Pubblichiamo un’intervista di Ilaria Mancia a Fabrizio Gifuni uscita per il «Mucchio Selvaggio», che risale al tempo in cui Gifuni debuttò con lo spettacolo su Pasolini: «’Na specie de cadavere lunghissimo», contenuto, insieme a «L’ingegner Gadda va alla guerra» nel cofanetto «Gadda e Pasolini: antibiografia di una nazione» (minimum fax, 2012).

di Ilaria Mancia

Incontrare Fabrizio Gifuni per una chiacchierata è trovarsi davanti uno dei volti più noti del giovane cinema italiano. Ma non solo. Quella che era partita come un’intervista, si è presto trasformata in un denso e coinvolgente racconto sul suo progetto teatrale dedicato a Pasolini.
Lo spettacolo ‘Na specie de cadavere lunghissimo, prodotto dal Teatro delle Briciole e dalla Fondazione Culturale Edison di Parma, lo vede ideatore e protagonista, sotto la sapiente regia di Giuseppe Bertolucci, di quello che rappresenta un ritorno al teatro, un’esigenza esaudita in uno spettacolo emozionante e catartico, un monologo dove prosa e poesia si mescolano. Le parole del Pasolini luterano  e corsaro, i suoi versi friulani, gli endecasillabi del poeta milanese Somalvico sono il materiale linguistico di questo violento viaggio nell’opera di Pasolini, nei suoi lucidi e contemporanei gridi di allarme, nelle sue parole dense e veggenti, nelle complesse sfaccettature  della sua opera così indissolubilmente e drammaticamente legata alla sua vita e alla sua morte.

Da dove nasce la tua esigenza di tornare al teatro?
È un’esigenza che nasce dalla casuale assenza dai luoghi del teatro per cinque anni. Ho iniziato facendo solo teatro e non pensando assolutamente al cinema. Poi è arrivato il cinema, con incontri importanti e progetti coinvolgenti, ed il tempo è passato. Per essere precisi sono passati cinque anni, gli stessi che avevo già dedicato al teatro. In quel primo periodo due sono state le esperienze teatrali fondamentali e stabili: quella con Massimo Castri nell’Elettra e nella Trilogia della Villeggiatura e quella con una compagnia formata da attori italiani e greci, diretta dal regista greco Teo Terzopoulos, con cui ho lavorato nell’Antigone, per due stagioni in Grecia e in una lunga tourné in Asia. Quest’ultima rimane una delle esperienze centrali di quel periodo, legata, in qualche modo, ad alcuni temi di questo mio nuovo spettacolo. Infatti, uno dei motivi per cui ho scelto di fare questo lavoro è sicuramente l’amore per la tragedia greca.
Dopo i cinque anni di cinema ho sentito un grande richiamo nostalgico e la voglia di tornare al teatro con uno spettacolo che mi rappresentasse interamente, in cui mettere a frutto il lavoro complessivo di questi primi dieci anni.
Nel momento in cui ho iniziato a pensare a cosa potevo fare alcuni tasselli si sono da subito rivelati e messi insieme. Avevo voglia di fare uno spettacolo che raccontasse la trasformazione del nostro paese, quello che eravamo diventati e come si era evoluta, insieme a noi, la realtà italiana. Avevo, inoltre, la sensazione che soprattutto il cinema avesse smesso da parecchio tempo di mostrare la realtà del nostro paese, come se quello specchio privilegiato, che aveva funzionato per lungo tempo, si fosse progressivamente appannato. Solo negli ultimi anni con La meglio Gioventù di Giordana, Buon giorno notte di Bellocchio e The Dreamers di Bertolucci si è manifestato un tentativo di colmare un vuoto durato per 20/30 anni. Sentivo l’esigenza di riprendere questo discorso e Pasolini, che è sempre stato per me lettura privilegiata, è stato da subito il riferimento essenziale. D’altra parte avevo voglia di lavorare su un testo di Giorgio Somalvico, un autore che conoscevo personalmente da anni e con cui era nato un raporto di amicizia, di collaborazione e di scambio.
Somalvico è un autore completamente inedito e mai rappresentato che, pur avendo una produzione poetica e narrativa vastissima, non si è mai posto il problema della pubblicazione. Un forte desiderio di portare in scena uno dei suoi materiali mi ha spinto a scegliere quello che preferivo (ndr ‘Il pecora’  poemetto in endecasillabi), una sorta di galoppata liberamente ispirata alla figura dell’assassino, o di uno degli assassini di Pasolini. Di lì è iniziata la ricerca del come far convivere gli scritti di Pasolini con i versi di Somalvico da cui è lentamente nato un ampio ipertesto, molto più vasto del testo definitivo poi portato in scena.
Ho quindi fatto leggere, per amicizia, il materiale elaborato a Giuseppe Bertolucci che ne è rimasto colpito in modo entusiasta. Quando si è trattato di decidere se affrontare una regia autonoma o no ho chiesto a Giuseppe di affiancarmi nel progetto. Ho scartato quasi subito l’ipotesi di autodirigermi; l’elaborazione del testo era stata così lunga che consideravo molto pericoloso chiudermi in una situazione di totale solitudine. Inoltre il lavoro stava prendendo una forma duale; uno dei temi dello spettacolo è la contrapposizione fra padri e figli, vittima e carnefice, natura e opera d’arte, Dottor Jeckyll e Mister Hide. Trovavo, quindi, fondamentale poter avere un incontro-scontro con qualcuno con cui rapportarmi. Giuseppe è stata la scelta diretta e felice che ho fatto.
Il suo contributo è stato fondamentale nella stesura definitiva del testo e necessario per la definizione di una conclusione. Da solo avrei rischiato di andare avanti per altri dieci anni in un’infinita elaborazione mentre lui è arrivato e mi ha detto: “Basta! Decidiamo dei tempi, delle date e andiamo in scena, se no tu non lo farai mai questo spettacolo”. Gli devo, oltretutto, anche questo!

