Pubblichiamo un articolo uscito sul Messaggero, che ringraziamo.

Dall’alba degli anni Ottanta del Novecento perdura un’epidemia globale aggravata dai silenzi, dallo stigma della vergogna e dalla discriminazione. Anche nella pandemia da Covid-19, la memoria e l’attualità delle morti da AIDS sono rimaste nascoste. La questione sanitaria, culturale e sociale è purtroppo apertissima: nel mondo circa quaranta milioni di persone vivono con l’HIV.

L’individuazione del virus risale al giugno del 1983. A quarant’anni di distanza un’autrice statunitense, Rebecca Makkai, che all’epoca era una bambina, e il suo romanzo, I grandi sognatori (traduzione di Cristiana Mennella, 536 pagine, 22 euro), appena pubblicato in Italia da Einaudi e già in corsa per il Premio Pulitzer e il National Book Award, ripercorrono per la prima volta l’intero arco temporale dell’epidemia, fino alle ripercussioni odierne, ascoltando la voce nitida dei sopravvissuti all’AIDS.

Makkai porta il lettore nella natia Chicago ferita dall’AIDS. Torniamo al 1985. Al centro della narrazione, costruita sulla stratificazione temporale fino al 2015, ci sono il giovane Yale Tishman e il gruppo di amici omosessuali che inizia a lottare, e a cadere, contro una malattia devastante, fronteggiando spesso l’isolamento famigliare, l’indifferenza della società e il ritardo delle istituzioni. Yale trova un sostegno forte nell’amicizia con Fiona, sorella di Nico, una delle prime vittime dell’epidemia, che non cede ai pregiudizi. Fiona è l’anello di congiunzione tra le storie. Nei giorni dell’attentato al Bataclan si trova a Parigi sulle tracce della figlia Claire irraggiungibile. Il viaggio in Europa diventa l’occasione per riannodare i vissuti legati alla tempesta AIDS. I grandi sognatori riapre con la letteratura una pagina oscurata della Storia.

Sussistono parallelismi con la pandemia da Covid-19?

«I virus colpiscono più intensamente le aree più marginali. In molti sopravvissuti all’AIDS con cui ho costruito un legame, ho percepito il terrore già vissuto. La caccia all’untore non è stata tuttavia paragonabile».

L’ora di scrivere la storia dell’AIDS è maturata?

«Ciò che sappiamo lo dobbiamo al coraggio di parlare dei sopravvissuti della prima ondata che oggi hanno sessanta, settant’anni. Hanno impiegato decenni per conquistare uno spazio pubblico ed è il momento di incidere le loro memorie liberate dal disprezzo».

Il romanzo inizia dal funerale di Nico con il silenzio dei genitori. Che cosa si è salvato dalla morte?

«Il restare fedeli all’amicizia, al desiderio e in sostanza alla vita. La rabbia e l’amore si sono mischiati nel tentativo di non lasciarsi travolgere dall’impatto traumatico del male».

Qual è il sentimento dominante nei sopravvissuti che ha intervistato?

«Il racconto partiva spesso dalla perdita di un amico all’età di vent’anni. La complessità psicologica del senso di colpa di chi è scampato alla condanna a morte, tenendo la mano alla persona più cara».

Nella documentazione ha attinto anche alla stampa dell’epoca. Ricorda un titolo?

«Nel maggio del 1982 il New York Times aprì la prima pagina scrivendo: “Il nuovo disturbo degli omosessuali spaventa le autorità sanitarie”».

Lei rievoca la figura del Presidente Ronald Reagan che impiegò sei anni per pronunciare in pubblico la parola AIDS.

«Il Presidente non ebbe alcuna reazione pratica, quando l’epidemia deflagrò nel Paese. Non si scosse neanche davanti al dolore dell’amico attore Rock Hudson, morto senza la forza di riuscire a fare coming out. Soprattutto per i conservatori rappresentava un tabù assoluto».

Hudson, scomparso nell’ottobre del 1985, è stato il primo personaggio famoso a morire di AIDS. La sua fine smosse qualcosa. Perché è stata una malattia incomunicabile?

«L’AIDS era considerata alla stregua di una punizione divina. Lo stigma sull’omosessualità era ancora tremendo, nonostante qualche avanzamento sul fronte dei diritti tra gli anni Sessanta e Settanta. Quando l’epidemia è emersa, è sembrata un conto da pagare. Qualcosa che le persone meritassero. Non se ne doveva parlare e l’ignoranza dominò».

Hollywood ha avuto paura di questa storia?

«Sì, è successo soprattutto con l’industria cinematografica. La pellicola Philadelphia con Tom Hanks uscì nel 1993. Nel decennio precedente ricordiamo Che mi dici Willy? con un impatto. Non era facile convincere i produttori che temevano di inquietare la famiglia media americana».

Il mondo dell’arte come reagì?

«Tutti pensiamo alla vita e alle opere di Keith Haring. Non fu il solo. Mi ha colpito studiare la reazione immediata e libera all’AIDS degli artisti visuali. Sono stati fondamentali per rompere il silenzio sulla malattia come il collettivo creato da Avram Finkelstein».

La gestazione di Dallas Buyers Club è durata venti anni. Il protagonista crede che l’eterosessualità lo tenga al riparo dal contagio. Quanto la malattia è ancora associata all’omosessualità?

«Negli anni Ottanta era difficile riconoscere di essere gay. Si rischiava di perdere il lavoro, l’affitto della casa, i rapporti con i genitori. Malgrado le conoscenze, continuiamo a illuderci che riguardi solo una comunità».

Nelle pagine traspare un senso di ottimismo. Perché non è stata una generazione persa?

«Per oltre un decennio è stata una processione di funerali di amici stroncati dalla malattia. Al contempo è stata una stagione incredibile di progresso. La lotta contro l’epidemia si è saldata con quella sul fronte dei diritti per sconfiggere l’oscurantismo».

 

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gabrielesantoro@minimaetmoralia.it

Gabriele Santoro è giornalista professionista dal 2010. Ha lavorato per Adnkronos, gli esteri di Rainews24 e Tv2000. Dal 2009 collabora con Il Messaggero. Scrive per il venerdì di Repubblica, Minima&moralia, Il Tascabile – Treccani e l’Osservatorio Balcani – Caucaso. È autore del saggio inchiesta «La scoperta di Cosa nostra. La svolta di Valachi, i Kennedy e il primo pool antimafia» (Chiarelettere, 2020), della guida narrativa «111 luoghi di Roma che devi proprio scoprire» (Emons, 2022) e di «Tutti i colori del rosso» (Feltrinelli, 2024)

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