Pubblichiamo, ringraziando la rivista e l’autrice, l’intervista di Giada Ceri a Giancarlo Parissi uscita sul numero 297 di “Una città”. Si tratta dell’ottava di una serie di interviste di Giada Ceri a persone variamente impegnate nell’ambito penitenziario.

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La questione del reinserimento dopo che si è scontata la pena in carcere e la necessità di uscire dalla sola logica del “collocamento” per sviluppare la capacità dell’autoimprenditorialità; l’esigenza di abbandonare l’infantilizzazione del detenuto, talmente implicita nel mondo carcerario da aver contagiato anche gli esterni che vi operano; una relazione con il detenuto che può dare frutti solo ricorrendo al rapporto di educazione.

Intervista a Giancarlo Parissi. Giancarlo Parissi è tra i fondatori del c.i.a.o., Centro Informazione Ascolto Orientamento, associazione costituita a Firenze nel 1992 con l’obiettivo di promuovere una possibilità di accesso a un ruolo di cittadinanza anche per le persone ai margini della comunità.

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In questa e nelle precedenti interviste sul carcere siamo partiti dal Reembolso através da leitura, progetto brasiliano che prevede lo scambio fra libri letti e giorni acquisiti di libertà. Che cosa ne pensi?

Sicuramente non mi sembra un’idea criticabile, semmai utopistica rispetto alla realtà della vita dentro il carcere. Ma è un’idea molto originale, e non è che in carcere l’originalità delle idee trovi spesso casa. Dal mio punto di vista è una proposta che, indipendentemente dalle possibilità di realizzarla in maniera positiva, potrebbe valere la pena di essere provata. Al di là di ogni considerazione – parlando di carcere e di reinserimento, per usare una parola che come tutte le altre vuol dire ben poco –, l’idea di inserire la lettura, il rapporto con i libri, fra le opzioni possibili per affrontare il problema di come si lavora sul reinserimento di persone che stanno in carcere mi troverebbe completamente favorevole. Detto questo, è una proposta che corre il grosso rischio di rimanere di difficile effettiva praticabilità. Da parecchio ormai tento di sostenere che le due parole che possono arricchire l’ormai stantia questione del reinserimento sono educazione e istruzione di base. Educazione non è solo il lavoro, non sono solo i programmi di misura alternativa ripetuti a pappagallo indipendentemente dalle caratteristiche della persona. Per educazione intendo l’adeguamento degli input al livello della persona in modo da tirar fuori da lei il massimo che può dare dal punto di vista della relazione con gli altri, della capacità di esprimersi e via dicendo. Per istruzione di base intendo istruzione di base: matematica, italiano, geografia, storia… Una cosa di questo genere. Se vogliamo mantenere il concetto di lavoro, che tanto ha permeato tutta la questione in questi decenni ogni volta che il mondo esterno si è avvicinato al carcere, e tener conto della precedenza che devono avere educazione e istruzione di base, allora parlerei di lavoro in termini di progetti di autoimprenditorialità. Proverei a sfuggire dalla gabbia della persona formata in carcere che con quella formazione poi tenta di trovare fuori. Uscirei dalle gabbie del collocamento tradizionale, del centro per l’impiego, dai percorsi facilitati dalle borse lavoro. Proverei a favorire le capacità – naturalmente accompagnate e tutorate – di autoimprenditorialità delle singole persone, quelle che quelle che ne hanno voglia e che, superato il gradino dell’educazione e dell’istruzione di base, si ritengono in grado di misurarsi con questo.

Il lavoro quindi non è, nonostante la vulgata, una chiave certa per il reinserimento.

Spesso ci troviamo di fronte a forme mentali, parlando delle persone in carcere o appena uscite o che stanno per uscire. Ci troviamo di fronte a forme mentali che danno oserei dire per scontato un livello di assistenza nei confronti di queste persone legato alla loro disponibilità a collaborare, a sforzarsi di uscire dalla situazione in cui sono, a maturare, eccetera. Sull’argomento siamo ormai regrediti anche noi “esterni” – le associazioni, le cooperative, il terzo settore, gente che ci ragiona, politici che se ne interessano. Il carcere ci risucchia verso il suo infantilismo se non abbiamo uno scatto che ci porta a ragionare sugli strumenti di… Mi veniva quasi la parola redenzione, perché il reinserimento di cui si parla è inteso da qualcuno come una sorta di redenzione, forse da altri come un inserimento burocratico.