Poco fa hai accennato al ‘dualismo’ , un dualismo che risulta in atto anche a livello linguistico e scenico…
Certo. Il tema del dualismo domina tutto il lavoro ed assume anche una sostanza linguistica. Si parte dall’italiano, dalla lingua della ragione degli Scritti Corsari, delle Lettere Luterane e di alcune interviste di Pasolini, fra cui quella fondamentale a Furio Colombo rilasciata sei ore prima di morire. Si attraversa una seconda fase di spaesamento linguistico in cui l’italiano viene contaminato dalla lingua delle origini e dalla poesia, dal friulano e dal romanesco reinventato in Ragazzi di Vita e altri romanzi. L’impasto linguistico approda, alla fine, alla metrica del poeta Somalvico che da milanese reinventa un romanesco poetico ed energico (come il friulano Pasolini reinventa una lingua di borgata).
Bertolucci mi ha molto aiutato, oltre che a finalizzare lo spettacolo, a dare unità al grande ipertesto che avevo creato dove la struttura duale era troppo scoperta e meccanica. Con lui sono riuscito a riassumere i due aspetti in un solo corpo linguistico e poi, in scena, in un solo corpo d’attore.
Man mano che procedevo nel confronto con i testi mi è sembrato imprescindibile il rapporto con il tema della morte. La morte come segno espressivo. Da un certo momento in poi Pasolini inizia a fare un discorso sulla morte e sulla propria morte talmente forte, evidente e lucido da rendere impensabile qualsiasi confronto con questi materiali che escluda questo tema, quest’evidenza. La vita, l’opera e la morte di questo autore appaiono come una serie di elementi compresenti, profondamente intrecciati.
Lo spettacolo ha quindi assunto una forma aristotelica in una sorta d’ideale scansione in tre parti. Apre un lungo prologo socratico di una voce e di un corpo che, in mezzo al pubblico, fra i corpi degli spettatori, inizia il suo monologo.
La scelta di rompere la frontalità sulla scena è stata fondamentale in questo lavoro sia per evitare che, soprattutto l’inizio, si trasformasse in un’insopportabile lezioncina didattica sia per sottolineare la centralità nel discorso di Pasolini della vicinanza fisica dei corpi. Egli ha vissuto tutta la vita in una prossimità fisica con il suo interlocutore che si è poi tramutata in scontro mortale, nel suo ultimo giorno di vita. La sua elaborazione teorica ed ideologica nasceva dalla sua esperienza fisica, questa era la sua peculiarità e ciò che lo distanziava dagli altri intellettuali. Egli stesso dice – So bene com’è la vita di un intellettuale, lo so perché è anche la mia vita ma io, come Dottor Jekyll, ne  ho anche un’altra. Si da il caso che la differenza fra me e voi sta nel fatto che io ogni notte scendo all’inferno e vedo cose che voi non conoscete. Tutto quello che io produco, tutta la mia vita di intellettuale, regista, scrittore e poeta, è  la diretta conseguenza della mia esperienza, da cui non posso prescindere.
Da qui si sviluppa il suo grande discorso sulla trasformazione antropologica del paese e su come egli la viva, a differenza degli altri, come una morte. Gli effetti devastanti della civiltà dei consumi si traducono in un’impossibilità di rapportarsi a dei corpi e a delle persone.
Parte così il secondo stadio dello spettacolo in cui si scende sempre più nel privato ed in cui, nella straordinaria Lettera Luterana mai pubblicata sui Giovani Infelici, Pasolini dice – Io che per tanti anni ho amato e riposto tutta la mia fiducia nella gioventù, in questo momento ho preso ad odiarla visceralmente perché rappresenta tutto ciò che c’è di più orrendo nella realtà che mi circonda. Se presuppongo una punizione per questi giovani, non posso che ammettere che la responsabilità di tutto questo è mia. (Qui il tema della tragedia greca Le colpe dei padri ricadono sui figli) La colpa è mia in quanto padre ideale e parte di una generazione che si è resa responsabile prima del fascismo, poi di un regime clerico-fascista ed infine della rovina delle rovine che è la civiltà dei consumi.–
Conclude quindi in maniera lucidamente folgorante dicendo: – Io non voglio più dire nulla su questi giovani. A chi mi obbietta che con i figli bisogna sempre parlare per poter capire, io rispondo che non c’è più nulla da capire e l’unica cosa da fare è comportarsi come Edipo, incontrare il proprio figlio su un campo di terra, aggredirlo e rimanere morti per sua mano.-
Credo sia difficile, quindi, prescindere da tutto ciò e pensare al momento della morte di Pasolini come ad una fatalità. Personalmente non ho mai creduto alla tesi del complotto ed oltretutto mi chiedo come si faccia a parlare di complotto quando lo stesso Pasolini, sei ore prima di morire, sbeffeggia Furio Colombo dicendogli – Ti piacerebbe vero se qualcuno facesse un piano per farmi fuori?! così tutti parlereste di  un bel complotto. Ma come fate a non rendervi conto che voi è come se steste guardando un incidente ferroviario con in mano l’orario di dieci anni fa. Le cose sono cambiate, gli strumenti che dovreste usare sono altri e non i vecchi parametri con cui continuate a ragionare.-
Non ho mai voluto che lo spettacolo diventasse uno spettacolo a tesi, una sorta di teorema, tanto per usare un’espressione pasoliniana, un teorema perfetto in cui si arriva ad una conclusione. Non che io non abbia maturato un convincimento emotivo su questa storia, ma credo che la vita, l’opera e la morte di Pasolini vadano affrontate come un mistero, nel senso più alto e sacro del termine.Tutto quello che egli ha costruito poeticamente e semanticamente è sempre andato nella direzione del mistero, dell’agnizione, del tentativo di far cadere il velo, con tutta la carica di profonda sacralità che investe il miserevole tentativo dell’uomo di avvicinarsi a qualcosa d’irraggiungibile e sconosciuto.
Ci tenevo molto che lo spettacolo, pur avendo una scansione lineare, non arrivasse ad un punto ma cercasse di mantenere in campo tutti gli elementi, sottolineando la complessità della materia che si maneggia quando ci si avvicina a Pasolini. Egli è l’esempio vivente di ciò che sfugge a qualsiasi catalogazione politica, poetica ed artistica.

