrazioni ideologiche, investe la loro assoluta plasmabilità e interscambiabilità. È così?
I miei personaggi sono maschere, figure teatrali prive di identità e di responsabilità. Dentro le loro facce e i loro nomi ci sono le facce e i nomi di tutti, nel senso che nelle mani e nelle azioni di alcuni sono riconoscibili episodi realmente accaduti ma la miscela tra fiction e realtà è tale e così accurata – almeno mi auguro – che l’incuria, il malaffare, la mediocrità e la millanteria di alcuni personaggi sono facilmente riconoscibili e interscambiabili tra loro. Non mi interessava che i personaggi fossero riconoscibili, mi interessava che le loro miserie fossero elevate a materia letteraria. E a chi pensa che sia tutto aumentato e ipertrofico, rispondo che semmai è approssimato per difetto: ci sono ministri che vorrebbero portare la pasta su alcuni pianeti del sistema solare, altri rappresentanti della sinistra che al telefono piazzavano carrarmati chiedendo provvigioni. La realtà è oltre ogni fantasia. La letteratura non può che rincorrere, è tutta finzione scenica. Tutto spettacolo circense.
Il tuo romanzo si intitola Il gregge. Al suo interno, al di là dello sviluppo narrativo che da solo basterebbe a illuminare il concetto che ne sta alla base, il narratore/protagonista fa una riflessione sulla distinzione tra gregge e branco, che trovo utile richiamare qui, parlando anche a chi deve ancora leggerlo. Puoi riprenderla e, in caso, approfondirla?
Personalmente credo che gli Italiani non abbiamo mai ricucito con maturità e in maniera definitiva le ferite causate dal dolore, dalla fame e dalla sofferenza causate dal dopoguerra, anzi che abbiano al contrario maturato la convinzione che tutto quel dolore dovesse essere rapidamente sostituito da una rimozione della memoria. Il risultato che abbiamo ottenuto è stato quello di un popolo che non sa più da quale passato viene, in perpetua balìa di uno smarrimento storico che anziché rappresentare il midollo di un popolo ha sempre rappresentato un neo di natura cancerogena. Quella rabbia non è mai stata elaborata, quel dolore non è mai stato catechizzato. Ecco che sono diventati ferocia, fanatismo e profondo analfabetismo storico con cui adesso stiamo facendo i conti. Quel tragitto dalla fede alla ferocia lo stiamo pagando con tutti gli interessi. E lo si legge, con netta distinzione, soprattutto sulla bocca degli stessi emigrati italiani, quelli che dal Sud sono stati costretti ad andare a vivere al Nord e che ora chiamano le loro stesse famiglie, che ancora vivono al Sud, “terroni”: quel sacrificio non è stato elaborato con saggezza, ma con ferocia. Il branco ha partorito un rancore, il gregge lo ha trasformato in odio. Indistinto, verso tutti.
Chiudo con una domanda stilistica. Hai scelto spesso di strutturare il ritmo dei capitoli con un montaggio che utilizza sia l’alternanza tra il presente e un passato più o meno lontano, grazie alla tecnica del flashback, sia il riferimento puntuale a scene di due opere non letterarie: l’anime (nella versione televisiva) Doraemon e la serie di film Amici miei. La sensazione è spesso insomma quella di un movimento centrifugo rispetto all’immediatezza dell’azione narrativa. Qual era il tuo obiettivo?
I rimandi ai sottopiani narrativi come quelli del manga Doraemon e del capolavoro Amici Miei di Mario Monicelli, non sono espedienti ma vere e proprie chiavi di letture. Doraemon è un gatto robot indolente, che non fa niente di quello che il suo piccolo padrone vorrebbe. Amici Miei sono un gruppo di nostalgici goliardi che però non sanno essere niente altro che quello. Queste due paralisi, questi modi di essere senza però essere niente, erano perfetti per accompagnare la narrazione di una storia in cui la mediocrità generale si mescola a quelle individuali, in cui nessuno – a parte la voce narrante – riesce a fare un passo in direzione della dignità. Ecco, questa sarebbe la più grande delle rivoluzioni culturali contemporanee. Basterebbe il recupero della dignità personale, per assistere a ben altro spettacolo della politica.
[1] “I fati conducono chi loro acconsente, trascinano che gli si oppone”.
[2] “Ma piano, quale luce irrompe da quella lontana finestra? […] Lei parla, eppure non dice nulla”. Marshall McLuhan cita questi due versi, tra altri del bardo, in apertura del suo Gli strumenti del comunicare, come metafora dello schermo (e del medium) televisivo.
[3] https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2024/02/Davide-Grittani-Il-gregge-4e42bce6-1c2b-4737-bfa2-6103e5fe2a29.html
Alberto Trentin è nato a Treviso. Ha pubblicato varie raccolte di poesia. L’ultima si intitola Gli attimi attigui (Digressioni, Udine 2022). Scrive per Minima&moralia e Finnegans. Dirige la scuola di scrittura ri-creativa Alba Pratalia con Paolo Malaguti. il suo blog Epicentri – Conversazioni sulla Letteratura è al seguente indirizzo: www.albertotrentin.it