Nella sua ultima relazione il Garante nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ha citato proprio l’istruzione come elemento fondamentale per accompagnare nel loro percorso le persone detenute. Parlava anche di sostegno abitativo e di possibilità di un reddito, però, come fai tu, metteva l’istruzione al primo posto.

Sì, istruzione al primo posto. Istruzione e educazione. Altrimenti non arriverai mai a conoscere le persone. Se le vuoi conoscere e le vuoi aiutare – continuiamo a usare questa parola, non la trovo offensiva per chi riceve l’aiuto –, laddove queste persone sono disponibili ad essere aiutate, ecco, per capire se hanno capito, se sono in grado di utilizzare gli strumenti che tu gli puoi dare, per capire che persone sono, in poche parole, è necessario un rapporto di educazione nei loro confronti. Ed è fondamentale capire con la massima chiarezza possibile se capiscono veramente quello che gli viene detto, non quello che sanno di dover capire se vogliono continuare a ricevere il tuo aiuto. Non so se sono troppo arzigogolato… Educazione e istruzione sono indispensabili; altrimenti continuiamo pure a fare così. Non è detto che facciamo del male, ma non facciamo nulla. Sono arrivato a questa conclusione da un po’ di tempo. Se non usciamo anche noi operatori dall’infantilismo del carcere… Sono andato a rileggere la definizione di “infanzia” sul vocabolario: “periodo tra la nascita e l’uso completo della parola”. Nessuno mai ha lavorato davvero seriamente per arrivare all’uso completo della parola da parte della struttura, degli educatori, dei detenuti… Da parte di tutti gli attori della situazione. Ho letto quello che ha detto Elisa Taddei sulla questione del teatro [Una Città, n. 289/2022]. Ha ragione su tutto. È vero che il teatro è un ottimo strumento in carcere – non portare le persone a teatro, ma fargli fare teatro, far capire che mondo è, far capire quello che sta dentro la questione teatrale. È assolutamente vero che con il teatro si possono raggiungere dei risultati, però bisogna spiegare bene anche alle persone che fanno teatro che l’importante non è tanto il risultato che si ottiene con l’aiuto del regista, non è tanto tirar su una bella rappresentazione. L’importante è che le persone detenute che in carcere vanno a fare teatro approfittino di quell’occasione per capire e apprendere cose che fino a quel momento avevano capito poco, appreso per niente. Il teatro da questo punto di vista in molte delle sue manifestazioni in carcere è stato ed è un ottimo strumento.

Uno ottimo strumenti fra i vari che vengono peraltro proposti come attività “ricreative”. In carcere c’è parecchia roba.

Sì, c’è di tutto. A volte veramente le persone detenute vengono trattate come bambini e la risposta è conseguente, più o meno consapevolmente. Ci manca solo che gli parliamo con un accento diverso come si fa con bambini.

A questo proposito, ragionerei del rapporto tra quello che si fa in carcere e la finalità per cui lo si fa.

Un rapporto molto delicato, nelle esperienze almeno che ho avuto io, da considerarsi anche in termini di pragmatismo in un sistema nel quale tutti – persone detenute, educatori, volontari, etc. – devono produrre risultati… Più o meno finti.

D’altra parte c’è la necessità di una schiettezza di fondo, senza la quale non si va da nessuna parte. Io educatore non devo far finta di rieducare e il detenuto non deve far finta di essere stato rieducato per poter essere riammesso all’assistenza. 

Esattamente.

Questo mi sembra uno dei nodi su cui si regge non solo il carcere, ma anche la nostra società in varie sue parti. La scuola, per esempio. Perché gli estremi si toccano, scuola e carcere sono due facce diverse della stessa medaglia. Prendiamo l’incapacità di comprendere il significato delle parole, di cui parlavi prima: è diffusa a tutti i livelli.