Tu in mezzo al pubblico e le parole di Pasolini. Quale atteggiamento attoriale ed interpretativo hai assunto di fronte a questa densa materia di cui ti sei reso portatore?
Da un lato non abbiamo mai voluto rappresentare Pasolini da un punto di vista mimetico, escludendo questa ipotesi totalmente. Dall’altro, uno dei motivi che mi hanno spinto verso questo lavoro era quello di cercare delle parole da prendere in prestito, da cui sentirmi completamente rappresentato e di cui condividere pressoché tutto. Nel grande discorso socratico della prima parte non c’è nessun tentativo di simulazione, sono io che porto quel pensiero e quelle parole in scena, in mezzo al pubblico con una nudità (che poi diventa anche nudità scenica) che è nudità della parola. Queste parole, talmente significative e forti, non hanno bisogno di nulla, devono solo essere messe in campo.
In questo la regia di Bertolucci è stata perfettamente aderente al testo. Ha capito subito che la prima parte doveva restare totalmente nuda e libera da qualsiasi teatralità, mentre, man mano che ci si avvicinava alla zona privata, più intima e misteriosa, e alla fine al testo teatrale di Somalvico, ci poteva essere una progressiva e parsimoniosa aggiunta di elementi che ci facessero lentamente entrare in una zona più teatrale.
L’anello di congiunzione che abbiamo scelto, fra il discorso civile e politico ed il pezzo di Somalvico, è un testo unico di Pasolini, la Lettera ai Giovani Infelici, il cui punto di partenza è l’interrogarsi su il tema del coro della tragedia greca ‘le colpe dei padri ricadono sui figli’. Questo passaggio ci fa entrare immediatamente in una zona di riflessione che ha in se un forte nucleo di religiosità, di sacralità e che ci permette poi di accedere e dare vita all’ultima, drammatica parte dello spettacolo.
Forte emozione mi ha dato, inoltre, il prendere contatto con quella sorta di paradosso che afferma che ‘non è l’opera d’arte che imita la natura ma è la natura che imita l’opera d’arte’, qui fortemente presente nel progressivo dar vita ad un personaggio che da archetipo (il riccetto di Ragazzi di vita che poi prende corpo nella figura di Ninetto), figura dell’innocenza e della purezza, si trasforma nel suo doppio criminale, nella figura di Pelosi. Pirandellianamente sfuggono al controllo dell’autore dei personaggi da lui creati. Quello che colpisce è che in Pasolini tutto ciò sembra lucidamente calcolato, non c’è un Frankenstein prodotto da uno scienziato impazzito ma una cosciente costruzione di qualcosa che da materiale poetico diventa vita. È presente un continuo sdoppiamento fra natura ed opera d’arte (ecco di nuovo il tema del doppio) dove non si riesce mai a distinguere chi precede cosa, se l’esperienza ha preceduto la creazione o viceversa, e quanto i due aspetti siano intrecciati e confusi.
Stupisce la quantità di segni espressivi presenti nell’opera di Pasolini intimamente legati alla sua morte.

Di qui ti cali nel mondo del verso e nei panni dell’assassino, attui una vestizione e cambi totalmente registro espressivo e linguistico. Nonostante ciò non si crea alcuna frattura in questo passaggio, sembra quasi che lo stesso personaggio generi in sé una trasformazione.
Per questo ho cercato di ispirarmi all’immagine della discesa agli inferi di cui Pasolini parla così tanto. Da una zona luminosa sia dal punto di vista espressivo che linguistico, dove la lingua è la lingua lineare della ragione, si discende in una zona sempre più oscura e difficile da controllare, facendo si che tutto ciò si generi e sviluppi dalle parole iniziali. Così come Pasolini diceva – Nessuno può pensare di leggere ed utilizzare quello che io ho scritto e creato staccandolo dalla mia realtà e vita – allo stesso modo io non volevo che l’ultima parte dello spettacolo, il testo di Somalvico (unico corpus estraneo ai testi di Pasolini), arrivasse come un’improvvisa frattura o come una sorta di ‘numero teatrale’. L’elaborazione lenta del testo era dovuta all’attenzione che ho impiegato affinché i versi del poeta milanese nascessero dalle parole di Pasolini, ne fossero diretta emanazione e non qualcosa di estraneo.
Da un punto di vista attoriale mi interessava sperimentare, all’interno di uno stesso lavoro, delle modalità espressive diverse che comportassero un totale cambio di concentrazione. La difficoltà dello spettacolo risiede proprio nel fatto che progressivamente cambia il punto di concentrazione o di abbandono; quello che devi ricercare quando sei in scena è l’abbandono, che è possibile solo se si è costruita una griglia solida che sorregge e da sicurezza. Questa possibilità di abbandono è ciò che mi entusiasma di più di questo spettacolo; date le parole del testo, ogni sera può cambiare e succedere qualsiasi cosa.