Quello del carcere non è un mondo astratto, è un mondo con regole ben precise, che la maggior parte dei partecipanti più o meno consapevolmente accetta (indipendentemente dai vari personaggi più o meno illuminati che lo hanno attraversato quel mondo – Margara, per esempio). Perché su queste regole ci vive. Ci campano le guardie, ci campano gli educatori: è il loro lavoro. Ci campano anche le associazioni e gli operatori del Terzo settore. Se tu cominci a mettere in crisi il castello delle attività, per fare un esempio, le modalità in cui le attività vengono eseguite, se tu metti in crisi una parte di apparato industriale (per industriale intendo produttivo) intorno al carcere, metti in crisi un sacco di gente, non solo gli addetti ai lavori dipendenti del ministero, che già sono una bella fetta di lavoratori, ma anche tutti quelli che sulla questione carcere ci campano, perché ci fanno teatro, orientamento al lavoro, o le mille altre cose che vengono fatte in carcere, tutto in una pantomima che, pure, ha i suoi risultati. Se non troviamo dentro questo mondo un barlume di innovazione si può andare avanti all’infinito con la magistratura di sorveglianza che continua a dare semilibertà e affidamenti su programmi che non hanno né babbo né mamma. Hai un lavoro, no? Ho la borsa lavoro perché vado nella cooperativa sociale x a tagliare l’erba tutte le mattine per quattro ore… E a quel punto l’educatore interviene, chiama la cooperativa e chiede: Ma alla fine della borsa di lavoro ci sarà l’assunzione? E tutti da quel momento in poi continuano a recitare questa commedia in cui il detenuto non è più una persona che ha l’unico scopo di diventare un uomo libero, cosa che non è, e invece viene fatto passare per essere un disoccupato che non lo è più perché è diventato un lavoratore. E questo è pazzesco perché stiamo parlando non di disoccupati, stiamo parlando di gente che ha in testa di eliminare il carcere dalla propria vita e diventare una persona libera. A quello scopo è disponibile a pagare prezzi che vanno ben oltre il sacrificio di quattro ore in una cooperativa sociale… Invece siamo talmente infingardi che dal primo all’ultimo degli operatori, dall’educatore alla guardia illuminata eccetera eccetera diciamo: Il ragazzo è cambiato completamente da quando va a lavorare… Pensando che lavorare sia uscire la mattina dal carcere andare a tagliare l’erba per quattro ore e poi tornare in carcere. Questo viene fatto passare come lavoro. Non solo: come lavoro educativo, perché la persona – l’educatore queste cose poi deve scriverle nella sua relazione – da quando sta vivendo l’esperienza lavorativa dimostra attaccamento ai propri compiti, svolge bene le sue mansioni, e bla bla bla… E qui parte il giudice di sorveglianza, che alla fine dell’esperienza legge la relazione dell’educatore, per cui dalla prima menzogna – parlo di menzogna tra virgolette, naturalmente – se ne costruisce un castello intero fino ad arrivare al lieto fine, perché quello non deve mancare mai. Il lieto fine. E cioè un percorso che ha funzionato e che ha redento la persona. Se ci fosse Tolstoi in uno dei periodi peggiori della sua vita scriverebbe un’altra Resurrezione.

Il lieto fine sarebbe quello delle famose percentuali sul lavoro che riduce la recidiva?

Sì, con tutti gli esempi della persona che parte in un modo molto negativo – perché è in carcere, è in carcere perché ha commesso un reato e lo ha commesso perché ha condotto la propria vita secondo criteri non proprio consoni alla convivenza – ma un po’ per merito del carcere, un po’ per merito di chi l’ha aiutata, un po’ per merito suo è cambiata, è diventata di nuovo compatibile con la società esterna, e quindi abbiamo vinto tutti. Ha vinto la persona che ha finito la pena e si spera che non ritorni in carcere, ha vinto l’educatore perché la sua proposta di programma ha funzionato, ha vinto il giudice perché ci ha visto bene, hanno vinto l’associazione e gli operatori dell’associazione perché hanno dimostrato di essere utili in tutto questo meccanismo in gran parte istituzionale.

Ma se fosse così in carcere entrerebbero sempre persone diverse, e invece spesso rientrano le stesse persone che ne erano uscite. Qui mi viene una riflessione sull’uso delle parole, “reinserimento sociale”, formula che mi pare ti risulti piuttosto indigesta.