Da quello che mi hai raccontato risalta l’urgenza di questo lavoro che sento fortemente politica.
Cerco di intendere ogni giorno questo lavoro come una possibilità d’indagine sulla società, sull’essere umano ed, in ultimo, su me stesso.
Il discorso politico è insito e necessario in quello che faccio. Non credo esistano film o spettacoli politici e film o spettacoli non politici; tutto è politico nel momento in cui istaura un rapporto cosciente o incosciente con la polis, con la collettività.
L’urgenza politica è molto forte in questo lavoro; è il cercare di capire cosa siamo diventati e cosa è diventato il nostro paese, avere il coraggio di guardarsi allo specchio e di provare un sano sentimento di orrore rispetto a quello che vediamo.
L’unico punto di distacco dal discorso di Pasolini è che questi arriva ad un punto di non ritorno mentre l’intenzione dello spettacolo è, ovviamente, di dare una spinta propulsiva che sia il più vitale possibile.
Credo sia uno spettacolo necessario, soprattutto in un  momento come quello che stiamo vivendo. Il pubblico vive una forte esperienza di sconcerto nel pensare che questi testi sono stati scritti trenta anni fa mentre sembrano scritti domani. L’avvento del nuovo fascismo, l’uso dei mezzi di comunicazione, la televisione come strumento principe per distruggere la coscienza di una popolazione, la perdita del sacro, un potere che non sa più che farsene della Chiesa e non può che dileggiare il Vangelo ed una critica lucidissima, e quanto mai necessaria, al mondo progressista di sinistra, a cui Pasolini non ha mai smesso di appartenere pur martellandolo dall’interno e che, oggi più che mai, avrebbe bisogno di persone come lui con cui confrontarsi.
Le parole del poeta di Casarsa si staccano con tanta evidenza dal comune chiacchiericcio intellettuale e politico da risultare necessarie, oggi, in scena.

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Autore

nicolalagioia@alice.it

Nicola Lagioia (Bari 1973), ha pubblicato i romanzi Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) (vincitore Premio lo Straniero), Occidente per principianti (vincitore premio Scanno, finalista premio Napoli), Riportando tutto a casa (vincitore premio Viareggio-Rčpaci, vincitore premio Vittorini, vincitore premio Volponi, vincitore premio SIAE-Sindacato scrittori) e La ferocia (vincitore del Premio Mondello e del Premio Strega 2015). È una delle voci di Pagina 3, la rassegna stampa culturale di Radio3. Nel 2016 è stato nominato direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino.

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