Sì, un po’ come rieducazione. Quale termine userei? Non ho una parola che mi piace di più per descrivere la stessa cosa. Non ho una soluzione linguistica. “Reinserimento” è leggermente meglio di “rieducazione”, ma insomma siamo lì, è una parola tremenda, non descrive per niente quello che intende.

Si potrebbe parlare di riabilitazione, nel senso però di restituzione di capacità, di abilità.

Sì. È bruttina anche riabilitazione, intendiamoci, però l’idea di rendere la persona nuovamente capace di usare determinati strumenti è migliore elle altre. Margara usava riabilitazione. Prima usava incapacitazione, diceva che il carcere incapacita la persona. Per cui si tratta di renderla nuovamente abile a recuperare certe abilità o a possederle per la prima volta; a lavorare sulle “skills”, come le chiamano i più bravi.

O addirittura sulle cosiddette life skills. Come a scuola. Un’opera immensa…

È un ragionamento che andrebbe fatto in un contesto che ti permettesse di farlo, e invece siamo in un contesto che comunque va avanti, macina gente, situazioni, vite.

A questo proposito, il carcere italiano si trova costantemente, a livelli più o meno gravi, in condizioni di emergenza per vari aspetti, eppure si parla di cinquantaquattro, cinquantacinquemila persone detenute: una notevole minoranza.

Sì, il carcere non è un problema che sposta gli equilibri di tutto il resto.

No, da nessun punto di vista, direi, né economico, né sociale. Invece sposta molto dal punto di vista culturale, per quella infingardaggine di cui parlavi e su cui forse bisogna lavorare come fanno, peraltro, diversi soggetti anche del mondo del Terzo settore. E bisogna lavorarci fuori, perché il carcere o fa come il barone di Münchhausen e si tira su per i capelli, oppure non ce la fa.

Non ce la fa perché non ce la vuole fare.

Quindi l’unica possibilità è il contesto, e lì peggio mi sento – non è passata neanche la riforma tentata con gli Stati generali dell’esecuzione penale del 2015-2016. Cosa pensi di quel tentativo?

L’ho seguito solo perifericamente. È stato un tentativo credo serio di affrontare la questione del carcere da tutti i punti di vista. Pretendere, poi, che alla fine di quel lavoro ci fosse un reale spostamento in una direzione positiva è un po’ come pretendere che educazione e istruzione diventino le prime parole negli interventi in carcere.

Ma quel tentativo è stato il fuoco d’artificio che ha sepolto ogni possibilità?

Era difficile non essere pessimisti rispetto al prosieguo, perché più le cose sono serie e tendenzialmente innovative, in ambito carcerario… La riforma del ’75 di per sé era più che innovativa, era rivoluzionaria. Culturalmente, soprattutto. Ha favorito tante cose. Si è cominciato a parlare di questioni a cui prima non si accennava nemmeno. Il ponte tra il dentro e il fuori, il lavoro… Era innovativa rispetto al nulla che c’era prima. Poi nell’applicazione ha perso smalto e spinta, tant’è che dieci anni dopo la riforma Gozzini, la riforma della riforma, come veniva chiamata, ha forzato alcuni aspetti, introducendo la questione dei permessi premio con un criterio di premialità che ha rovesciato un po’ troppo il calzino, nel lodevole tentativo, però, di mantenere la riforma del ’75 nella vitalità che riforma aveva. E tuttora esiste un regolamento penitenziario, quello di Margara, che se venisse applicato farebbe chiudere diverse carceri. E siccome le carceri non le puoi chiudere, toccherebbe mettere sul piatto un modo di ragionare sul carcere un po’ diverso. Oggettivamente non c’è nulla da riformare rispetto a quanto attualmente è scritto sulla carta, nemmeno sulle misure alternative. L’unica aggiunta che si potrebbe fare è questa cosa di cui si ricomincia un pochino a discutere, le case territoriali per l’applicazione delle misure alternative, una vecchia proposta di Margara e di altri. A parte questo cos’altro aggiungere ai meccanismi dell’affidamento e della semilibertà? L’articolo 21 di per sé non è una misura alternativa, è una misura eccezionale, dal mio punto di vista. Se si vuole ragionare di lavoro in termini seri, basterebbe allargarlo a quei concetti di educazione e di istruzione e non di formazione finta, non necessariamente solo perché la persona vada a lavorare, ma perché abbia la possibilità di frequentare il mondo secondo certe regole. Penso a una delle ultime persone che è passata dal c.i.a.o. dopo ventisette anni di carcere, un signore tunisino che è partito a vent’anni dalla Tunisia, è arrivato in Sicilia, ha cominciato ad andare in carcere, finché l’ha fatta veramente grossa ed è uscito nel 2022, a cinquantaquattro anni. È cresciuto in carcere, facendo un guaio dietro l’altro, non era uno che si comportano da uomo ravveduto. Ora, è anche una persona che si impegna, ma non ce la fa, non ce la può fare. Non è in grado di rapportarsi in maniera corretta con il resto del mondo, e non perché faccia chissà che cosa, ma per un’ignoranza che non lo mette in grado di emanciparsi, di sopravvivere. E a proposito di lavoro: ne ha già cambiati tre.

Ha sempre fatto il detenuto, ha questa identità sostanziale che è un’identità anche sociale, al di là dello stigma che può rimanere. Non sa fare altro, non conosce altro.

Nella quantità incredibile di anni che ha trascorso in carcere (tranne gli ultimi tre o quattro, quando lo hanno trasferito a Porto Azzurro, dove si è tranquillizzato in attesa del fine pena) ha girato per venti istituti, era un ribelle incontenibile, o almeno contenibile con i trasferimenti, l’isolamento… Io ho fatto delle telefonate lunghissime, prima con il suo educatore di Porto Azzurro, poi con un sacerdote che lo seguiva: riproponevano un cliché di reinserimento – il lavoro, la casa – applicato a una persona che è entrata in carcere a vent’anni e ne è uscita dopo i cinquanta. Una persona che ha perso trent’anni di vita quale idea può essersi costruita nella sua testa, per esempio, del rapporto con l’altro sesso, o con il proprio? (Non so quali sono i suoi gusti.) Ho provato a parlare di questo argomento, ma non c’è stato verso. A me piacerebbe provare a sperimentare relazioni con queste persone non finalizzate esclusivamente a ottenere la “normalità”.

Nel tuo lavoro trentennale di cooperatore del mondo penitenziario quante persone hai incontrato che avessero, indipendentemente dalla loro cultura di provenienza e dal loro livello di istruzione, la lucidità per poter tentare la strada di cui parli?

Una decina, che poi corrispondono a quella piccola pattuglia di persone che hanno ripreso ad essere compatibili con l’ambiente che hanno scelto. Non è che bisogna smettere di dare accoglienza, ma risultati veri molto probabilmente si possono ottenere solo su numeri circoscritti. D’altra parte, non può essere la statistica il criterio che qualifica un lavoro, mentre la questione sulla quale tutti – educatori del carcere, servizi sociali del Comune – tendono a misurare i risultati è quella dei numeri. Allora io dico delle bugie, loro sanno che dico delle bugie e fanno finta di crederci, per cui mi rinnovano la convenzione e si va avanti così.

Bisognerebbe tirare su il velo.

Con intelligenza.

Secondo me un ruolo importante potrebbero averlo i soggetti teoricamente disinteressati nella macchina produttiva di cui parlavi all’inizio, ovvero i volontari. Un volontario non rischia il posto di lavoro, quindi forse potrebbe osare qualcosa di più. D’altra parte però un’eccessiva complementarietà fra Stato e volontariato significherebbe che lo Stato non riesce a svolgere da solo il proprio compito.

Sì. E poi bisognerebbe vedere se esiste un volontario del tutto disinteressato. Esistono volontari che entrano in carcere senza neanche ricevere il rimborso del viaggio, quasi sempre però si riscontra anche in loro una spinta di tipo molto ideale, o religioso. Fare volontariato è un modo di valorizzare sé stessi indipendentemente dagli effettivi risultati. Sono i cliché che rovinano tutto.

Quello del lavoro, di cui hai detto, per esempio.

Abbiamo cominciato a pensare che i detenuti fossero prima di tutto dei disoccupati. Se io esco dal carcere e non ho di che campare, torno a delinquere.

Il punto però è: queste persone sanno cosa vuol dire lavorare? In quale contesto si troveranno una volta uscite dal carcere? Perché non c’è solo il lavoro, c’è anche tutto quello che sta intorno al lavoro. E prevale un’idea di lavoro molto povera, il lavoro come pura esecuzione.

D’altra parte, mentre noi parliamo di educazione e di istruzione continua ad esserci un carcere dove le persone stanno rinchiuse per ventiquattro ore al giorno per settimane, mesi, anni e decenni. Il tempo non viene usato. Perché? Come mai in carcere non si fa una scuola come Cristo comanda? La scuola continua a essere aperta se garantisce certi numeri…

È una delle questioni in cui a mio avviso gli estremi, scuola e carcere, si toccano e rimandano a meccanismi di fondo che non si vogliono mettere in discussione.

Il parallelismo con la scuola potrebbe aiutare a ragionare sul carcere. E poi i numeri: se invece che cinquantamila le persone detenute fossero cinquecentomila, nelle varie teorie sul trattamento si comincerebbero a vedere contraddizioni tali da essere spinti a un ragionamento più maturo. E aggiungo una cosa che, se l’avessi sentita trent’anni fa, mi sarei girato dall’altra parte: se, con le stesse risorse, si lavorasse su numeri più bassi, facendo una selezione, allora il trattamento differenziato in carcere potrebbe avere il suo perché. Prima però si dovrebbe garantire anzitutto un carcere dove ci si può lavare, dove si può mangiare senza dover spendere tutto quello che si ha… Una volta garantita questa base di civiltà a tutti, si potrebbero fare musica, teatro, lettura considerandole non attività ricreative ma attività che tendono a far crescere la sostanza della persona. Ma mi rendo conto che dalle mie riflessioni è molto difficile tirar fuori una benché minima proposta di intervento.

In realtà una proposta c’è, è la proposta di uno sguardo diverso, di una rivoluzione copernicana per cui il carcere dovrebbe smettere di guardarsi come il centro di un universo chiuso.

Se questo cambia, allora crolla tutto.

E questa è la proposta. Non è da ora che tu fai questo genere di riflessioni.

Con il c.i.a.o. ci abbiamo provato, ci proviamo, ma non troviamo ascolto. In carcere ci sono dei meccanismi che evidentemente impediscono una fluidità nel rapporto con le persone detenute. Probabilmente c’è molta burocrazia, ma non solo… Gli educatori conoscono le persone quando proprio non ne possono fare a meno, e non si capisce che cosa devono fare… In sezione mai, colloqui con una persona mai.

Mediamente, per esempio a Sollicciano, un educatore quante persone detenute ha nella sua responsabilità?

Ora sono dodici educatori, i detenuti in tutti sono circa cinquecento, ma definitivi dovrebbero essere la metà.

È un dato non rappresentativo, ma interessante per provare a capire come il livello di burocrazia incide sul lavoro in carcere. Ogni educatore dovrebbe occuparsi mediamente di circa venti, venticinque persone.

Sì. Dovrebbe fare tre o quattro colloqui al giorno. In capo a una settimana avrebbe fatto tutti quelli che gli toccano. Lavorando sei ore al giorno cinque giorni la settimana qualcosa in tutto l’anno dovrebbero riuscire a combinare i funzionari giuridico pedagogici, come si chiamano ora. Solo il ministero poteva inventare questa definizione per togliere la parola educatore. E questo la dice tutta.

 

 

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Autore

giadaceri@minimaetmoralia.it

Giada Ceri (Firenze, 1972) ha lavorato presso case editrici, riviste (“Exibart” e “Testimonianze”), organizzazioni del Terzo settore impegnate nell’ambito penitenziario. Ha insegnato la lingua italiana a persone straniere (soprattutto migranti e immigrate). Dal 2020 lavora come docente di materie letterarie nella scuola secondaria di primo grado. Ha pubblicato "L’uno. O l’altro" (Giano Editore, 2003), "Il fascino delle cause perse" (Italic Pequod, 2009), "Gli imperatori. Sei volti del potere" (Melville Edizioni, 2016), "La giusta quantità di dolore" (Exòrma Edizioni, 2018). Nel 2014, per la Fondazione Circolo Fratelli Rosselli, ha curato il Quaderno «È una bella prigione, il mondo» sui temi del carcere italiano contemporaneo. Ha scritto per volerelaluna.it e attualmente collabora, oltre che con minima&moralia, con la rivista «Una Città» e il blog «Il primo amore».

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